Nel Meo Patacca il ruolo della città di Roma va ben oltre
quello del semplice sfondo o ambientazione passiva. C'è interazione con
la trama, coi personaggi, come ad esempio nell'episodio in cui Tolla si perde
perché la girandola di Castello ha richiamato una folla di gente, o come
quando viene assaltato il Ghetto. Sebbene le case dei vari Meo,
Nuccia, Calfurnia, Marco Pepe, ecc. vadano cercati nella fantasia dell'autore,
diversi luoghi teatro dell'azione vengono esplicitamente chiamati in causa;
Berneri non ne fa una semplice citazione, ma li descrive, quasi a volerli
rendere coprotagonisti della storia.
Questa pagina vuole quindi brevemente riesaminare questi luoghi, anche per
confrontare il loro aspetto attuale con quello che avevano nel XVII secolo,
in alcuni casi assai diverso.
CAMPO VACCINO
il discorso di Meo agli sgherri (Canto I),
il duello di Meo con Marco Pepe (Canto IV),
la presentazione delle truppe di Meo (Canto VI)
Quello che Berneri descrive come un luogo disabitato, fuori mano,
dove i bravi si sfidavano in micidiali sassaiole, altro non era se non
l'attuale zona archeologica del Foro Romano.
Le vicendevoli fortune di quest'area,
dall'epoca pre-romana ad oggi, l'hanno portata ad assumere diverse configurazioni.

il Foro Romano, come si presenta oggi |
Dapprima una semplice valle, dove le popolazioni che abitavano le alture circostanti si riunivano
ogni otto giorni per vendere e comprare merci, al di fuori (foras) dei rispettivi
territori tribali, poi il salotto buono della città repubblicana ed imperiale,
dove sorgevano i maggiori templi, poi un'area abbandonata, poi dal XV secolo
sede del mercato del bestiame (donde il nome Vaccino), e infine, ma da non più
di un secolo e mezzo, la più illustre fra le aree archeologiche della Roma
moderna, con la restituzione dell'antico toponimo "Foro". |
Data l'originale importanza del luogo, non poteva che occupare una posizione
di tutto rilievo, delimitato dall'altura del Campidoglio e
la mole del Colosseo, e dai colli Palatino ed Esquilino
(sulle cui pendici sorgeva la malfamata Suburra, il Bronx dell'antica Roma).
Dall'inizio del medioevo (V-VI secolo) quest'area cominciò ad apparire
più dimessa, con le varie costruzioni sempre più in rovina.
La religione di Roma, ormai cristianizzata,
non esigeva più templi nel vecchio stile, e non vi era alcuna ragione di curarsi
di quelli antichi pagani, anzi venivano attinti dal foro materiali da
costruzione pregiati per la costruzione (altrove) di case, chiese ed altri
edifici pubblici, atteggiamento duro a morire, considerando che il "fontanone"
del Gianicolo, agli inizi del XVII secolo fu costruito in gran parte usando i marmi del Foro
di Nerva.
Il tempo, l'incuria e i barbari fecero il resto, e così in non molto tempo del
Foro rimase solo l'ampio spazio, ingombro delle macerie non utilizzabili.
Con l'accumulo di terra, materiale da riporto, e ...monnezza (pattume, per i
non romani), all'epoca di Meo Patacca, cioè mille anni dopo, l'aspetto era
divenuto quello di un campo, un grosso "buco" al centro di una Roma ormai
riedificata e urbanizzata, dove però ancora affioravano qua e là colonne
rotte ed altri frammenti di templi. Lo spazio era ingentilito da un doppio
filare di alberi, come Berneri descrive in versi; ciò trova perfetta rispondenza
nella pianta di Roma disegnata da Antonio Tempesta (1676). |

