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GIUSEPPE BERNERI

MEO PATACCA




altre pagine:
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CANTO II
CANTO III
CANTO IV
CANTO V
CANTO VI
CANTO VII
CANTO VIII
CANTO IX
CANTO X
CANTO XI
CANTO XII
APPENDICE
I LUOGHI
DI
MEO PATACCA


Nel Meo Patacca il ruolo della città di Roma va ben oltre quello del semplice sfondo o ambientazione passiva. C'è interazione con la trama, coi personaggi, come ad esempio nell'episodio in cui Tolla si perde perché la girandola di Castello ha richiamato una folla di gente, o come quando viene assaltato il Ghetto. Sebbene le case dei vari Meo, Nuccia, Calfurnia, Marco Pepe, ecc. vadano cercati nella fantasia dell'autore, diversi luoghi teatro dell'azione vengono esplicitamente chiamati in causa; Berneri non ne fa una semplice citazione, ma li descrive, quasi a volerli rendere coprotagonisti della storia.
Questa pagina vuole quindi brevemente riesaminare questi luoghi, anche per confrontare il loro aspetto attuale con quello che avevano nel XVII secolo, in alcuni casi assai diverso.



CAMPO VACCINO

il discorso di Meo agli sgherri (Canto I),
il duello di Meo con Marco Pepe (Canto IV),
la presentazione delle truppe di Meo (Canto VI)


Quello che Berneri descrive come un luogo disabitato, fuori mano, dove i bravi si sfidavano in micidiali sassaiole, altro non era se non l'attuale zona archeologica del Foro Romano.
Le vicendevoli fortune di quest'area, dall'epoca pre-romana ad oggi, l'hanno portata ad assumere diverse configurazioni.

il Foro Romano, come si presenta oggi
Dapprima una semplice valle, dove le popolazioni che abitavano le alture circostanti si riunivano ogni otto giorni per vendere e comprare merci, al di fuori (foras) dei rispettivi territori tribali, poi il salotto buono della città repubblicana ed imperiale, dove sorgevano i maggiori templi, poi un'area abbandonata, poi dal XV secolo sede del mercato del bestiame (donde il nome Vaccino), e infine, ma da non più di un secolo e mezzo, la più illustre fra le aree archeologiche della Roma moderna, con la restituzione dell'antico toponimo "Foro".
Data l'originale importanza del luogo, non poteva che occupare una posizione di tutto rilievo, delimitato dall'altura del Campidoglio e la mole del Colosseo, e dai colli Palatino ed Esquilino (sulle cui pendici sorgeva la malfamata Suburra, il Bronx dell'antica Roma).
Dall'inizio del medioevo (V-VI secolo) quest'area cominciò ad apparire più dimessa, con le varie costruzioni sempre più in rovina.
La religione di Roma, ormai cristianizzata, non esigeva più templi nel vecchio stile, e non vi era alcuna ragione di curarsi di quelli antichi pagani, anzi venivano attinti dal foro materiali da costruzione pregiati per la costruzione (altrove) di case, chiese ed altri edifici pubblici, atteggiamento duro a morire, considerando che il "fontanone" del Gianicolo, agli inizi del XVII secolo fu costruito in gran parte usando i marmi del Foro di Nerva.
Il tempo, l'incuria e i barbari fecero il resto, e così in non molto tempo del Foro rimase solo l'ampio spazio, ingombro delle macerie non utilizzabili.
Con l'accumulo di terra, materiale da riporto, e ...monnezza (pattume, per i non romani), all'epoca di Meo Patacca, cioè mille anni dopo, l'aspetto era divenuto quello di un campo, un grosso "buco" al centro di una Roma ormai riedificata e urbanizzata, dove però ancora affioravano qua e là colonne rotte ed altri frammenti di templi. Lo spazio era ingentilito da un doppio filare di alberi, come Berneri descrive in versi; ciò trova perfetta rispondenza nella pianta di Roma disegnata da Antonio Tempesta (1676).

