Lo scrittore e il pensatore - 1




Immagine del padre di Kierkegaard

Disegno di David Jacobsen: Kierkegaard da studente.

L'anno del vero esordio letterario di Søren fu il 1843. Prima di quell'anno aveva scritto solamente alcuni opuscoli occasionali e la sua tesi universitaria, “Sul Concetto di Ironia, con continuo riferimento a Socrate” ("Om Begrebet stadigt di med di Ironi il til di Hensyn Sokrates"; 1841). Nel 1843 pubblicò non meno di sei libri, tra i quali il primo è il più lungo di tutta la sua estesa ed intensissima attività letteraria. È intitolato significativamente “Aut - aut” ("Enten-Eller"); e ci conduce diritto nel mondo del pensiero di Kierkegaard. Un “aut - aut” ci impone una scelta, ed è proprio quello che Kierkegaard vuole: costringere il lettore a prendere una decisione. Egli deve decidere come vuole vivere la sua vita, invece di andare passivamente alla deriva lasciandosi semplicemente scivolare lungo il “fiume della vita”. Così in “Aut - aut” Kierkegaard confronta due 'stili' di vita che lui definisce: l'estetico e l'etico. Al termine estetico, comunque, lui dà un significato diverso da quello che solitamente gli diamo noi; egli intende l'immediato e il piacere illusorio dei sensi, che è il punto di partenza della vita di ogni uomo. Nella prima parte della sua opera Kierkegaard ci mostra una varietà di vite estetiche: dalla più bassa che vive in balia dei sensi, e in questi si disperde senza mai impegnarsi eticamente, come viene ben esemplificato nella figura del “Don Giovanni”, all'uomo che si è reso conto del vuoto e della nullità di una vita puramente estetica, ma che, ciononostante, si aggrappa ancora disperatamente ad essa pur sapendo bene che quest'ultima può condurre solo alla disperazione.

Ma perchè una vita puramente estetica ci porta alla disperazione? Perché, secondo Kierkegaard, l'uomo ha dentro di sé qualche cosa d'altro, che non potrà mai essere soddisfatto da una vita puramente 'sensibile'. Questo qualche cosa d'altro è l'eterno. L'uomo è costituito dalla sintesi di due elementi opposti: corpo e spirito, temporale ed eterno, finito ed infinito, necessità e libertà. È caratteristica dell'estetico enfatizzare un elemento solo della sintesi: il corporale, il temporale, il finito e il necessario. La mancanza dell'altro elemento della sintesi causa nell'essere umano ansietà; Kierkegaard la definisce “una simpatica antipatia, un'antipatia simpatica”, che allarma e attira allo stesso tempo. Il termine che meglio descrive questa esigenza dello spirito nel mondo sensibile è angoscia; l'angoscia è il segno della presenza dell'eterno nell'uomo. Senza l'eterno non ci sarebbe nessuna angoscia. Ma l'uomo che ha sentito l'angoscia dentro di sé e che ancora ostinatamente persiste in un'esistenza estetica finirà col disperare. Su questi concetti gemelli di angoscia e disperazione Kierkegaard scrisse due delle sue opere più ispirate: “Il Concetto dell'angoscia” ("Begrebet Angest"; 1844) e “La malattia mortale” ("til di Sygdommen Døden"; 1849). Questi due libri sono “saggi psicologici”, come Kierkegaard stesso li definisce, ma in “Aut - aut” gli stessi temi sono trattati attraverso una sorta di letteratura immaginativa, dall'introduzione degli aforismi di “Diapsalmata”, in cui trovano espressione gli umori che attanagliano l'uomo estetico, agli esempi presi dalla letteratura, come Don Giovanni, Antigone, a caratteri desunti dai drammi di Scribe, a figure inventate come “il più infelice” e Giovanni il Seduttore. Insieme formano una galleria di caratteri che vanno dall'immediatamente sensibile, che in un certo senso è innocente a causa della sua immediatezza, perché, in altre parole, non riflette troppo su quello che fa, al seduttore consapevole che ha capito la situazione, ma ciononostante sfida la disperazione.

Immagine del padre di Kierkegaard

Kierkegaard da giovane, intorno al 1836. Artista ignoto. Il ritratto è stato approvato dal fratello di Kierkegaard, il vescovo P.C. Kierkegaard.

Ma l'uomo che ha sentito dentro di sé l'angoscia della disperazione non può non cogliere l'inadeguatezza di una vita vissuta tutta nella sfera estetica, e chi, nell'angoscia e nella disperazione, non vuol più rimanere in essa, è ormai maturo per scegliere qualche cosa d'altro ed entrare così nella sfera etica. Questo è testimoniato dal fatto che l'eterno ha riposto le sue richieste sull'uomo che non solo le accetta, ma crede nella possibilità di essere consapevole delle richieste etiche nel temporale, nel mondo sensibile. Tale uomo, che scrive lunghe lettere ad un amico che è un "esteta" (nella seconda parte di "Aut-aut"), conduce una vita "etica". Simbolo di tale vita è l'assessore Guglielmo, marito fedele, professionista laborioso ed onesto, combattente e ottimista che consapevolmente lotta per una buona causa e ha senza dubbio la forza di convincere i suoi amici e il mondo intero su quello che è il 'buono'. Lui non si negherà sperperando la sua vita nella sfera estetica, ma crede che sia possibile unire i due punti di vista in una specie di sintesi. Non per niente uno dei capitoli della seconda parte di "Aut-aut" è intitolato fiduciosamente e non senza ragione: "Sull'equilibrio tra l'estetico e l'etico nello sviluppo di personalità".

Senza dubbio questo concetto è quello che Kierkegaard stesso pensava a quel tempo. Egli era stato attirato fortemente alla vita estetica nelle sue forme più raffinate, ma lui indubbiamente ancora sperava che sarebbe stato possibile trovare un qualche genere di sintesi tra i due mondi. È vero che lui aveva in un certo senso rinunciato all'etico quando aveva rotto il fidanzamento con Regine e così era sfumata la possibilità di sposarsi, ma in realtà non aveva mai abbandonato il suo collegamento col mondo, né la speranza che tutto, in uno modo o un altro, si sarebbe risolto nel migliore dei modi.

Ebbe all'improvviso la conferma di questa speranza una domenica di primavera del 1843, quando, lasciando la 'Chiesa di Nostra Signora' di Copenhagen, incontrò casualmente Regine che usciva dalla chiesa. Lei gli fece un cenno con il capo. Quello fu tutto; ma l'animo di Kierkegaard fu nuovamente sconvolto. Così lei aveva capito; e lei non lo credeva, malgrado tutto, un impostore! Nella testa di Søren cominciò a farsi strada l'idea che forse loro potevano avere una sorta di rapporto 'inusuale', una specie di matrimonio spirituale, libero dalle concupiscenze della carne.

Ma per non correre rischi evitò di incontrarla di nuovo rifugiandosi ancora una volta a Berlino per poter lavorare indisturbato. Là lui scrisse due opere: "Timore e tremore"("og di Frygt Bæven") e "La Ripetizione" ("Gentagelsen"). Ambedue sono scritti in una forma a lui molto congeniale: a metà strada tra la letteratura immaginativa e la filosofia. L'idea che domina le due opere è la fede anche se è vista in due modi profondamente diversi.


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