I MINUTI DELL'INGEGNERE

 

Conobbi l'Ingegnere nel '74. Frequentavo il liceo a Oristano, e seppi che a Cagliari c'era un torneo di scacchi. Non avevo idea, neppure vaga, di cosa fosse un torneo: solo le scarne immaginifiche notizie lette sul "dizionario enciclopedico degli scacchi" che mio padre mi aveva regalato un anno prima.

 

Decisi comunque di fare quel torneo: mi presentavo a scuola con una valigia, che affidavo alla cerberica custodia del bidello, il vecchio e scontroso "Spazzolino", il quale protestava per la stranezza del deposito, ma mai oltre misura, perchè in fondo, sotto la sua coriacea scorza bidellesca era un buono.

 

Appena finite le lezioni, correvo a prendere il treno, e via a Cagliari. La città, dove per la prima volta mi aggiravo da solo dopo l'imbrunire, mi accoglieva con serena compostezza, senza ancora aprirsi a quelle visioni che mi furono in seguito tanto care e familiari. Forse perchè ogni mattina alle cinque dovevo abbandonarla per tornare a Oristano, forse perchè i miei pensieri erano tutti rivolti al torneo, e a quelle scacchiere così grandi, come non ne avevo mai viste prima, forse perchè non sapevo ancora cogliere il respiro della città, nè mi sfiorava l'idea che la città respirasse. Solo un timido abbraccio con Cagliari, un vago saluto, un cenno, senza passione.

 

L'Ingegnere era il terzo avversario che dovevo incontrare e non mi parve degno di interesse, allora. Il suo abito grigio stazzonato mi sembrò un segno d'eleganza e di antico rigore. Non immaginavo che quello era il suo unico abito "da circolo", id est da tutti i giorni, compresa la domenica. Quando fui di fronte a lui per giocare la partita, mi guardò con l'occhio semichiuso dal fumo della sigaretta e mi soppesò noncurante: sedicenne, arrogante, pieno di me, non gli feci una buona impressione. "S'ingresa puru, connoscidi", commentò quando feci la prima mossa, ma non disse altro, fino a quando dovette rovesciare il suo re, in segno di resa. Mi fece qualche domanda su come avevo imparato a giocare, poi, soddisfatto in qualche sua esigenza di spiegazione interiore, si accese un'ennesima sigaretta e si alzò, allontanandosi pieno di dignità offesa, il lobbia di sghimbescio come suo solito, le guance cadenti che tremolavano per il suo solito sbuffare nell'insana eccitazione dello scontento.

Non lo vidi più fino all'anno dopo, quando, trasferitomi a Cagliari, mi iscrissi al circolo e presi a frequentarlo assiduamente. A qualsiasi ora arrivassi, lui era già lì, che si rigirava fra le mani un pacchetto di lunghe sigarette "Presidente" e osservava pigramente sulla scacchiera misteriose posizioni di partite. Sospetto che giocasse da solo contro la sua cattiva coscienza, fingendo, quando qualcuno sopraggiungeva, di analizzare una partita da una copia spiegazzata dell'Italia Scacchistica che riponeva in tasca mentre ripristinava i pezzi.

Cominciavo allora a vederlo in un'altra luce. Grasso, sformato, con il perenne abito grigio addosso, la camicia che un tempo era stata bianca, e che ora gridava dal colletto unto la sua voglia di sapone, la cravatta di colore indefinibile, che riportava i segni di antichissimi pasti distratti, la barba lunga a giorni alterni, e il sibilare dell'asma che si faceva sentire fra i grumi di catarro, che ogni tanto deponeva sul fazzoletto a quadri, lasciando sempre una qualche traccia dell'operazione sul mento o sul risvolto della guancia molle. Tutto cio' contrastava con le sue mani sempre pulite e curatissime , come i corti baffetti a' la Clark Gable che gli tremavano sul labbro superiore.