Campo Vaccino, nella pianta di A.Tempesta;
si noti il doppio filare di alberi

Campo Vaccino, in un'incisione di G.B.Piranesi: alla fine del
XVIII secolo, del doppio filare non restava che qualche albero sparso
Nonostante l'interesse dei papi verso l'antico avesse già cominciato a risvegliarsi sin dal Rinascimento, e nonostante alcuni notevoli ritrovamenti fossero già avvenuti in quest'area (come la famosa statua giacente detta Marforio), un vero e proprio scavo non fu condotto prima del XIX secolo, procedendo a piccoli passi, poi in modo sistematico solo dopo il 1870, cioè dopo il passaggio della città dalle mani del papa a quelle del re d'Italia. Purtroppo, ciò che gli archeologi trovarono, e che vediamo tutt'oggi, è costituito in massima parte da rovine.



IL CAMPIDOGLIO

il torneo organizzato e vinto da Meo (Canto XI)


Il Campidoglio è già stato trattato a proposito della sua raffigurazione sulle monete da 50 centesimi, pagina a cui si rimanda anche per una maggiore documentazione grafica.
La sommità del colle costituì uno dei primi nuclei della futura città, e in età repubblicana lungo le sue pendici corsero le mura serviane, che si aprivano più o meno all'altezza dell'attuale piazza Venezia nella Porta Fontinalis, oggi scomparsa, come pure gran parte della stessa cinta muraria. Ma soprattutto il Campidoglio divenne sede del tempio di Giove Capitolino, sancta sanctorum della Roma imperiale. L'altura dominava il sottostante Foro, ed è dallo stesso Foro che i sacerdoti raggiungevano il tempio. Infatti, al contrario di oggi, il suo versante nord, quello che guarda verso il Campo Marzio, era una scarpata poco accessibile.

il Palazzo Senatorio sul Campidoglio (freccia),
particolare dalla pianta di P. del Massaio, 1472
Come l'adiacente Foro, o Campo Vaccino, il Campidoglio conobbe secoli bui nella seconda metà del primo millennio. Distrutti i principali templi, di cui sostanzialmente non è rimasta traccia, vi pascolarono le pecore (monte Caprino) fino al XII secolo.
Poi, su ciò che rimaneva dell'antico Tabularium (archivio), si costruì il grande Palazzo Senatorio, e il luogo riacquistò la sua importanza sociale; qui si riunivano gli amministratori di Roma, i Senatori.

Ma palazzo a parte, il colle rimaneva una semplice scarpata, e dai venditori ambulanti di generi alimentari che qui tenevano periodicamente una specie di fiera, venne soprannominato faba tosta (cioè fava cotta).
Fu Paolo III (1534-49) che ebbe l'idea di sistemare finalmente la sommità del Campidoglio, incaricando nientemeno che Michelangelo, a cui si deve l'ingrandimento dell'edificio preesistente (poi ulteriormente modificato da G. Della Porta e G.Rainaldi) e l'aggiunta, sui lati della piazza, del Palazzo dei Conservatori e del Palazzo Nuovo, quest'ultimo realizzato oltre mezzo secolo dopo.

piazza del Campidoglio, particolare dalla pianta di A.Tempesta
Così alla celebre piazza, da allora, è rimasta la fisionomia che lo stesso Berneri ci racconta: tre grandi palazzi, le cui luminarie fanno luce dai fianchi fino al fondo (il Palazzo Senatorio), e al centro la celebre statua di Marco Aurelio, che Paolo III fece trasferire dal Laterano; Michelangelo, pur contrario allo spostamento, ne disegnò l'alto basamento, quello su cui Nuccia si arrampica - rischiando l'osso del collo - per assistere alle prodezze di Meo.



