MONTAGNE RACCONTANO

 

di Andrea Sceresini

 

 

Capitolo I

 

Il sentiero si inerpicava lungo il fianco della montagna, tra nere pinete e scroscianti ruscelli. I monti, lassù, con le loro creste erbose, le loro rocce, i loro misteri, sembrava volessero toccare le buie nubi che, cariche di pioggia e di cattivi presagi, solcavano il cielo, tenebrose.

Il silenzio eterno della montagna avvolgeva ogni cosa, ogni creatura; l'Isonzo scorreva, giù nelle profonde gole, tra le rocce scure, cullando, col suo dolce canto, i piccoli villaggi che erano sorti lungo le sue sponde, nel corso dei decenni, dei secoli...Dolje, Zatolmi, Volarje, Kamno... in quei semplici paesi, la povera gente, i contadini, stavano rientrando alle loro case, dopo una dura giornata nei campi, sempre al cospetto delle montagne, delle loro divinità, poveri, ospitali, religiosi, uomini delle valli e dei focolai.

Il viandante vedeva tutto ciò, dal suo sentiero, mentre i suoi passi si facevano più veloci ed il suo respiro più affannoso. Vestiva poveri panni borghesi e calzava un paio di pesanti scarponi da montanaro; i suoi duri occhi vorticavano su ogni cosa, su ogni albero, su ogni monte, stanchi, bisognosi di riposo. Le sue narici inalavano inebriate il dolce balsamo della resina, senza sosta, insaziabili.

Ma ora era esausto: erano ore che camminava lungo quel sentiero, tra quei boschi, ma finora non aveva incontrato alcuna baita, alcun valligiano: la verde calma regnava senza sosta, rotta sola dal duro rumore dei suoi passi e dal battere incalzante del suo cuore. Alzò lo sguardo verso le vette buie, prima che queste venissero inghiottite per sempre dalle plumbee nubi e dalle ancor più scure tenebre notturne: ecco le verdi sommità del Mzli Vrh, alla sua destra; sopra di lui il monte Kuk, aspro, ripieno di gole profonde, tortuose, attraverso le quali le acque rimbombavano fragorosamente, facendosi udire fin nel fondovalle, dove, scorrendo tra rocce e pinete, si univano a quelle più chete dell'Isonzo. Davanti a lui, maestose, si ergevano le creste del monte Nero, altissime, imbevute di nebbie, di precipizi immensi, popolate da soli stambecchi e camosci, da gnomi ed elfi, creature fantastiche che la fantasia popolare aveva voluto associare a quei luoghi senza limiti, che dominavano da sempre la vallata ed i suoi abitanti, curvi, umili, in continua fuga.

La notte scese, veloce, inghiottì ogni cosa. Tutto era ora ridotto ad un ombra senza confini, leggera, fluttuante. Nella valle si illuminarono, ad una ad una, le case dei vari villaggi, luci tremolanti, ma calde, piene di amore. Per i boschi iniziò a spirare un vento  gelido, un soffio dall'aldilà, pensò il viandante. La civetta prese a lanciare il suo stridulo, lugubre verso.

L'Uomo rabbrividì: aveva freddo, molto freddo, era stanco: iniziò ad aguzzare lo sguardo tra gli alberi, alla ricerca di qualsiasi luce che rivelasse la presenza di una remota abitazione, dove avrebbe ricevuto cibo ed ospitalità.

Invano: innanzi a lui il sentiero si perdeva nella più nera oscurità, tra invisibili boschi, ruscelli, massi; ogni cosa era avvolta dalle tenebre.

Non vi era la minima traccia di anima viva.

Per qualche istante la luna piena fece capolino da dietro le nuvole buie che velavano il cielo, sulla vallata. Il vecchio disco pallido ridiede vita ad ogni figura, ad ogni cima. L'Isonzo, giù nelle sue gole, iniziò a luccicare, come luccicano solo i metalli preziosi, maestosamente; tutte le foreste, che ricoprivano gli aspri monti, si tinsero di grigio, come fantasmi: i rami spogli presero le sembianze di tetri artigli, protesi gli uni verso gli altri, quasi nell'atto di afferrarsi, di sfregiarsi, di divorarsi, in un'assurda lotta senza tempo.

Le alte vette, illuminate, ricoperte d'argento, prendevano, allora come non mai, le sembianze di grandiosi numi. Dall'alto dei loro precipizi, dei loro burroni, vegliavano sul sonno dei propri figli, dormenti ai loro piedi.

Lo spettacolo era solenne e, nello stesso tempo, tenebroso, oscuro, intriso di magia.

