La mia malattia |
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La mia malattia M. G. - Reparto Tamburini Da "Il Mosaico" dicembre 1971
La mia malattia è un mistero, conosciuto solo da Dio. Egli solo sa perché‚ a 17 anni, per la prima volta, con mia madre lontana, affondai nel solco, che doveva seppellirmi al mondo, tante volte nella mia vita. La mia vita, che ora è presso al tramonto. Per i medici è una malattia. Per me è un mistero che comincia fin dalla mia fanciullezza. Ricordo una piccola, chiara cameretta al terzo piano con una finestra che dava sulla parte pianeggiante del bel paesello di Masone Ligure. Mia madre cuciva ed io andai da lei a dirle che ero molto infelice, perché tutto era vuoto intorno e dentro di me. Avevo 9 anni. Era il mio primo esaurimento nervoso, che durò poco e passò inosservato. Ma io domando: "Come possono esaurirsi ad un tratto i nervi di una bimba felice quale ero io?" Fu per me come se l'ala di un corvo di malaugurio mi avesse sfiorata appena, per poi ritornare quando sulla bella età dei miei 17 anni mi apprestavo ad andare in montagna ad iniziare una nuova vita, una vita di libertà e di missione: la vita dell'insegnante elementare. Avevo ottenuto la nomina a maestra a Vernante. E qui, sempre nell'assillo di trovare un spiegazione all'intimo mio dramma, la mente risale addirittura all'epoca della mia vita prenatale, quando, nel buio del mio nascondiglio e già prossima alla nascita, sentii ripercuotersi sulla mia testa i colpi dei fuochi artificiali, tanto che ancor ora mi fanno una penosa impressione. Era la sera dell'otto settembre e al mio paese natio tutti s'apprestavano giulivi ad andare al vicino capoluogo per assistere allo spettacolo pirotecnico, che avrebbe concluso la festa del SS. Nome della Vergine. Mia madre, ventenne appena, non seppe resistere all'invito e ci andò con mio padre, ma dovettero ritornare in fretta alla loro modesta dimora, nascosta tra i castagni. Nella notte io nacqui, leggermente prematura e tanto piccola che non riuscivano a scaldarmi. Una mia zia, che poi finì suora, sentenziò: "Deve chiamarsi Maria, non Caterina!". Caterina era la mia madrina di battesimo, la mia nonna materna; ma anche il nome di Caterina rimase, anzi ne aggiunsero altri due. Così mi chiamai: Maria, Giuseppina, Lidia, Caterina. Dunque, nacqui così piccina che mia madre mi stringeva al suo petto caldo d’amore per riscaldarmi un poco, mentre le solite comari dicevano sottovoce: Eh! Morirà quella bambina! Ma mia madre non lo permise ed io in cambio diventai molto turbolenta, tanto che un giorno ingoiai addirittura un chiodo da montanari e mi salvò, a detta del dottore, la purea di patate e il fatto che essendo pesante, andava a testa in giù. Fatto sta che mi salvai. Ma un’altra volta che mia madre aveva messo un pentolone di brodo bollente e poi era uscita un attimo, bastò questo, perché ci ficcassi dentro ambo le braccia. Figurarsi il pandemonio, lo spavento di tutti! Le comari grattavano patate, mia madre mi ungeva le manine d’olio, ma poveretta, non s’accorgeva che anche le braccia erano ustionate, coperte com’erano da maniche di lana. Finalmente si accorse, perché io non smettevo di urlare e provavo a tirare su la manica, ma questa resisteva e trascinava lembi di pelle di carne. Così mi restò un marchio indelebile. La vita per un anno trascorse così: la casa era umile, umile. L’amore più grande della casa. Se piangevo di notte, mio padre andava a dormire sulle rive della Macra che scorreva poco lontano. Poi addio, paesello natio! Ci attendeva Pradleves, che probabilmente si traduce: prato delle vespe. Un bel Castello, trasformato in ristorante, accoglie i viaggiatori e i soliti ospiti del paese: il Dottore, il Segretario (mio padre), il Sottosegretario e le dame più in vista. Col curato c’era poca amicizia –chissà perché- anzi quasi una guerra dichiarata, tanto che si giunse al punto che ognuno suonava per proprio conto la campana di mezzodì. Il campanile comunale suonava per conto suo, ed il curato ne aveva collocata un’altra, nel