IL CORSO E IL CARNEVALE ROMANO

le feste organizzate da Meo (Canto VII)



I Moccoletti al Corso (part.), Ippolito Caffi, 1850 c.
Ciò che Berneri descrive come una circostanza occasionale, indetta per motivi straordinari, somiglia molto a quanto avveniva in forma quasi istituzionalizzata durante il Carnevale, che si teneva a via del Corso e nelle sue adiacenze (per i particolari, vedi Curiosità Romane - 10), a cui l'autore certamente si ispirò nel descrivere il giubilo di piazza per Vienna.
Le luminarie erano una costante di questo importante appuntamento romano, e proprio con una fiaccolata, la corsa dei moccoletti, si chiudevano gli otto giorni più attesi dell'anno. Le rare testimonianze visive dell'evento, come il dipinto di Ippolito Caffi qui a lato, restituiscono abbastanza fedelmente il colpo d'occhio di Roma che Berneri immaginò nel descrivere le feste organizzate da Meo.



PIAZZA NAVONA

Meo attacca briga con i diffamatori (Canto III),
Meo nella rappresentazione della presa di Buda (Canto XII)


Della piazza, a cui molti danno la palma della più bella di Roma, si è già parlato nella sezione sui rioni (cfr. R.VI Parione), ed anche a proposito della rivalità fra i due maggiori architetti barocchi di Roma (cfr. Roma Leggendaria, Bernini contro Borromini); si rimanda a queste due pagine per ulteriori immagini e particolari.
Nata dalle rovine del Circo di Domiziano, di cui mantiene fedelmente la forma, la piazza prese il nome dai giochi che si tenevano nell'antica struttura, i Ludi Agonales.
I nomi ufficiali Platea Agonalis, o Campo in Agone, o Foro Agonale, o simili, erano ancora vivi nel XVII secolo, anche se nel linguaggio comune il nome popolare Navona, derivato dalla corruzione di "in Agone", era già diffuso.
Quando Berneri compose il Meo Patacca, la sistemazione di piazza Navona era stata ultimata da una quarantina d'anni, ma il suo fascino senza dubbio colpiva romani e forestieri come se fosse stata ultimata il giorno prima.

Da cupa tana, ch'è pur qui sculpita
Assetato Lion se n'esce in fora,
Sta sopra i sassi, e regge lì la vita,
Piega le spalle, e abbassa il collo ancora.
L'arida lingua dalle fauci uscita
Al pian dell'acqua non arriva, e allora
Si slonga quanto può, non quanto deve,
Tocca e non tocca, e lui beve e non beve.
il leone che emerge dalla tana
(porta il cursore sulla foto per i versi)
Estatico, un di loro si strabilia,
E un altro iscontro a lui pe' maraviglia,
Reggenno con la man l'arme Panfilia,
Arme d'eccellentissima famiglia;
A questa già la Musa mia s'umilia,
E lei puro inarcanno va le ciglia,
Et a raggion de venerà glie tocca
La gran Colomba c'ha l'olivo in bocca.
lo stemma dei Pamphilj
(porta il cursore sulla foto per i versi)

Non deve quindi stupirci se Berneri dedicò alla descrizione della piazza ben ventuno ottave del Canto III, e di queste quattordici alla sola Fontana dei Fiumi, mentre per la chiesa di S.Agnese non spese neppure una parola. Questo ci fa pensare che, mentre Bernini riscosse con la sua opera grandi successi di popolo, Borromini, pur essendo anch'egli autore di una gran bella chiesa, dovette - come si dice a Roma - rosicare, e anche parecchio!