 

 

Capitolo II

 

Il viandante abbandonò il sentiero e si inerpicò tra pini secolari e vecchie pietraie: la candida luce lunare aveva rivelato ai suoi occhi attenti una vetusta baita in legno, che sorgeva al limitare del bosco, ai piedi delle scoscese pareti rocciose del monte Kuk. Era una costruzione stretta, edificata al caldo riparo di un masso granitico; sembrava molto, molto vecchia, quasi si trovasse lì dalla notte dei tempi, dimenticata isolata da tutto ciò che è vivo, da tutto ciò che conta: quel macigno pareva fosse la sua unica, triste compagnia. Le luci erano tutte spente, ma un flebile, solitario filo di fumo proveniva dal camino; era l'unico segno che il luogo fosse ancora in vita, abitato.

L'Uomo bussò alla porta. Un suono sordo echeggiò per tutto l'ambiente.

Poi si sentirono pesanti passi disordinati, passi da vecchio.

Un respiro affannoso, profondo, risuonò al di là della porta sprangata. Poi una voce cupa, gutturale, di natura indefinibile:

"Vattene, sporco cane rognoso! Via dalla mia casa!".

L'Uomo ebbe un sussulto; la luna fece nuovamente capolino dietro le nubi, tutto tornò scuro, pieno di mistero.

"Vi prego, aprite: sono solo un povero viandante. La notte è fredda e non chiedo che un giaciglio dove potermi coricare per qualche ora, in attesa dell'alba.".

Si aprì nel muro una piccola finestrella e due occhi lo scrutarono, sospettosi. Luccicavano, nel freddo buio della notte, spettralmente, di una strana luce che l'Uomo non aveva mai notato in nessun'altra persona... Era una luce di morte, gelida. Si alzò il vento da nord. L'Uomo rabbrividì, insieme a tutta la montagna.

"Come vi chiamate? Da dove venite?".

La voce era scontrosa, senza un minimo di calore umano. Glaciale.

"Mi chiamo Pavelic, Josip Pavelic. Sono croato, di Drvar.".

"Siete solo?".

"Sì".

Un grosso chiavistello cigolò lentamente, una chiave girò nella toppa ed, infine, la pesante porta di legno d'abete si aprì su di un piccolo locale fiocamente illuminato.

"Potete entrare!".

Una figura incurvata dagli anni gli fece un largo gesto, in segno d'invito. Era una vecchia, di età indefinibile; ingobbita, con la faccia butterata, stravolta dal peso degli anni; la sua pelle bianchissima, in più punti sfregiata, ricordò per un attimo all'Uomo la scorza di una betulla.

La donna vestiva semplici abiti contadini, scuri, spesso rattoppati da una mano insicura; un pesante scialle di lana le copriva le spalle ossute e la difendeva, in qualche modo, dal freddo pungente della notte.

"Entrate!", ripetè con la sua gelida voce, voce che non tradiva un minimo di cortesia, di calore umano.

"Vi ringrazio.", balbettò l'Uomo, facendosi finalmente strada all'interno dell'abitazione.

Il locale era piccolo, malamente illuminato dal timido fuoco che ardeva nel caminetto, fuoco che riusciva a malapena ad intaccare la scura calotta di tenebre, che avvolgeva, regnante, tutta l'abitazione.

La Vecchia si sedette ad un massiccio tavolo, vicino al fuoco, ed indicò all'Uomo una sedia libera, accanto a se'. L'Uomo ubbidì. Sul tavolo, polveroso come se non venisse utilizzato da anni, giaceva, abbandonato, un pesante coltello dalla lunga lama, nera. Giaceva abbandonato come quella casa, come quella vecchia, sola, lontana.

L'Uomo provò, per un attimo, compassione per quella donna. Solo per un istante.

"Mi deve scusare per la mia brutalità, ma non è prudente aprire la porta agli sconosciuti, di questi tempi, soprattutto dopo il tramonto: i monti pullulano di briganti. Di giorno vivono tra le creste più alte, nei loro covi segreti. Poi, di notte, scendono a valle, mascherati dalle tenebre, ed assalgono le case più isolate, ne uccidono gli abitanti e danno fuoco a tutto quanto. Io non sono che una povera vedova e non saprei certo come difendermi da queste orde sanguinarie.

Ma ditemi, piuttosto: cosa ha spinto voi, un croato, fino a queste selvagge regioni?"

La Vecchia parlava con distacco, cercando, invano, di mascherare la sua freddezza con qualche parola cortese.

L'Uomo si sentiva molto a disagio, pieno di strani timori: non vedeva l'ora di lasciare quella casa e la sua singolare ospite.

La sua voce tremò leggermente. La Vecchia lo fissava quasi con sfida, con quegli occhi gelidi spettrali.

"Non sono più un croato, ormai! I turchi hanno messo in pochi mesi a ferro e fuoco la mia patria. Hanno ucciso, violentato, torturato. La cristianità di quella terra è stata repressa. Ora sono solo, unico sopravvissuto del mio villaggio: la mia famiglia...tutti morti come cani...

Sono ormai due mesi che cammino verso nord. Forse arriverò in Austria. Lì spero di iniziare una nuova vita. Non ho più nessuno, ma,...con l'aiuto di Dio,...so che ce la farò!"