cortile della canonica. Mio padre era giolittiano. Forse sarà stata questa la ragione? Oppure perché mio padre, mia madre e le altre dame più in vista, si radunavano qualche volta, nell’unica osteria del paese? Non so. Fatto sta che io, piccolina, non andavo mai in chiesa, salvo una volta che ci andai per curiosità, sola, soletta, attraversando quasi tutto il paese. Fu per me un fatto strano, trovarmi lì, in quella immensa penombra in cui si intravedevano sì e no, le cornici dorate dei quadri, infine l’altare maggiore che non m’incuteva paura, anzi un senso di misterioso che da esso emanava. Considerato bene tutto, quel che potevo vedere, senza internarmi troppo, lasciai la chiesa e feci ritorno a casa, senza contare niente a nessuno. Cominciava a delinearsi il mio carattere schivo della gente e piuttosto chiuso. Quando mi capitava di essere lasciata sola a prendere la mia colazione, facevo una bella zuppa, poi ficcavo la scodella nel forno della stufa. Oh! Quella stufa di ghisa a tre posti, col suo bel forno caldo, come lo ricordo bene e per quanto tempo ci servì fedelmente! Il castagno bruciava col faggio e riscaldava la cucina di un colore secco e confortante nei lunghi e freddi inverni della Val Grana! Mettevo dunque la mia scodella nel forno e mi pappavo la colazione, quando aveva fatto una bella cresta oscura; oppure di nascosto rubavo un po’ di castagne mezze secche, le mettevo in un pignattino con un po’ d’acqua e le ficcavo nel forno. Pare impossibile, ma le castagne cuocevano ugualmente, anche se non erano state un poco a bagno, qualche ora prima. Dal Diario da "Il Mosaico" dicembre 1971 Nel giardino, il tappeto celeste che ricopre il tavolino di giunchi, pone una nota armoniosa nella verde ombra della gaggia. Le rose della cancellata, sono inondate dal sole caldo e splendente di fine maggio e dal vicino boschetto di pioppi, dagli alti pini, viene un incessante cinguettio di uccelli che non rompe, ma accompagna la pace e la vita che le rose respirano intorno.La formichina lavora, lavora… ed io?…. Penso a te mio Dio. Ho promesso in ogni occasione di esercitare la pazienza, di dirTi: Io t’amo, mio Signore. Ecco, oggi 29 maggio 1967, ho detto questo al Signore: sono qui in ospedale da due anni…. Mi vuoi qui? Io t’amo, Signore. Maggio sta per finire. Di tanto in tanto, un lieve soffio d’arietta fresca mi passa sul volto. Come tutto è bello intorno a me. |
Una giornata in Ospedale G.G. - Reparto Marro da "Il Mosaico" dicembre 1971
In sezione sveglia alle sei; alle sei e mezza al lavoro in cucina. Il mattino in questi giorni è molto freddo, ma in breve ci siamo; una tazza di caffè o caffelatte, un po' di respiro, quattro passi fuori nell'aria fredda...fanno piacere. Si riprende a lavorare fino alle undici, poi si pranza con molto appetito, spensierati. Qualche nuvoletta mi passa tuttavia per la testa: mal di fegato, obesità, colesterolo, vene che si fan strette. Penso: siamo o non siamo in manicomio, regno delle allucinazioni? Ritorno tranquillo. Dopo si esce per la ricreazione sul piazzale della fontana. Nella vasca non si vedono pesci. Perché? Penso: avranno freddo, però anche nascosti sono sempre nell'acqua; forse non si lasciano vedere per modestia o per la recente celebrità, che è calata loro addosso, d'essere stati i progenitori degli uomini. Le scimmie fanno il muso, ma questi pesci devono essere dei deviazionisti. Non hanno partorito nulla di simile. Sono le dodici, escono gli operai, poi incomincia la sfilata bianca. Non è carnevale. Sono le suore, le infermiere e gli infermieri. Naturalmente sono le infermiere che attirano di più l'occhio. Sono bionde, brune, tonde e snelle da fiera dei sogni. Sospironi prorompono dai nostri cuori disamorati e sconsolati dopo tanta privazione. Ma forse ci sbagliamo, che siano solo creature da sogno?. E' più difficile andar sulla luna. Hanno il nostro stesso cuore e forse qualcuna desidera la nostra mano, almeno una. Siamo o non siamo più rari dell'altra specie e quindi più preziosi? E' necessario pensarci bene. Sono