Berneri dà dei molti particolari della Fontana dei Fiumi una brillantissima descrizione in versi (ne vengono mostrati alcuni esempi), da cui traspare come un tempo le fontane, ma anche le statue, e tutto ciò che costituiva arte figurativa, veniva vissuto dal popolo in modo molto concreto, una sorta di realtà virtuale, come ai nostri giorni si concepirebbe un videogioco, o una simulazione al computer: si può comprendere come lo stesso popolo, pur costituito in gran parte da analfabeti, avesse un ruolo importante nel decretare il successo o l'insuccesso di un artista, a seconda del gradimento che le nuove opere (una statua, un palazzo, ecc.) riscuotevano fra il volgo.
Come fa in tel pantano un'anatrozza,
Così appunto un Delfin qui a noto sguazza,
E un'altro pesce, e ogn'un di loro ingozza
L'acqua che spasa è già nella gran tazza
il pesce che inghiotte l'acqua
(porta il cursore sulla foto per i versi)


piazza Navona e dintorni nella pianta di
G.B. Nolli (1748); un cerchio indica il
sito del finto assedio, mentre un punto
segna il "biscanto" dov'è Pasquino
Infine, nell'ultimo Canto, il finto assedio di Meo alla città di Buda è ambientato in uno slargo appena alle spalle di piazza Navona. Le indicazioni che Berneri ne dà sono ancora una volta così precise (...uno spazio più in là, dove ha 'l confino / Della Cuccagna il vicolo...), che è possibile identificarlo senza ombra di dubbio; il confronto delle antiche piante di Roma mostra che, limitatamente a questo isolato, la topografia è in pratica rimasta la stessa che ispirò Berneri.

aspetto attuale dello slargo situato
al termine di vicolo della Cuccagna



LA GIRANDOLA DI CASTEL SANT'ANGELO

lo spettacolo di fuochi d'artificio da Castello (Canto VIII)


la girandola di Castel Sant'Angelo,
Francesco Piranesi (1783)
Ce fussi 1 a la girannola jerzera 2 ?
Ma eh? che funtanoni 3 ! eh? che scappate 4 !
Quante battajerie 5 ! che cannonate!
Cristo, er monno 6 de razzi che nun c'era!

1.C'eri
2. ieri sera
3. grandi fontane (di luce)
4. spruzzi di fuoco
5. batterie (di colpi sparati)
6. mondo

Così comincia il sonetto di G.G.Belli La girannola der 34 (scritto il 4 aprile 1834, pochi giorni dopo l'evento), dedicato a questa popolarissima tradizione romana, oggi purtroppo scomparsa. Lo spettacolo pirotecnico consisteva nello sparo di vari tipi di fuochi d'artificio, dai semplici mortaretti (o mortaletti, spiegati da Berneri nei minimi dettagli) a quelli più complessi, con giochi di luci colorate. Lo si fa risalire al XVI secolo - si dice fosse stato inventato da Michelangelo! - e fino alla seconda metà dell'800 fu regolarmente praticato.
Si teneva in occasione di particolari festività dalle terrazze del Castello, affinché il maggior numero di spettatori potesse goderne la vista.

Varie sono le testimonianze pervenuteci, tanto in versi che in disegni, dipinti ed incisioni di autori di varie epoche e varie provenienze (H. van Cleef nel '500; F. Piranesi, F. Panini e J. Wright nel '700; F.T. Aerni nell'800); le luci colorate che si alzavano da Castello e si riflettevano nel Tevere dovevano lasciare gli spettatori davvero di stucco.
Il clou dello spettacolo, come si legge anche nel Canto VIII, era appunto la "girandola" finale, cioè lo sparo simultaneo di un gran numero di razzi, il cui perfezionamento è attribuito a Gian Lorenzo Bernini, e che illuminavano a giorno il cielo di Roma, anche se solo per una manciata di secondi:

Son cose belle sì, ma a parlà schietto,
Il finir troppo presto è il lor difetto.