Campo Vaccino, nella pianta di A.Tempesta;
si noti il doppio filare di alberi |

Campo Vaccino, in un'incisione di G.B.Piranesi: alla fine del
XVIII secolo, del doppio filare non restava che qualche albero sparso |
Nonostante l'interesse dei papi verso l'antico
avesse già cominciato a risvegliarsi sin dal Rinascimento, e nonostante alcuni
notevoli ritrovamenti fossero già avvenuti in quest'area (come la famosa statua
giacente detta Marforio), un vero e proprio scavo non fu condotto prima del
XIX secolo, procedendo a piccoli passi, poi in modo sistematico solo dopo il
1870, cioè dopo il passaggio della città dalle mani del papa a quelle del
re d'Italia. Purtroppo, ciò che gli archeologi trovarono, e che vediamo
tutt'oggi, è costituito in massima parte da rovine. |
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IL CAMPIDOGLIO
il torneo organizzato e vinto da Meo (Canto XI)
Il Campidoglio è già stato trattato a proposito della sua
raffigurazione sulle monete da
50 centesimi, pagina
a cui si rimanda anche per una maggiore documentazione grafica.
La sommità del colle costituì uno dei primi nuclei della futura città, e in età
repubblicana lungo le sue pendici corsero le mura serviane, che si aprivano
più o meno all'altezza dell'attuale piazza Venezia nella Porta Fontinalis, oggi
scomparsa, come pure gran parte della stessa cinta muraria. Ma soprattutto
il Campidoglio divenne sede del tempio di Giove Capitolino,
sancta sanctorum della Roma imperiale. L'altura dominava il sottostante Foro,
ed è dallo stesso Foro che i sacerdoti raggiungevano il tempio. Infatti,
al contrario di oggi, il suo versante nord, quello che guarda verso il
Campo Marzio, era una scarpata poco accessibile.

il Palazzo Senatorio sul Campidoglio (freccia),
particolare dalla pianta di P. del Massaio, 1472 |
Come l'adiacente Foro, o Campo Vaccino, il Campidoglio conobbe secoli bui
nella seconda metà del primo millennio. Distrutti i principali templi,
di cui sostanzialmente non è rimasta traccia, vi pascolarono le pecore (monte
Caprino) fino al XII secolo.
Poi, su ciò che rimaneva dell'antico Tabularium (archivio),
si costruì il grande Palazzo Senatorio, e il luogo riacquistò la sua importanza
sociale; qui si riunivano gli amministratori di Roma, i Senatori. |
Ma palazzo a parte, il colle rimaneva una semplice scarpata, e dai
venditori ambulanti di generi alimentari che qui tenevano periodicamente
una specie di fiera, venne soprannominato faba tosta (cioè fava
cotta).
Fu Paolo III (1534-49) che ebbe l'idea di sistemare finalmente la sommità del Campidoglio,
incaricando nientemeno che Michelangelo, a cui si deve l'ingrandimento
dell'edificio preesistente (poi ulteriormente modificato da G. Della Porta e
G.Rainaldi) e l'aggiunta, sui lati della piazza, del Palazzo dei Conservatori
e del Palazzo Nuovo, quest'ultimo realizzato oltre mezzo secolo dopo.
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piazza del Campidoglio, particolare dalla pianta di A.Tempesta |
Così alla celebre piazza, da allora, è rimasta la fisionomia che
lo stesso Berneri ci racconta: tre grandi palazzi, le cui
luminarie fanno luce dai fianchi fino al fondo (il Palazzo Senatorio), e
al centro la celebre statua di Marco Aurelio, che Paolo III fece
trasferire dal Laterano; Michelangelo, pur contrario allo spostamento,
ne disegnò l'alto basamento, quello su cui Nuccia si arrampica - rischiando
l'osso del collo - per assistere alle prodezze di Meo.
IL CORSO E IL CARNEVALE ROMANO
le feste organizzate da Meo (Canto VII)

I Moccoletti al Corso (part.), Ippolito Caffi, 1850 c. |
Ciò che Berneri descrive come una
circostanza occasionale, indetta per motivi straordinari, somiglia molto
a quanto avveniva in forma quasi istituzionalizzata durante il Carnevale,
che si teneva a via del Corso e nelle sue adiacenze (per i particolari,
vedi Curiosità Romane - 10), a cui
l'autore certamente si ispirò nel descrivere il giubilo di piazza per Vienna.
Le luminarie erano una costante di questo importante appuntamento romano,
e proprio con una fiaccolata, la corsa dei moccoletti, si chiudevano gli
otto giorni più attesi dell'anno. Le rare testimonianze visive dell'evento,
come il dipinto di Ippolito Caffi qui a lato, restituiscono abbastanza fedelmente
il colpo d'occhio di Roma che Berneri immaginò nel descrivere le feste organizzate
da Meo. |
PIAZZA NAVONA
Meo attacca briga con i diffamatori (Canto III),
Meo nella rappresentazione della presa di Buda (Canto XII)
Della piazza, a cui molti danno la palma della più bella di Roma, si è già parlato nella
sezione sui rioni (cfr.
R.VI Parione), ed anche
a proposito della rivalità fra i due maggiori architetti barocchi di Roma
(cfr.
Roma Leggendaria,
Bernini contro Borromini);
si rimanda a queste due pagine per ulteriori immagini e particolari.
Nata dalle rovine del Circo di Domiziano, di cui mantiene fedelmente la forma,
la piazza prese il nome dai giochi che si tenevano nell'antica struttura,
i Ludi Agonales.
I nomi ufficiali Platea Agonalis, o Campo in Agone, o
Foro Agonale, o simili, erano ancora vivi nel XVII secolo, anche se nel
linguaggio comune il nome popolare Navona, derivato dalla corruzione di
"in Agone", era già diffuso.
Quando Berneri compose il Meo Patacca, la sistemazione di piazza
Navona era stata ultimata da una quarantina d'anni, ma
il suo fascino senza dubbio colpiva romani e forestieri come se fosse stata
ultimata il giorno prima.