così timide! Tornata la calma dopo quel venticel di giovinezza, un po' di giornale radio. Finito questo piacevole intermezzo, si riprende a lavorare con meno fretta del mattino. Alle diciassette si cena ed alle diciotto si ritorna in sezione. Svaghi diversi, televisione. Per sentire gli altri bisogna star zitti noi. Una bella invenzione per far tacere le lingue lunghe! Si distribuiscono le medicine serali di tutti i colori e dagli svariati ed indicibili effetti. Per saperlo bisognerebbe provarle tutte. E tutte assieme, nemmeno chi le ha fabbricate potrebbe immaginarne gli effetti. Una sostanza che tira in qua, un'altra che tira in là, una in su e l'altra in giù. Un vero mosaico! In particolare basta dire come si vuole essere: calmato, rilassato, ubriacato, addormentato, insensibilizzato, euforizzato, esilarato... Le prossime saranno contro le affezioni amorose, anch'esse un po' responsabili del soggiorno in queste case di salute, poiché‚ il mal d'amore è malanno psicosomatico d'"anema e core"; quindi non avremo più pene, lacrime, visini così tristi che spezzano il cuore, dispetti, gelosie e certi brutti propositi; soltanto più una cordiale indifferenza. Poi vengono le gocce, naturalmente "gocce d'oro". Infine il varietà delle iniezioni con altrettanti semispogliarelli. Queste le fanno, pungenti come le satire, per svagoterapia degli infermieri, per scaricare la loro tensione nervosa. Bisogna essere comprensivi! Nessuno si lamenta! Tutti eroi! Alle diciannove e trenta chi vuole può andare a letto; ha tempo di abbracciare i cuscini con stile romantico o brutale, pensando, sicuro, pensando solamente... Non c'è altro a disposizione; col tempo i cuscini saranno forse sensibilizzati ed allora sarà tutta un' altra cosa! Alle ventitre, anche quelli che hanno fatto la cura della "tele" se ne vanno a letto a nanna. Dopo la dolce vita della giornata il sonno ci prende con sé. Che cosa astratta! Eppur ci annulla! Qualche sogno o nulla; molte giravolte, finché giunge il dormiveglia dell'alba. Pensieri e pensieri ci passano per la mente; si hanno illusioni, che paiono realtà. Si desidera naturalmente di star bene senza essere in casa di salute. Si vorrebbe ridiventar giovani, padroni della propria vita, del proprio avvenire, essere felici e perché no, con un visino dagli occhi belli. Tutte illusioni. La sveglia! Il viaggio nella notte è finito. Si rientra nella realtà. I giorni sono come una girandola, che si ripete ad ogni giro. Sera d’estate. Da "Il Mosaico" dicembre 1971 E’ il crepuscolo. Una gran pace regna nel grande giardino, che a poco a poco ha perso ogni segno di vita e par disabitato. Nell’aria rarefatta dalla calura, sembra fermo ed incantato, senza un sussurrio di vento od ondeggiar di foglia. Solo un piccolo stormo di uccelli neri dalle lunghe ali, fende l’aria veloce in un gioioso carosello. Giocano a rincorrersi, lanciando acute strida liberi e felici. Un largo spiazzo con una fontana al centro.Siepi basse, verdissime, ben tosate e sagomate, danno un maggior risalto ad un contorno di roseti a grappoli. Umerosi zampilli lasciano cadere l’acqua su una cupoletta quasi piatta, di dove scendono a raggera nella fontana increspando l’acqua con un rumor di pioggia, dentro la quale guizzano zigzagando una frotta di pesciolini rossi. Davanti un viale di verdi tigli con le loro belle chiome coniche che profumano ancora. In fondo, fra tanta serena pace, alti pioppi verde-scuro ed altri più più bassi di un verde più chiaro, fra cui rosseggiano i tetti dei Padiglioni Ospedaglieri, dove tanto si soffre, si spera ed anela la guarigione. Oh! Se potesse la mia buona sera recare loro un po’ di sollievo! Il Cielo nel mezzo è ancora pieno di nuvole rosso arancione, quasi ferme, più verdi blu e viola oscuro verso i monti, dietro i quali, si riverbano sopra le nuvole, gli ultimi raggi del sole. Quanta sinfonia di luci e di colori in cielo e in terra, che mi ritornano al tempo, in cui la primavera della mia vita, s’accordava con tanta serena bellezza. Ora, al ricordo, l’anima ne sospira.
