LA COSTRUZIONE DELLA STAZIONE FERROVIARIA - 1931
Nel mondo c'è un'enorme quantità di spazio. Spazio inutile, incapace.
Oh, spazi piatti, lenti. Noiosi come un grande pavimento di tavole strofinato con la liscivia, come il paesaggio rotondo di una domenica del calendario in cui le persone abbiano lasciato il proprio destino da qualche parte per alcune ore e facciano una passeggiata.
Spazi noiosi, come persone dalla vita perduta. Spazi pesanti, come la vita quando non ha un destino.
Spazi che fanno venire agli occhi grandi, vuote lacrime. E che non sono per nessuno.
Nel mondo c'è troppo spazio. Occorre fare qualcosa dello spazio informe del mondo.
Il pezzo di campo in cui sorgerà la nuova stazione ferroviaria per ora è coperto di cardi lilla e di giallo ranuncolo.
Il ranuncolo e i cardi odorano della noia dolciastra del percalle, di balle di percalle bianco e a fiori.
Nello spazio che sa di percalle a grandi fiori rossi camminano piedi che portano scarpe nere e gialle: sono piedi veloci, che respingono la terra, ebbri della dolcezza della terra, pesanti come la felicità.
Che cosa fanno nello spazio? Oh, l'inutile lunghezza del mondo deve essere accorciata di un terzo, della metà. Ma i passi si trascinano solo un po' più in là, spostando di un mezzo metro il peso sferico del mondo, la calva materia del mondo con il fallimento della vita e l'altra questione ignota, la morte.
Stiamo in piedi al nostro posto. Come alberi.
Gli alberi non sanno nulla dell'angoscia, nulla della morte.
Gli alberi vivono come tra quattro pareti, come nello spazio minimo di una strada o di una stanza.
Costruiamo strade e case: la gente ha bisogno di strade. La gente ha bisogno di pareti. Di finestre e di balconi.
Costruiamo stazioni. Stazioni le cui rotaie parallele avvolgano il mondo. Le stazioni dividono il mondo intero in piste.
Nel campo con il giallo ranuncolo noioso e con gli slavati cardi lilla non ci sono ancora rotaie. Non ci sono pareti, né balconi, né finestre.
A tre chilometri di distanza dal cantiere c'è la terra.
E' una terra inutile, parassita, selvaggia.
Cresce disordinatamente come un'erbaccia, in grandi cumuli detti "montagne". Non serve a nessuno, non fa parte di nulla.
Ma qui, dove dovrà sorgere la stazione, c'è solo un misero campo sghembo di ranuncoli gialli e di cardi lilla: non c'è la terra nera e compatta adatta alle scarpate. Bisogna dunque spostare interi metri cubi di taciturna terra marrone e nera là dove potrà servire a qualcosa.
Chi ha detto che vi sia un senso in tutto ciò? Perché spostare un oggetto da un posto all'altro? Cosa succede in generale nel mondo, quando ogni giorno spostiamo così tante cose?
Ma qui nessuno fa domande. Gli uomini trascinano bacini di ferro carichi di terra bruna e nera. Gli uomini diventano buoi, cavalli e cammelli.
Essi carezzano con tutta la pelle del corpo il ferro arroventato delle carriole e la terra che si spande appiccicosa. Sollevano la terra e la depongono delicatamente, con tenerezza, nell'esiguo campo dai ranuncoli gialli ed essa si incolla al cielo e al corpo. Leggeri e danzanti si susseguono i bacini di ferro con la terra bruna e nera.
La pelle dei nudi trapezi delle spalle riluce, bruna come corteccia odorosa. Le contorte radici brune che sono braccia e mani si divincolano dalla gialla creta dell'aria per afferrare le culle di ferro roventi come una cosa unica e definitiva nella vita.
La calura è come la corteccia, bruna. Raggiunge i 40 gradi e oltre. Ma nel pezzo di campo con i fiorellini di percalle non c'è nulla, solo culle di ferro piene di terra. Sono come la felicità una grandissima felicità che è sempre anche la più grande infelicità della vita. Sono come il destino che attendiamo, come i piatti bacili degli antichi bassorilievi egiziani, pieni di oggetti preziosi per un vincitore o per un dio.
