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Giuseppe Berneri
(1637 - 1700 c.ca)
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Meo Patacca, sottotitolato Roma in feste ne i Trionfi di Vienna, può essere considerato il poema epico del popolo di Roma. Ma mentre l'eroe, dal quale l'opera ha preso il titolo, è ancora assai vivo fra le tradizioni della città, il nome dell'autore è completamente sconosciuto a gran parte dei romani.
Berneri, nato e cresciuto a Roma, fu sia poeta che scrittore di commedie, e membro di diverse accademie letterarie del suo tempo. Fra i suoi lavori figurano poemi, rappresentazioni teatrali allegoriche e religiose, ma fra i suoi titoli viene ricordato solo il Meo Patacca. Dell'autore non è rimasto neppure un ritratto. Ma il grande apprezzamento per l'eroe popolare, il rugantino Meo, che è un popolano a sua volta, pur rappresentando un virtuoso esempio di coraggio e moralità, dà ragione di un così duraturo successo. Ciononostante, negli ultimi decenni sono state date alle stampe pochissime edizioni del poema.
Al giorno d'oggi il capolavoro di Berneri è stato relegato fra i titoli semisconosciuti della letteratura minore, occasionalmente reperito sulle bancarelle dei libri di seconda mano.
Sono pochi i siti web che citano questo poema, ma Roma Virtuale è l'unico ad offrire oltre un terzo delle originali 1245 ottave, con il riassunto della trama.

Ispirato ad un fatto storico, Meo Patacca racconta le vicende di un tipico sgherro, cioè un giovane popolano abile nel maneggiare le armi, con un alto senso dell'onore, che offriva i suoi servigi alla propria comunità facendo delle buone azioni. Nell'apprendere la notizia che Vienna è stata assediata dagli Ottomani, raduna i migliori sgherri della città e forma una piccola armata per dare aiuto alla città cristiana. Ma poco prima di mettersi in marcia, giunge a Roma la notizia che le stesse truppe di Vienna sono riuscite a liberare la città dai Turchi, e così il denaro raccolto per la spedizione viene impiegato per organizzare una grande festa cittadina, che dura diversi giorni.
Meo Patacca prima del duello con Marco Pepe (Canto IV)
Sullo sfondo, la storia d'amore di Meo con la sua spasimante Nuccia fa da contrappunto ai principali eventi della trama.
Tutti i personaggi sono modellati sui tipici popolani romani; alcune delle situazioni sono davvero divertenti, e disseminate da pungenti osservazioni dello stesso Berneri, che si riserva la parte del narratore, spesso aggiungendo i propri pensieri, e di tanto in tanto indugiando nella descrizione dei luoghi famosi di Roma che costituiscono l'affascinante ambientazione della storia.
Inoltre, il poema è una vera miniera di informazioni sulla vita di tutti i giorni nella Roma del tardo XVII secolo: come vestiva la gente del popolo, come era ammobiliata una casa comune, quali erano le formule di saluto, ed altre ancora.

Ma il poema di Berneri tenstimonia anche l'atmosfera di fanatismo della Roma sotto il secolare dominio dei papi: la missione dell'eroe può essere letta come una mini-crociata, basata sulla prospettiva religiosa di un esercito di infedeli all'attacco di una città cristiana.
Nuccia dà una lezione a Calfurnia (Canto V)
Nell'ultimo Canto questo sentimento sfocia in autentico fanatismo: scatenata da un futile pretesto, la marmaglia assedia il ghetto della comunità ebraica, accusata di aver simpatizzato per i Turchi. Questo, come pure altri eccessi, vengono stigmatizzati dallo stesso Berneri.
Al contempo, il poema si rivela una fonte insostituibile di documentazione storica su come si svolgevano le feste pubbliche a Roma: quasi l'intera seconda metà dell'opera descrive minuziosamente come si organizzavano i festeggiamenti, com'erano costruiti i diversi tipi di fuochi d'artificio, come venivano sparati e qual era il loro risultato, ed anche in che misura il popolino creasse tumulto nel prendere parte alle feste (un'occasione per i ceti più bassi di sfogarsi della propria miserabile condizione); durante queste celebrazioni non era raro che qualche passante rimanesse ferito, o persino ucciso.

L'assedio di Vienna che ispirò il poema è un fatto realmente accaduto. Il 14 luglio 1683, il visir ottomano Kara Mustafa Pasha (il cui nome si ritrova nel testo come Bassà, corrotto secondo il dialetto) mise Vienna sotto assedio, per 60 giorni. La città sarebbe caduta nelle mani dei Turchi, se papa Innocenzo XI non avesse invocato l'aiuto del re di Polonia Giovanni III Sobieski, il cui intervento si rivelò decisivo. Mentre gli Ottomani si ritiravano, l'armata austriaca entrò in Ungheria, e prese Buda.
L'opera di Berneri venne pubblicata la prima volta dodici anni dopo, nel 1695. Per una seconda edizione si dovettero attendere circa 100 anni, ma questa era decorata con 52 tavole disegnate dal famoso incisore romano Bartolomeo Pinelli (quelle mostrate in questa pagina fanno parte della suddetta serie).