In quei vis à vis passati aspettando che arrivasse al circolo qualcun altro a cui l'Ingegnere mi "cedeva" subito, egli giocava distratto, ma sfoggiava un'aneddotica antica, sfrangiata nell'amarezza della laudatio temporis acti. Citava solo il "suo" tempo passato, e per ogni situazione sulla scacchiera trovava un parallelo di vita trascorsa, un sogno di gioventù.

 

Il circolo era popolato di moribonde cariatidi: vecchi pensionati, anziani commercianti, tutti uniti non dalla passione degli scacchi ma dallo stesso rimpianto per un tempo in cui non perdevano mai le partite. Fra loro si chiamavano con i vari titoli di studio: ragioniere, geometra, avvocato, dottore, tutti, salvo uno, il vecchio Soddu, che a quanto pare non aveva nessun blasone scolastico da esibire, e chiamava tutti per nome, giudici e banchieri, professori e architetti, e dava loro indiscutibili batoste sulla scacchiera. Forse era l'unico veramente appassionato di scacchi, là dentro, l'unico che giocasse senza secondi fini passionali o psicopatici, l'unico che ancora dava filo da torcere ai ragazzi ululanti che dissacravano la vecchiaia sulla scacchiera, l'unico che si esibiva in mirabolanti invenzioni di stile, in incredibili sacrifici di pezzi, che andavano quasi sempre a buon fine. L'autoesaltazione certo colpiva anche lui, ma era rivolta al presente più che al passato.

 

Fra loro, i "decrepiti", come li chiamava qualcuno, giocavano commentando ad alta voce le mosse, con scherzose e ripetute frasi che dopo un po' sapevano di stantìo: "La' ca ti nci pappu s'alfieri!"(2) ammoniva l'uno, suscitando l'ilarità di chi non aveva mai sentito il dialetto cagliaritano applicato - maccheronicamente - al nobil giuoco. "Zappula zappula e feri feri"(3) rincalzava l'altro. Soddu sottolineava le sue trovate brillanti con un'immodestia appena velata dall'innata tendenza al calembour: "Vide il mio genio, e taccula!" esclamava, mentre proponeva un sacrificio che avrebbe condotto quasi sicuramente al matto. "Ma ses propiu callòni!" o "ses comenti una minca buddìà" (4) erano invece le esclamazioni favorite dell'Ingegnere, che talvolta si degnava di tradurre in francese il suo pensiero: "Aussi bete que trentesix cochons", e da qui prendeva a spiegare, quando ai tavoli c'era qualche ignaro nuovo arrivato, che aveva trascorso in Francia il ventennio. Le sparate di Pertini allora non erano ancora di moda, e nessuno mostrava di stupirsi della sua ignavia bellica. Quello del francese era un altro pallino fisso dell'Ingegnere: "La pièce a defendu la case qu'elle abandonne", citava spesso, ore rotundo, come se rivelasse chissà quale profonda verità filosofica, mentre l'asserzione corrispondeva, per originalità, all'enunciato che l'acqua bagna ciò che tocca, ma detto in un'altra lingua, poteva significare, per il suo immaginario pubblico, un'indiscutibile dimostrazione di eloquenza e di alta cultura.

 

Ma il pezzo forte dell'Ingegnere era il canto: in quella sede che pareva non dovesse offrire sbocchi alle ambizioni canore di chicchessia, l'Ineffabile trovava acconcio commentare musicalmente le proprie partite, e così era facile sentirlo gorgheggiare "Salomeéee una rondine non fa primaveraaa...", quando era in posizione ristretta o anche spiacevole, mentre appena la fortuna gli sorrideva, intonava pomposamente "(ça va tres bien, madame la marquise, ça va tres bien, ça va tres bien", e non c'era protesta o minaccia che l'inducesse a smettere: quando aveva la vena operistica, era meglio andare a farsi una passeggiata, chè di giocare a scacchi con lui che cantava non c'era verso.