50.000 metri cubi di terra sono stati trasportati nel cantiere della nuova stazione.
Davanti alla stazione si alzeranno poi degli enormi corpi trapezoidali di terra bruna e nera, trascinata fin qui per tre lunghi chilometri.
Il nastro e il metro controllano e misurano l'anima dei corpi di terra trapezoidali, deposti dagli uomini nell'innocente pezzo di terra con i dolci fiorellini di percalle. Intanto gli uomini eliminano ogni centimetro cubico dei terrapieni che sia inutile: lo levigano come vetro, come fragile e delicato corallo, lucidano la terra bruna ed appiccicosa, insulsa ed ottusa.
Quel pezzo di spazio goffo, coperto ancora fino a poco fa di ranuncoli gialli e cardi, diviene così un regno di compatte scarpate e di fantastiche rotaie. Allora può dare elasticità alle mani e alle gambe stanche che non sanno dove andare.
Termina così il capitolo sulla materia prima della terra e la sua sorte nel cantiere della stazione ferroviaria.
Il responsabile dei lavori di scavo:
E' il responsabile dei lavori di scavo. Non ha più un suo nome particolare, che qui è irrilevante.
Controlla, conta le file di mattoni. Incalza.
Forza, gente! ... forza... forza...
Ogni dieci minuti un chilometro di strada. Ogni mezz'ora una fila di mattoni. A volte addirittura una fila ogni 20 minuti. Quasi ad ogni ora crescono una nuova porzione del fossato e un nuovo pezzo di terrapieno. Avanti ... veloci ... fa' più in fretta ...
Le carriole di ferro, cariche di terra argillosa ed appiccicaticcia, grave come lacrime, si susseguono leggere e danzanti come la schiuma del mare. Con la leggerezza della trasparente schiuma di mare.
Le scarpate, che sono ancora un pezzo di campo selvatico, attendono il metro ed il nastro e i fantastici ornamenti delle rotaie di ferro elastico attendono la corsa nello spazio lento, la corsa circolare di due fredde parallele. E i muri sentono nostalgia per la verticalità.
Sono essi che ordinano di fare in fretta, di spremere il midollo dalle ossa, finché gli uomini non anneriscono come scorza d'albero disseccata, in un dolore che può anche prolungarsi fino alla morte.
Oh, ricavare dai campi odoranti di percalle quei fossi vellutati, dalle pareti scintillanti verticali e orizzontali! E vie: ornamenti che esibiscono il motivo del grigiore, il motivo della dolce malinconia.
Non tutti capiranno: le scarpate e le strade possono essere come un destino che si verifica una volta sola nella vita. Ogni parete di scarpata, ogni angolo di fosso si infiamma come un'avventura colorata nel noioso campo con i cardi lilla.
Lisce come velluto devono essere le scarpate, vellutate come un grigio giorno d'ottobre. Elastiche come la nostalgia le rotaie; duri come una tragica determinazione i muri grigi.
Accade così che la pelle delle mani in attesa, la pelle di tutto il corpo e la vellutata pelle dei fossi siano percorse da un fremito, quando per caso si toccano.
Ecco la prima fila di mattoni ... la seconda ... la ventitreesima ...
40 gradi, 8 ore di lavoro, ventitré file di mattoni ...
Una fila di mattoni ogni 20 minuti: è un record! Un record che si verifica di rado.
Nel campo di cardi lilla le scarpate crescono, i terrapieni fioriscono, il mondo si riempie di fossi scintillanti e di dure rotaie, inflessibili come un fiume solido e come una tragica determinazione.
Nel centro del mondo dei fossi e delle rotaie fluttua un ventre gigantesco. Cresce fino a superare se stesso, come un'enorme, ruvida erbaccia sferica.
Un mondo di verticali e orizzontali, scandito dalle file di carriole piene di terra, si innalza monumentale attorno al pesante corpo umano, simile a creta gialla mescolata con acqua.