Nell'Introduzione puoi trovare un link ad altri testi raccolti dal Centro Sociale Basaglia di Collegno |
Come si diventa un gran campione Da "Il Mosaico" dicembre 1971 …………Vostra madre era una gentile e sensibile creatura ed il modo stesso in cui la conobbi, ha del romantico e predestinato. Ero giovane come lei allora, e il mio svago preferito era quello di vagabondare sulla mia bella veloce motocicletta. Un mattino, capitai in un paese dove si facevano le iscrizioni ad una importante gara motociclistica. Ero fermo ad osservare ed intanto essendomi accorto che avevo bisogno di acqua, pensavo come potermela procurare, quando su una piccola porta semiaperta, scorsi giovine ragazza che curiosava anch’essa. Ecco pensai, là certamente ed avvicinatomi, le chiesi se poteva farmi il gran piacere di procurarmi un po’ d’acqua per la mia motocicletta. Oh, sì, se può aspettare qualche minuto. Faccia pure. Quando fu di ritorno, porgendomi una brocca piena mi chiese: è venuto ad iscriversi alla corsa? No, signorina, io non sono un corridore. Mi sono fermato soltanto a leggere l’invito. Che bella moto che ha, perché non corre? Per molti perché tra i quali quello che non si diventa corridori solo desiderando di esserlo. Provi, chissà che non scopri lei una passione sconosciuta. Non ci penso nemmeno, non sento la fiamma incitatrice…. La fiamma?…una fiamma può accenderne un’altra. Buonasera signore, devo rincasare. La porta si chiuse con un colpo secco, dispettoso, dispettoso, ed io rimasi a meditare sul rebus della fiamma, guardando ora la moto con aria interrogativa ed ora la porta dietro la quale era sparita la giovane. Quella donna, pensai deve avere una gran piacere di vedermi con le ossa rotte, ma poi sorridendo tra me, a poco a poco quell’idea si fece più insistente nella mia mente. Epperché no?, potrei anche provare. Una fiamma accenderà un’altra fiamma. Dopo aver ripetuto più volte quelle indovinose parole, non esitai più e m’iscrissi alla gara, da disputarsi in tre gare in due domeniche. Ritornai a casa fantasticando, sognando gloria ed il sorriso di quella donna. Per l’intera settimana non feci altro che scorrazzare in motocicletta su tutte le strade in pianura ed in collina e quando alla domenica mi presentai alla corsa ero impaziente. La fiamma si era proprio accesa e me l’aveva accesa proprio quell’impertinente ragazza. Prima e durante la partenza la cercai con lo sguardo e ne rimasi un po’ irritato. Non c’era. Guarda come mi ha ben burlato, pensai fra me, ma gliela farò vedere ed infatti la mia rossa motocicletta, che pareva avere la mia stessa idea, mi portò vittorioso al traguardo, con una sicurezza che mi rese stupito della mia bravura. E ne ebbi dolce compenso. La giovine, era all’arrivo e mi porse un bel mazzo di rose, con un sorriso che mi ricompensò della tortura che mi aveva dato. Ha visto, mi disse, che non mi sono sbagliata? Non lo credevo davvero, signorina, e sono proprio contento che sia andata così. Speriamo in un buon proseguimento la domenica prossima. Glie lo auguro vivamente. Grazie e arrivederci. Arrivederci Domenica. La domenica seguente, volli sincerarmi se l’interessamento di quella donna era sincero e perciò, nella seconda corsa, giunsi dopo