 

La mia vita serale al circolo era sempre più movimentata e interessante: Soddu mi aveva preso in simpatia, perchè riuscivo a stargli alla pari in qualche occasione, e aveva deciso di rivelarmi i segreti della sua arte. Passavo lunghe ore ad ascoltarlo e a prendere batoste, cercando d'imparare i mille trucchi che tirava fuori dal suo cilindro di prestigiatore. Si vantava di non aver mai letto un libro di scacchi, e cercava di convincermi a lasciar perdere la carta stampata, affinando l'intuizione e l'inventiva, più che la memoria. Trovai il giusto mezzo fra le due tendenze, e ben presto potevo mettere in difficoltà tutti i giocatori del circolo, tranne due, le cosiddette "bestie nere", che non riuscivo mai a battere in partite di torneo, e solo pochissime volte in allenamento. Uno era il "mostro", giovanissimo, Pierdomenico Carta, che pochi anni dopo divenne maestro, e l'altro era l'eclettico professor Filipponi, docente di fisica all'università. Si faceva notare per gli occhiali sempre appoggiati sopra la fronte, tanto che non glieli vidi mai al posto giusto, inforcati sul naso, e mi veniva da chiedergli perchè li avesse comprati, ma avevo troppa soggezione di lui per farlo; per il suo rapido e intelligente valutare della posizione, e per la mano in guisa d'artiglio che scendeva a muovere il pezzo, lasciando l'avversario sconcertato a meditare cosa stesse architettando. Lingua sciolta e tagliente, il professore non si peritava di commentare ad alta voce gli errori commessi dagli avversari, e di far notare come invece bisognava giocare in quella posizione. La sua vittima preferita era Carlo Passalacqua, eccellente imprenditore, ma pessimo scacchista, che continuava a scommettere con lui su partite a vantaggio, dove aveva un cavallo in più, ma perdeva sempre; o in accese lotte di gambetto, in cui il professore gli dimostrava la vacuità del possesso di materiale in confronto alla potenza dei pezzi meglio sviluppati.

L'Ingegnere era quasi sempre spettatore di quei duelli rusticani, e esacerbava il sanguigno Passalacqua con acidi commenti sulla sua imperizia. Seduto a uno dei lati morti del tavolo, tempestava il malcapitato perdente di stagionate citazioni, di subdoli consigli e sferzanti critiche, passando agilmente dall'italiano al francese, al dialetto cagliaritano, e talora al latino, senza peraltro indugiare in nessun idioma in particolare, e comunque incurante di venire capito, o semplicemente ascoltato: lo spettacolo era sopra tutto per sè.

 

Su tutti i giocatori del circolo incombeva l'ombra del signor Campus Mazzone, uno strano commerciante che aveva il suo negozio proprio di fronte alla sede del circolo, e che giocava per un solo scopo: quello di fare patta. Era sempre vestito di scuro, ben rasato e impomatato, sempre cordiale e affabile. Con chiunque giocasse, ambiva non a vincere, ma a pareggiare: "se la partita finisce patta" soleva dire, "significa che entrambi i giocatori hanno giocato bene, e che quindi è una partita perfetta". Non partecipava mai ai tornei, dove il suo ideale non poteva trovare ostello, ma cercava di realizzare i suoi arcani progetti in partite amichevoli, e il suo operato andava oltre l'enunciato, perchè anche quando era in vantaggio offriva la patta all'avversario, per poter raggiungere l'idea platonica della partita perfetta. Quando perdeva, considerava quel fatto una giusta punizione per aver deviato dalla purezza del mondo delle idee, e si rimetteva a giocare con rinnovato ardore filosofico.

 