   (Canto VIII, 73)

la girandola di Castel Sant'Angelo,
dipinto di Joseph Wright (1779)




IL GHETTO

l'assedio al Ghetto (Canto XII)


Del ghetto, o "serraglio degli Hebrei", come era detto ai tempi di Paolo IV, che nel 1555 volle istituirlo, si è già ampiamente parlato in Curiosità Romane - pagina 6, a cui si rimanda per i dettagli e le immagini.
Nel Meo Patacca troviamo che le porte d'accesso, dalle tre originarie, erano diventate quattro, più un portoncino: per fronteggiare il sovraffollamento da parte di diverse migliaia di ebrei, il papa si vide costretto ad ordinare un seppur modesto allargamento dei confini dell'enclave.

il mercato del pesce presso Portico d'Ottavia, alle spalle, sorgeva
presso una delle porte del ghetto (da un'incisione del XVIII secolo di G.Vasi)

Più che sul luogo, liquidato in due versi (È un recinto di strade assai meschino / Ch'è ombroso, e renne ancor malinconia.), Berneri indugia sulla parlata degli ebrei romani.

piazza Giudia, fuori del Ghetto (incisione di G.Vasi):
si notino una delle porte, e il palo per le pene ai trasgressori
Il giudaico-romanesco, pieno di vocaboli, espressioni ed interiezioni mutuate dalla lingua ebraica, costituiva una sorta di dialetto parallelo a quello proprio di Roma, parlato da una netta minoranza, ma con pari dignità sul piano linguistico. "Era", perché purtroppo si è del tutto estinto, ma non senza aver avuto anch'esso un valido poeta dialettale in Crescenzo Del Monte (1868-1935). Anche a Giggi Zanazzo, uno dei primi attenti osservatori del dialetto di Roma, non sfuggì la parlata giudaico-romanesca, che agli inizi del secolo scorso esisteva ancora, e nella sua opera Tradizioni Popolari Romane (1907) è riportata una lista di vocaboli ed espressioni, di cui la tabella seguente mostra un piccolo esempio.


GIUDAICO-ROMANESCO
ITALIANO
Alèffe; Bèdene; Ghìmene; Àrbano; Camìcia; ...-vaghézzi     Uno; Due; Tre; Quattro; Cinque; ...e mezzo
Baruccabbà Benvenuto
Bacurri; Iacodimmi; Sciabadai Ebrei
Cacàmme Rabbino maggiore; Dotto, Sapiente
Cascèrro Bello; Puro
Chénne
Chiùsi Cristiani (= non circoncisi)
Mònna Signora
Picciurèllo Pene
Scioscianìmme Mammelle




Concludiamo con una piccola curiosità.

via dell'Arco di S.Marco
(E. Roesler Franz)
All'inizio della storia, Berneri cita alcuni dei locali á la page della Roma di fine seicento, fra i quali "I Tre Re". Non si può escludere che questo sia un nome inventato, a quell'epoca molte locande e alberghi si chiamavano "I Tre Re", anche in altre città.
Fra i famosi acquerelli di Ettore Roesler Franz (1852-1907) della serie Roma sparita, ve n'è uno che mostra la via dell'Arco di San Marco, presso piazza Venezia, scomparsa dopo lo sventramento dell'area, attorno agli inizi del XX secolo, per la costruzione dell'ingombrante Vittoriano. In un angolo della veduta fa capolino un'insegna dove si legge ALBERGO DEI TRE RE, che a noi piace pensare essere quello stesso conosciuto da Berneri, quando

Stava Roma paciosa, allor, che l'anno
Mille seicento ottanta tre curreva.




Il medesimo luogo è anche citato da Giuseppe Gioacchino Belli in un sonetto datato 13 settembre 1830, in cui un popolano, inseguito nottetempo da una guardia papalina, si dà alla fuga lungo questa via con la patta dei calzoni in mano:
E con la patta in mano pijo l'Arco
De li tre Re, strillanno: « Vienghi puro ».
(La pisciata pericolosa, vv. 8-9)




G.G.Belli
BELLI
C.Pascarella
PASCARELLA
Zanazzo
ZANAZZO
Trilussa
TRILUSSA
A.Fabrizi
FABRIZI
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