Esiste un mondo a parte delle materie prime. Un mondo di materie grasse, appiccicose, irritanti.
Una di esse è il tempo, materia collosa, sordida, dissoluta.
Il tempo è il corpo appesantito della noia, il corpo della monotonia.
L'ingegnere impegnato nella costruzione della stazione, ogni ingegnere, trasforma le materie prime e la disgustosa materia del tempo. Allora sorgono muri, strade e gallerie.
I giorni delle altre persone si sgretolano in gocce cangianti di incontri, in una sabbia di parole colorate. E i vasi colorati degli incontri e dei destini sono fatti come di nulla.
Il mondo dei freddi piani verticali ed orizzontali è diverso. Essi sono stabili. Rendono sicuro lo spazio. Sono come fatti di tutto, come il blocco della rinuncia, che è a tutto.
Adagio adagio crescono i piani verticali ed orizzontali. Adagio adagio crescono i muri e, come un'appiccicosa foglia di bardana, trabocca il tondo grigiore della lentezza: ogni mattone è misurato a lungo sugli altri e così ogni fila di mattoni, rivestita e a lungo accarezzata con il velluto della calce paziente.
Tutti i mattoni sono uguali. I mattoni sono cubi colorati di rosso.
I mattoni hanno tutti le stesse dimensioni: 27 x 13 x 6.
Dai mattoni si sviluppano i muri. I muri in crescita conoscono solo due nostalgie: una verso l'alto, come gli alberi e le erbe, in direzione della gialla sfera del sole; l'altra verso il basso, dove tendono i pesi, tutte le cose stanche e le nostre mani, quando ormai tutto nella vita è finito.
Queste due nostalgie verticali sono eterne come il sole, l'oscurità e la vita.
La lentezza dei muri che non sono ancora finiti si chiama "noia". Questo tipo di noia è tipico degli alberi, delle erbe e della vita, ed anche delle persone che hanno a che fare con il mondo delle materie lente (di tutte le figure geometriche, è il rettangolo a rappresentare questo tipo di vita. Vi si ripete la dolcezza del quadrato e di ogni settimana, da ciò la sua forma allungata).
L'ingegnere ha in sé quell'anima di muri lenti, l'anima di un'eterna verticale.
I giorni alla periferia di quella crescita sono come senza destino, marginali e innocenti: senza peso, li si può paragonare a mattoni cavi.
Ma tutto ciò che in essi accade può essere questo, oppure qualcosa di completamente diverso.
Esiste un mondo a parte delle materie prime. Un mondo di materie grasse, corrotte, informi.
Le materie prime attendono il loro destino. Giacciono in tutto il mondo in ammassi enormi, come erbacce appiccicose, mordenti, licenziose, pesanti quintali per l'incessante attesa.
Le materie prime vogliono essere numero e figura. Le materie prime attendono la misurazione e i contorni, loro predestinazione e destino.
Il corpo delle materie prime è grossolano e goffo: un pezzo di enorme peso grigio, che muove al pianto, come un grande pavimento strofinato con la liscivia gialla, come una vita senza destino.
Ma la loro anima è invece delicatissima e fantastica. Si deve solo scoprire l'anima nascosta della materia.
C'è la creta appiccicosa, sperduta nella vita.
Il cemento grigio, irritante, fatto come di nulla.
La calce vellutata, colma di pazienza.
La lamiera consapevole e triste, come un uomo che ormai dica: che nella vita accada ciò che accade.
E il ferro, duro come i destini tragici.
In ogni costruzione si può scoprire la formula nascosta della loro anima.
Creta. La creta è pesante e goffa, come la felicità come l'infelicità Il giallo-creta è il colore delle cose fallite, così come il color limone è tipico della fredda rinuncia. Noi siamo di creta: una volta messe in moto, le nostre due gambe e braccia ricadono poi cento, mille volte sempre nello stesso punto; un'unica cosa fallita nella nostra vita ... e già tutta la vita è fallita.
L'appiccicosa materia prima della creta serve per cuocere i mattoni: cubi angolosi, secondo le misure di 27 x 13 x 6 cm. Il loro rosso è duro e un po' rigido.