Quello era il periodo in cui imparai a giocare lampo, ovvero a limitare in cinque minuti il tempo di riflessione per tutta la partita. Ricordo che il professor Filipponi mi propose di cimentarmi in quello che allora consideravo una mera aberrazione degli scacchi, e io obiettai che cinque minuti mi sembravano troppo poco per contenere tutte le possibilità del gioco. L'onnipresente Ingegnere intervenne per correggere la mia visione della natura delle cose. Avrebbe potuto usare un argomento scientifico, e calcolare quante parole si possono dire in cinque minuti, tanto che si può leggere un capitolo dei Promessi Sposi; oppure un discorso filosofico, come "cinque minuti di paura sono più lunghi di due ore di piacere", ma scelse l'empirismo: in uno dei suoi classici atteggiamenti, scatarrò pesantemente sul fazzoletto, mi guardò con disgusto, che non era per quello che aveva eruttato, e mi lanciò subito la tagliente frase: "Cicca de lassai is callonis po cincu minutus in s'acqua buddendi, e bisi chi funti pagus!" (5) . L'asserzione brutale mi convinse, e in poco tempo acquistai la pratica necessaria per poter giocare in quel modo pazzo e sconclusionato, fino a eccellere sulla massa dei giocatori, e a diventare mio malgrado il pupillo dell'Ingegnere.

 

Quella di essere protetti dallo scorbutico progettista era una situazione poco ambìta nel circolo: l'Ingegnere prendeva sotto l'ala un giovane che riteneva dotato di sicuro talento, e cercava di instillargli il succo del sapere scacchistico, di cui ahimè aveva ben poche gocce, e tentava in tutti i modi di difenderlo dalle intemperanze verbali degli altri soci, sempre scettici e diffidenti verso le sue iniziative, col risultato che anche il pupillo di turno godeva subito di una pessima considerazione.

 

Questa non richiesta opera donchisciottesca il più delle volte era nociva, e non mancò di avere il suo malefico influsso anche su di me, finché il mio scomodo precettore trovò una “promessa” più promettente di me, e mi lasciò navigare alfine da solo. Meditai una piccola e inutile vendetta nei suoi confronti, e da allora mi adoperai per  far cadere nella polvere sempre e  comunque i suoi protetti, per quanti ne cambiasse, infierendo anche quando erano più che abbattuti con pesanti commenti sul loro modo di giocare, e sul loro maestro: come istruttore di intemperanze verbali, l’Ingegnere aveva fatto un buon lavoro.

 

Tuttavia, benchè il rapporto materno-chioccesco fosse cessato, o forse proprio per quello, conservai con l'Ingegnere quella confidenza che mi faceva partecipe dei suoi famosi e fumosi segreti. Non lo vedevo mai fuori dal circolo. Talvolta mi appariva, nella sua andatura dondolante, mentre si avviava ad aprire la porta d'ingresso, molto prima dell'orario canonico di apertura, come se fosse sbucato da un tombino o da una nicchia nel muro: da dove venisse, nessuno lo sapeva, e nessuno si preoccupava di chiedergli dove abitasse, forse per la paura di essere invitati a casa sua, o per quel naturale riserbo che hanno gli scacchisti a scambiarsi informazioni personali, per non sprecare tempo che può essere più utilmente impiegato a parlare di cose serie come l'attacco di minoranza nel gambetto di Donna o il problema dell'alfiere cattivo nella variante Tarrasch della francese.

 

La confidenza dell'Ingegnere era tutt'altro che sconvolgente, lontana dall'originalità che ci si poteva aspettare covasse in quell'individuo così fuori dall'ordinario. Nelle chiacchiere che talvolta si facevano al circolo, rubando tempo agli scacchi, sopra tutto ad opera di quelli che non potendo battere gli avversari dovevano accontentarsi di malignare alle loro spalle, si diceva che l'Ingegnere venisse da una famiglia nobile (anni dopo scoprii che era vero) da cui era stato cacciato e diseredato per i suoi commenti eccentrici e incuranti dell'etichetta. In quelle cene fatte di otto persone in un tavolo di dodici metri, con candelabri che trasudavano antichità così come i camerieri secernevano distacco e nobiltà, egli soleva portarsi un fiasco di vino nero, da cui tracannava ostentando il gomito alto davanti all'inorridito consesso. C'è chi diceva che la sua esclusione dall'Olimpo cagliaritano derivasse da una romantica storia d'amore fra il nobile e una popolana. Per queste e simili devianze, pare fosse stato costretto a emigrare in Francia, a cercare lavoro, e non per qualche demerito politico, come voleva fare apparire lui. Ma le chiacchiere, si sa, sono da interpretarsi in vario modo, così io mi divertivo ad ascoltare le sue storie che andavano da dopo la guerra in poi, e benchè avessero sempre come protagonista lui stesso, lasciavano trasudare stille di quell'amore che mi stava coinvolgendo, per la città, che mi faceva ogni giorno più intimo, ogni giorno più stretto in quell'abbraccio dal quale non volevo scuotermi, e che contribuivo a saldare.