LA LINGUA
Questo è un altro aspetto interessante del Meo Patacca. Berneri fuse l'arcaico italiano parlato nel '600 col dialetto di Roma, che a quei tempi aveva già sviluppato un proprio carattere; il risultato è forse un linguaggio più diluito di quello parlato nelle strade, ma ciò è comprensibile se consideriamo che Meo Patacca è una delle prime opere interamente scritte in una lingua non ufficiale, o non letteraria, non perché l'autore non avesse padronanza dell'italiano, ma piuttosto come coraggioso tentativo di abbassare il livello del linguaggio, affinché anche la gente comune potesse comprenderla.
Innanzitutto è ancora ben presente una certa influenza del latino. Ad esempio Berneri fa precedere da un'arcaica "H" ogni inflessione del verbo avere, che quindi scrive havere. Lo stesso avviene con i sostantivi di origine latina quali homo, hora, e così via. Anche la congiunzione latina et viene comunemente usata ovunque nel testo.
Sputamorti batte il ragazzo che aveva colpito Nuccia con un limone (Canto IX)
Al contrario, diversi vocaboli che in italiano hanno la "H" nel testo di Berneri la perdono: occi (per occhi), ciamare (per chiamare), e così via. In seguito questo fenomeno scomparve dal dialetto romanesco.
È interessante che qualche parola sia chiaramente derivata dallo spagnolo: essendo il meridione rimasto a lungo sotto il dominio della corona di Spagna, tali influenze filtrarono attraverso il dialetto napoletano, parzialmente attecchendo anche a Roma. Una di queste tracce spagnole è l'uso dell'articolo determinativo el (che la Spagna aveva a sua volta ereditato dagli Arabi durante il medioevo); a Roma la pronuncia di quest'articolo divenne più ruvida, er, anche se i pochi che affettavano un linguaggio meno volgare, nel tentativo di apparire più educati, continuarono a dire el. E nel corso del XX secolo, "ammorbiditosi" un po' il dialetto, soprattutto nei testi scritti finì col prevalere la grafia originale.
Un altro esempio è l'uso del verbo buscare per "cercare" (In busca de' compagni ohmai si vada, Canto I, 82): col tempo, il significato del verbo (che in spagnolo vuol dire "cercare") a Roma si trasformò in quello di "ottenere, ricevere", cioè non l'azione originale, ma il risultato della ricerca.
Invece un segnale del tramite partenopeo di queste voci spagnole è l'uso di fornire per "finire", nisciuno per "nessuno", ecc., tuttora presenti nel dialetto napoletano, ma non più nel romanesco.

Sono fenomeni caratteristici del linguaggio di Berneri anche la ripetizione della prima parte della frase talora usata per dare più enfasi al discorso (alcuni esempi: Famo una cosa per adesso famo; Ce semo intesi, - disse Meo, - ce semo; Fatto l'havrìa pentì fatto l'havrìa; ecc., effettivamente aderente al romanesco, ad esempio, di Giggi Zanazzo), così come pure la frequente aggiunta di una sillaba, -ne, all'infinito dei verbi romaneschi (cosidetta epitesi), per cui cascà ® cascàne, vedé ® vedéne, rosicà ® rosicàne, e così via, oggi rimasta solo in pochissimi vocaboli (sì ® sìne, no ® nòne, ecc.).

L'uso della punteggiatura da parte di Berneri è abbastanza capriccioso, e di tanto in tanto anche la grafia di alcuni vocaboli fluttua da una forma ad un'altra, come nel caso di chalche « calche ("qualche"), propio  « proprio, ajuto « aiuto, ecc. Anche molte preposizioni vengono usate in forme diverse, spesso a seconda di chi pronuncia la battuta (ad esempio, un popolano, o il narratore, ecc.): per « pe', di « de, con « co', ecc.
Si trovano anche alcuni vocaboli tipici del giudaico-romanesco, soprattutto nell'ultimo Canto, la cui prima metà è ambientata nel ghetto ebraico (cfr. anche l'appendice).
la plebe fa rotolare l'ebreo nella botte (Canto XII)
Dei molti termini dialettali alcuni sono oggi di non facile comprensione, quali iofamente per "splendidamente", a fé per "affatto, davvero", nostrisci oppure nostròdine per noi cioè un formale io, il sottoscritto,, e via dicendo; in un lasso di tempo di oltre 300 anni tali vocaboli sono diventati del tutto obsoleti, ma per il lettore romano medio la comprensione di questo testo risulta ancora abbastanza chiara.
Inoltre, essendo uno dei primi tentativi di scrivere in dialetto, contrapponendosi alla lingua formale, Berneri aggiunse molte note esplicative, grazie alle quali anche molti dei termini oggi sconosciuti possono essere compresi.


LA STRUTTURA
Meo Patacca si compone di ottave, le cui rime seguono lo schema fisso A B A B A B C C, ed è diviso in dodici Canti. Ciascuno di quest'ultimi si apre con un'ottava supplementare, una specie di breve sommario dei fatti che seguono.




Meo Patacca

CANTO I CANTO II CANTO III CANTO IV CANTO V CANTO VI
CANTO VII CANTO VIII CANTO XIX CANTO X CANTO XI CANTO XII

APPENDICE - i luoghi di Meo Patacca



Belli
BELLI
C.Pascarella
PASCARELLA
G.Zanazzo
ZANAZZO
Trilussa
TRILUSSA
A.Fabrizi
FABRIZI

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