I mattoni sono limpidi e colmi di un suono cristallino: duri e decisi, come persone occupate, persone concrete, che vien voglia di paragonare ad un rigido fiore, alla rotonda dalia rossa.
I mattoni non somigliano affatto all'argilla: i mattoni sono l'anima limpida e trasparente del corpo pastoso, dissoluto, disperato dell'argilla.
Cemento. Il cemento è una miscela di malta vischiosa, scheggia vagante della monotonia.
Poi viene la ghiaia, corpo goffo e triste come la kasza.
Anche l'acqua, che salda i vuoti grani della ghiaia, la sabbia e la malta, anche l'acqua è incolore e non somiglia a nulla.
Il cemento deve dunque essere noioso come una felicità consunta. Quando si vede il cemento vengono le lacrime agli occhi.
Questo è il corpo. Ma l'anima del cemento è, come al solito, delicatissima e fantastica.
Sopra la terra sferica sono sospese volte di cemento: uno, due, centinaia, migliaia di volte: percorrono le vie con le gallerie e i marciapiedi di cemento. I muri bianchi e grigi nelle vie sono un orgoglioso albero di cemento.
La città è piena di una sostanza grigia, che fa male, come gli infiniti, piatti campi di cardi lilla. E come tutta la vita.
E' un giorno vellutato del mese di ottobre. Il cielo è di un azzurro senza nome, come avviene soltanto quando tutto è ormai perduto. Le foglie sono color rame e - come il rame - elastiche di malinconia. La prospettiva, i muri e i marciapiedi sono invece grigi, come serate dalle pallide lanterne.
Il grigio del cemento, il rame delle foglie, l'azzurrino senza nome del cielo.
E la questione del grigio, del rame e del cielo che avviene nel salone ovale dell'autunno.
Comincia così: un colore di tela celeste, il colore di tutte le cose che sono ancora possibili, riveste le strade e allora tutto può succedere ancora.
Ma se non viene nessuno... allora sulle persone cala la malinconia, con le grandi foglie colorate delle cose perdute. Dagli alberi cadono allora foglie color rame, il cui profumo dura a lungo. E' come se l'anima si fosse colmata di rame.
Appoggiandosi al cemento dei muri e dei marciapiedi sta in attesa il grigio. Si rispecchia nella prospettiva, come in un grande mare triste.
Il cemento è noioso e irritante come un'erbaccia. Ma il grigio ha bisogno del cemento. Il grigio di ottobre non può vivere senza il cemento dei muri, delle volte e dei marciapiedi.
Il grigio ha l'odore dell'andirivieni della gente. Le foglie rugginose odorano di vita. Allora si vede ad un tratto, come per la prima volta, il rettangolo rosso del tram che scorre e brilla di cinabro ardente. E allora non c'è null'altro nelle lunghe strade: solo quel rettangolo di cinabro.
Il rame che stormisce nel grigio è fitto delle cose della vita.
Com'è sfacciato e banale il verde carico degli alberi estivi ... cinica pubblicità di mobili vecchi, sospesa in un solenne paesaggio di acciaio grigio. E' petulante quel verde, come un uomo che non ha destino.
Ne risulta che solo il rame malinconico si addice alle foglie, nel paesaggio di quelle piante grigie che sono i muri.
Il grigio è necessario alla vita. Il grigio non può vivere senza cemento. E così accade che nelle vie di ottobre il cemento non sia più un peso, una goffa essenza la cui vista fa male, come i campi dai fiori di percalle; ecco che nella città è stata trovata l'anima fantastica del cemento, la formula della sua vita nascosta: le strade, i muri e le gallerie.
Nella costruzione della stazione è stata trovata anche la formula della vita del cemento. La si può trovare in tutti i cantieri.
La triste lamiera del tetto.
Le grandi lastre di vetro silenti alle finestre.
Le mattonelle stupite della stufa, quadrati verdi, gialli, rossi.
E le assi spigolose dei pavimenti di legno e degli infissi.