il leone che emerge dalla tana
(porta il cursore sulla foto per i versi)
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lo stemma dei Pamphilj
(porta il cursore sulla foto per i versi)
Non deve quindi
stupirci se Berneri dedicò alla descrizione della piazza
ben ventuno ottave del Canto III, e di queste quattordici alla sola
Fontana dei Fiumi, mentre per la chiesa di S.Agnese non spese neppure
una parola. Questo ci fa pensare che, mentre Bernini riscosse
con la sua opera grandi successi di popolo, Borromini, pur essendo anch'egli
autore di una gran bella chiesa, dovette - come si dice a Roma - rosicare, e anche
parecchio!
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Berneri dà dei molti particolari della Fontana dei Fiumi
una brillantissima descrizione in versi (ne vengono mostrati alcuni esempi), da cui traspare come un tempo
le fontane, ma anche le statue, e tutto ciò che costituiva arte figurativa,
veniva vissuto dal popolo in modo molto concreto, una sorta di realtà virtuale,
come ai nostri giorni si concepirebbe un videogioco, o una simulazione al
computer: si può comprendere come lo stesso popolo, pur costituito in gran parte
da analfabeti, avesse un ruolo importante nel decretare il successo o l'insuccesso
di un artista, a seconda del gradimento che le nuove opere
(una statua, un palazzo, ecc.) riscuotevano fra il volgo. |

il pesce che inghiotte l'acqua
(porta il cursore sulla foto per i versi) |

piazza Navona e dintorni nella pianta di
G.B. Nolli (1748); un cerchio indica il
sito del finto assedio, mentre un punto
segna il "biscanto" dov'è Pasquino |
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Infine, nell'ultimo Canto, il finto assedio di Meo alla città
di Buda è ambientato in uno slargo appena alle spalle di piazza Navona.
Le indicazioni che Berneri ne dà sono ancora una volta così precise
(...uno spazio più in là, dove ha 'l confino / Della Cuccagna il
vicolo...), che è possibile identificarlo senza ombra di dubbio; il confronto
delle antiche piante di Roma mostra che, limitatamente a questo isolato, la
topografia è in pratica rimasta la stessa che ispirò Berneri. |
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aspetto attuale dello slargo situato
al termine di vicolo della Cuccagna |
LA GIRANDOLA DI CASTEL SANT'ANGELO
lo spettacolo di fuochi d'artificio da Castello (Canto VIII)
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la girandola di Castel Sant'Angelo,
Francesco Piranesi (1783) |
Ce fussi 1 a la girannola jerzera 2 ?
Ma eh? che funtanoni 3 ! eh? che scappate 4 !
Quante battajerie 5 ! che cannonate!
Cristo, er monno 6 de razzi che nun c'era!
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1.C'eri
2. ieri sera
3. grandi fontane (di luce)
4. spruzzi di fuoco
5. batterie (di colpi sparati)
6. mondo
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Così comincia il sonetto di G.G.Belli La girannola der 34 (scritto il
4 aprile 1834, pochi giorni dopo l'evento),
dedicato a questa popolarissima tradizione romana, oggi purtroppo scomparsa. Lo spettacolo pirotecnico
consisteva nello sparo di vari tipi di fuochi d'artificio, dai semplici
mortaretti (o mortaletti, spiegati da Berneri nei minimi dettagli) a quelli
più complessi, con giochi di luci colorate. Lo si fa
risalire al XVI secolo - si dice fosse stato inventato da
Michelangelo! - e fino alla seconda metà dell'800 fu regolarmente praticato.
Si teneva in occasione di particolari festività dalle terrazze del Castello, affinché il
maggior numero di spettatori potesse goderne la vista. |
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Varie sono le testimonianze pervenuteci,
tanto in versi che in disegni, dipinti ed incisioni di autori di varie epoche e
varie provenienze (H. van Cleef nel '500; F. Piranesi,
F. Panini e J. Wright nel '700; F.T. Aerni nell'800); le luci colorate
che si alzavano da Castello e si riflettevano nel Tevere dovevano lasciare gli
spettatori davvero di stucco.
Il clou dello spettacolo, come si legge anche nel Canto VIII,
era appunto la "girandola" finale, cioè lo sparo simultaneo di un gran numero
di razzi, il cui perfezionamento è attribuito a Gian Lorenzo Bernini,
e che illuminavano a giorno il cielo di Roma, anche se solo per una
manciata di secondi:
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Son cose belle sì, ma a parlà schietto,
Il finir troppo presto è il lor difetto.
(Canto VIII, 73) |
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la girandola di Castel Sant'Angelo,
dipinto di Joseph Wright (1779)
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IL GHETTO
l'assedio al Ghetto (Canto XII)
Del ghetto, o "serraglio degli Hebrei", come
era detto ai tempi di Paolo IV, che nel 1555 volle istituirlo, si è già
ampiamente parlato in Curiosità Romane - pagina 6,
a cui si rimanda per i dettagli e le immagini.
Nel Meo Patacca troviamo che le porte d'accesso, dalle tre originarie,
erano diventate quattro, più un portoncino: per fronteggiare il sovraffollamento
da parte di diverse migliaia di ebrei, il papa si vide costretto ad
ordinare un seppur modesto allargamento dei confini dell'enclave.
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il mercato del pesce presso Portico d'Ottavia, alle spalle, sorgeva
presso una delle porte del ghetto (da un'incisione del XVIII secolo di G.Vasi) |
Più che sul luogo, liquidato in due versi (È un
recinto di strade assai meschino / Ch'è ombroso, e renne ancor
malinconia.), Berneri indugia sulla parlata degli ebrei romani.