 

Nei racconti dell'Ingegnere si mischiavano fatti eterogenei e strani. Talvolta passava anche mezz'ora per descrivermi il suo metodo per mettere le sigarette nel pacchetto in modo che le si prendesse dalla parte opposta al filtro, evitando quindi di mettere in bocca germi provenienti dalle mani. Altre volte invece mi parlava di Cagliari d'altri tempi, o meglio, di lui che in altri tempi viveva a Cagliari; di come avesse fondato il circolo al Caffè Torino, di come avesse partecipato alle riunioni politiche, di quelle che fanno la storia, al Caffè Genovese; di progetti grandiosi mai realizzati; di celebri e sconosciuti protagonisti della vita cittadina, tutti riportati ai suoi rapporti con loro, beninteso: "Su sindigu mi narada: 'o Arricu, innoi toccada a si movi', e deu intzandus d'emu nau...." (6); una girandola di racconti scremati del contorno, in cui lui agiva e sognava, ma non faceva differenza, perchè non riusciva a discernere il vero dal voluto, il fatto dal sogno.

 

In uno di quegli incontri sulla soglia, mi confidò un geloso segreto, che a pochi era consentito condividere: il suo progetto di un albergo galleggiante, che a suo dire avrebbe dovuto cambiare radicalmente le sorti dell'economia di Cagliari, della Sardegna tutta, e naturalmente le sue. Trasse di tasca la fotografia di un modellino in plastica del suo grandioso progetto, e alcuni fogli di planimetrie, calcoli e tabelle, dove spiegava i suoi sogni, come se io fossi stato quello che avrebbe dovuto dargli forma e realizzarli. Mi parlava delle tribolazioni del progetto, di come le autorità competenti fossero sorde e cieche di fronte al suo genio, e della speranza che un giorno il mondo avrebbe riconosciuto in lui l'emulo di Le Corbusier, l'apostolo della nuova ingegneria, che avrebbe sollevato l'uomo dalle miserie della terra, portandolo a conquistare i mari con città galleggianti. La mia radicata incapacità di apprezzare qualsiasi realizzazione estetica m'impedì di accalorarmi al progetto e unirmi al giubilo che pervadeva il suo creatore. Penso che da quel momento l'Ingegnere cominciò a raffreddare il suo interesse per me, e non fece più nulla per incontrarmi, o per farmi godere delle sue confidenze.

 

Non soffrii per quella brusca cesura, nè mi stupii di quel fatto. A quel tempo non avevo propensioni per l'introspezione verso gli altri, e men che meno verso me stesso. Guardando indietro, penso che forse quei fatti d'allora erano la fine di un sogno, quel torbido mormorio che ci risveglia verso la vita quotidiana.

 

Giuseppe Maxia

 

Note

(1)"Conosce anche l'inglese!"

(2)"Bada che ti mangio l'alfiere!"

(3) Intraducibile. La battuta deriva dall'esigenza di rimare (cfr. Max Leopold Wagner, Die Iteration im Sardischen, in Syntactica und Stilistica, Festschrift fúr Ernst Gamillscheg, Túhingen, 1957) e alla lettera significa "butta butta e colpisci colpisci" ma il valore iterativo gli conferisce una molteplicità di significati a seconda del contesto.

(4) "Ma sei proprio un coglione!" e "sei come un cazzo lesso"

(5) "Prova a lasciare i coglioni per cinque minuti nell'acqua bollente, e vedrai se sono pochi"

(6) "!l sindaco mi diceva: 'Enrico, qui bisogna muoversi', e io allora gli ho detto...."

 

panorama di Cagliari dal terrazzino della mia cameretta

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