Tutto ciò riempie l'anima dei campi di percalle di un equilibrio ancora incerto, come quando i primi mobili cominciano a riempire le stanze ancora impregnate della vuota umidità della vernice fresca; come quando la prima avventura e il peso del destino danno stabilità alle sferiche stanze del tempo. Poi, quando le stanze ci sono già, esse attendono il proprio destino, i mobili. Attendono l'orizzontalità dei tavoli e delle credenze, la verticalità delle sedie e degli armadi.
La bizzarra pianta di linee orizzontali e verticali crescerà sempre più fitta, albero geometrico di superfici e contorni, di pareti e di mobili, proporzionato e classico, fino a riempire del tutto il luogo destinato in precedenza ai fiori di percalle lilla. Solo allora il mondo diventerà sferico: solo un mondo di cose pronte, concentrate e accarezzate dalla misura è sferico, monumentale e, come una sfera, perfetto.
Ormai lo si può avvolgere nel duro abbraccio di rotaie scintillanti, nel grigio intenso dei passi di uno dei tanti giorni della vita.
Il primo giorno. Il secondo. Il settimo.
E, quando tutto è ormai pronto e ultimato nel campo di percalle dagli incerti fiori color lilla e burro, si apre il capitolo della melodia cristallina della vita.
Le cose pronte e le questioni finite hanno il suono del cristallo e della malinconia. Tutto ciò che ha contorni stabili, e la figura di un rettangolo o di un cubo, è grigio per la tristezza, poiché è ormai definitivo.
Perciò gli abiti ultimati negli armadi, i mobili di mogano nostalgico accostati alle pareti, i destini raggiunti e la vita degli uomini consapevoli emanano una malinconia cristallina.
Nella stazione ultimata risuona la malinconia: nei muri ormai immobili, che hanno ormai raggiunto la misura prescritta, nelle scarpate levigate con il metro, nelle rotaie perfettamente parallele anche negli arrotondamenti e negli archi, infine nelle anime degli uomini la cui sorte è stata, per tre mesi, un misero luogo destinato ai ranuncoli e ai cardi lilla.
D'ora in poi in quello spazio di ordinaria vegetazione non accadrà più nulla: qui è stata rielaborata la noia di percalle della vita, il corpo goffo e monotono dei materiali; qui è stata scoperta l'anima nascosta del tempo, corpo appiccicoso della monotonia: cose solide, avvenimenti e felicità.
Tra una settimana o forse tra un mese vagoni scintillanti cominceranno ad attraversare la nuova stazione. Si fermeranno per breve tempo, trasportando gente da un posto all'altro, come si trasporta lì dove è necessaria la terra che non serve a nessuno (le persone attendono continuamente e da sempre la propria sorte, come le materie appesantite e grasse).
Quei vagoni sono identici fino al millimetro: sono così fantasticamente identici come possono esserlo solo i numeri. Ed il grigio.
E infine risulta che la monotonia è quella sorte, quella predestinazione che le persone attendono per tutta la vita. Per l'attesa incessante sono giunti a pesare quintali e sono pieni di goffaggine: anche in questo sono simili alle materie prime e ai grossolani materiali.
Questo è il breve capitolo della storia della nostalgia degli uomini per il numero e per la monotonia.
Lode alle materie prime, ruvide, appiccicose, grasse! Ad esse tutte, sparse per il mondo intero come erbacce nauseanti, in attesa della propria storia e del proprio destino.
Lode ai campi imprevedibili, agli innocenti campi dalla vegetazione di percalle lilla, dalle grandi foglie di bardana della noia!
Lode alla vita, che è come la grande foglia di gramigna della noia, come una zolla grezza di grassa creta e di ruvido cemento.
E' da essi che vengono le cose che scintillano di levigatezza e misura: cose che odorano di fresca durezza, dell'elasticità dei metalli e dei passi.
La stazione ferroviaria ultimata loda a gran voce tutte le materie prime licenziose, pastose e dissolute come la noia: tutti i materiali utilizzati per la costruzione.
E' novembre e la costruzione della stazione ferroviaria è terminata.