piazza Giudia, fuori del Ghetto
(incisione di G.Vasi): si notino
una delle porte, e il palo per le pene ai trasgressori |
Il giudaico-romanesco, pieno di vocaboli, espressioni ed interiezioni
mutuate dalla lingua ebraica, costituiva una sorta di dialetto parallelo a quello proprio di Roma,
parlato da una netta minoranza, ma con pari dignità sul piano linguistico.
"Era", perché purtroppo si è del tutto estinto, ma non senza aver avuto
anch'esso un valido poeta dialettale in Crescenzo Del Monte (1868-1935).
Anche a Giggi Zanazzo, uno dei primi attenti osservatori del dialetto di Roma,
non sfuggì la parlata giudaico-romanesca, che agli inizi del secolo scorso
esisteva ancora, e nella sua opera Tradizioni Popolari Romane (1907) è riportata una lista di vocaboli
ed espressioni, di cui la tabella seguente mostra un piccolo esempio. |
GIUDAICO-ROMANESCO
| ITALIANO
|
Alèffe; Bèdene; Ghìmene; Àrbano; Camìcia; ...-vaghézzi | Uno; Due; Tre; Quattro; Cinque; ...e mezzo |
Baruccabbà | Benvenuto |
Bacurri; Iacodimmi; Sciabadai | Ebrei |
Cacàmme | Rabbino maggiore; Dotto, Sapiente |
Cascèrro | Bello; Puro |
Chénne | Sì |
Chiùsi | Cristiani (= non circoncisi) |
Mònna | Signora |
Picciurèllo | Pene |
Scioscianìmme | Mammelle |
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Concludiamo con una piccola curiosità.

via dell'Arco di S.Marco (E. Roesler Franz) |
All'inizio della storia, Berneri cita alcuni
dei locali á la page della Roma di fine seicento, fra i quali
"I Tre Re". Non si può escludere che questo sia un nome inventato,
a quell'epoca molte locande e alberghi si chiamavano "I Tre Re", anche
in altre città.
Fra i famosi acquerelli di Ettore Roesler Franz
(1852-1907) della serie Roma sparita, ve n'è uno che mostra la via dell'Arco di San Marco, presso piazza
Venezia, scomparsa dopo lo sventramento dell'area, attorno agli inizi del
XX secolo, per la costruzione dell'ingombrante Vittoriano. In un angolo della veduta fa capolino un'insegna dove si legge
ALBERGO DEI TRE RE, che a noi piace pensare essere quello stesso conosciuto da Berneri,
quando
Stava Roma paciosa, allor, che l'anno
Mille seicento ottanta tre curreva. |
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Il medesimo luogo è anche citato da Giuseppe Gioacchino Belli in un sonetto datato 13 settembre 1830, in cui un popolano, inseguito nottetempo da una guardia papalina, si dà alla fuga lungo questa via con la patta dei calzoni in mano:
E con la patta in mano pijo l'Arco
De li tre Re, strillanno: « Vienghi puro ».
(La pisciata pericolosa, vv. 8-9)