molti altri. Lei, era uscita sulla porta e vedendomi in difficoltà, mi incoraggiava e si torceva le mani pel disappunto. Quando l’avvicinai, qualche lacrima luceva fra le sue ciglia ed io avevo il cuore colmo di pena per averla addolorata e delusa, ma anche di intima gioia, per aver capito che anche lei ardeva della mia fiamma e mi voleva bene, epperciò feci del mio meglio per rincuorarla e di attendere fiduciosa la corsa. Rimanga sulla porta che io la veda e vincerò le dissi. Ci sarò, mi rispose. Ed infatti si trovò là, come la mia buona stella portafortuna. Avevo preparato con me 10 belle rose, quanti erano i giri da compiere e ad ogni giro gliene gettavo una, ch’ella raccoglieva felice e metteva in un mazzo. Anche la mia motocicletta sembrava capire quello che voleva dire per me vincere la corsa e vibrava di impazienza. Anche lei voleva dimostrare alla mia ragazza che eravamo tutti e due bravi e volevamo rimediare alla delusione che le avevamo dato, poco prima. Così per tutta la corsa, non ci lasciammo mettere ruota davanti, nemmeno dai più spericolati e la bionda fanciulla andò raccogliendo rose su rose, ridente e felice, finché le ebbe tutte in braccio. Erano i fiori della vittoria del suo amore. Anche la mia motocicletta ed io, ne ebbimo molto ed anche i suoi, ch’ella ci offrì col suo cuore. Da quel giorno, cominciò la mia nuova vita, perché ragazze mie, poco tempo dopo la sposai e divenne vostra madre………. Giugno 1969 Mi sveglio di notte: tutto tace: Le ore battono ad un campanile lontano. Tutto è silenzio intorno a me, tutti dormono…. Ma chi è quel piccolo bimbo che piange e singhiozza….. Anima mia, non gli dar retta. Quel piccolo bimbo è soltanto il tuo cuore? Egli vorrebbe andare con quel treno che corre nella notte lontano, lontano, sotto le stelle. Lascia che pianga, anima mia, il tuo piccolo cuore. Lascia che guardi oltre le finestre chiuse, il mondo libero e sconfinato. Quando spunterà il sole, tu prenderai quel piccolo bimbo che è il tuo cuore, dolcemente con i tuoi artigli bruni e lo porterai in alto nel Cielo, poiché tu sei un’aquila tese verso il sole, o anima mia, anima mia, ed il piccolo bimbo che è il tuo cuore, non piangerà più: Ecco, già s’addormenta…. All’alba, gli uccelli liberi e festosi mi destano, salutano il giorno che nasce.Le rose sotto il pesco. Da "Il mosaico" dicembre 1971 Là, dove oggi c’è il nuovo muretto con griglia che cinge il cortile della Sezione Osservazioni Uomini, vicino alla porta, vivevano appoggiati al vecchio muricciolo assai più alto, un pesco che allargava i suoi rami anche all’interno del giardino e sott’esso, fermati contro il muro, tre rosai rampicanti, che mettevano al Cielo, rose d’un bel porpora vellutato e altre di un delicato rosa chiaro. Ed erano molto profumate, perché un po’ protette dal pesco dall’ardor del sole ed anche un po’ dalla pioggia. Sotto odoravano delle salvie. Quando, la bella fiorita del pesco, che pareva un gran mazzo di fiori rosa e verde, maturavan le mille pesche d’un bel colore rosso arancio e fiorivan le rose fitte, tutte volte verso chi le guardava, il tutto aveva una bellezza così gentile e seducente, che lo faceva somigliare ad un prezioso dipinto, ma assai più bello, perché vivente. |