L'Uomo abbassò lo sguardo: i ricordi della sua gente, della sua terra lo torturavano giorno e notte; erano crude immagini quelle che gli passavano innanzi agli occhi: scene di sangue, urli, pianti infiniti, case bruciate...un inferno; ricordava quei giorni come se fossero passati secoli: occhi annebbiati dalle lacrime; ricordava il fumo dei fuochi, le urla strazianti dei suoi familiari, ricordava i visi neri, brutali, dei loro carnefici. Sorrisi pieni di odio. Ricordava le masse di cadaveri lungo le strade. Ricordava l'odore acre del sangue. Gli sguardi bestiali.

La Vecchia lo scrutava con i suoi piccoli occhi sepolti dalle rughe. Il suo sguardo glaciale lo investì a lungo, con disprezzo.

Poi sorrise.

Su, per le aspre gole del monte Kuk, risuonò, languido, l'ululato del lupo.

"Sarò lieta di ospitarvi per questa notte, mio giovane amico. Si è fatto tardi, ormai, e sono certa che siate esausto.

Seguitemi: vi mostrerò la vostra stanza."

La Vecchia lanciò all'Uomo un ultimo, truce sguardo, che tradiva le sue parole gentili ed ospitali; si alzò e, con un brusco gesto della mano, gli fece segno di seguirla, nel buio dei locali vuoti.

 

 

Capitolo III

 

La stanza che lei gli mostrò era piccola e fredda, illuminata dalla sola, flebile, luce lunare, che filtrava, stancamente, da una profonda finestra. Un grosso letto, ricolmo di pesanti coperte, occupava gran parte dello spazio, di fronte alla porta; accanto a questo vi era solo un piccolo armadietto di legno, vuoto, ammaccato dagli anni.

"Apparteneva al mio povero marito."- commentò tra i denti la donna, in un gelido soffio. Con un brusco gesto indicò all'Uomo un angolo del locale, un angolo dove le tenebre sembrava si fossero solidificate e macerate le une sulle altre, per infiniti anni.

Su di esse dominava un polveroso ritratto, che, illuminato da un solitario raggio lunare, sembrava fosse in procinto di inghiottire l'intero locale coi suoi occupanti.

L'Uomo gli si avvicinò di qualche passo.

La persona la cui immagine era stata impressa sulla tela lo fissava insistentemente, coi suoi profondi occhi grigi.

Era cereo, come un morto, stempiato, la faccia rugosa e sfigurata da smorfie indecifrabili; i neri capelli che si confondevano con lo sfondo buio e piatto, freddo. La bocca semiaperta lasciava intravedere lunghe file di denti gialli, appuntiti come pugnali. Quella bocca buia attirò a lungo l'attenzione dell'Uomo: sembrava volesse riempire la stanza vuota con un mucchio di parole sconosciute, di immagini terribili, di sensazioni indecifrabili; eppure stava lì, ferma, forse in attesa del momento più propizio, in continuo agguato.

C'era un’incisione in rosso, nell'angolo alto, a sinistra della tela. L'Uomo si avvicinò ancora di qualche passo e cercò, nel nero più assoluto, di decifrare quelle esili parole.

 

"Ersilio Gubec

I morti sono veloci.".

 

Un rumore secco colse l'Uomo alle spalle: una chiave stava girando nella serratura; la Vecchia era uscita, era solo, prigioniero delle tenebre, della notte.

Un pesante, gelido silenzio cadde sulla casa, sulla vallata intera: i secolari monti, là fuori, nella loro maestosità, cullavano silenziosamente le valli ed i loro figli.

L'Uomo era esausto: le gambe gli pesavano incredibilmente, come macigni, gli dolevano senza tregua; una forza misteriosa sembrava facesse di tutto pur di farlo coricare, pur di spegnere ogni sua vitalità.

Il letto era morbido, accogliente, pieno di calore; l'Uomo vi si rincantucciò come in una tana, sentendosi al sicuro da tutto, da ogni cosa. Pensò al monte Nero, al Kuk, con le loro ripide rocce grigie, i loro impervi canaloni, le loro folte creste, circondate dalle tenebre, eppure ancora deste, intente a vegliare, senza sosta, su ogni cosa. Era bello addormentarsi su questo pensiero.

Il suo sguardo si posò sul nero ritratto, di fronte a lui: la Figura continuava a fissarlo, con quei suoi occhi grigi, pieni di mistero, di fredda sfida.

"Anche lui veglia su di me...". Poi cadde nel più profondo dei sonni.

 

 

Capitolo IV

 

Fu un sonno senza sogni, agitato da oscuri presentimenti, che si addensavano nel silenzioso buio che avvolgeva ogni cosa.

Poi la casa iniziò a riecheggiare di insicuri passi, passi che avvolgevano ogni vuoto locale, che si facevano strada nelle tenebre più inaccessibili. I passi si spostavano da una stanza all'altra, risuonando sempre più vicini nelle sorde orecchie del dormiente.

Infine si fermarono bruscamente, davanti alla porta sprangata; la casa ricadde nel più nero silenzio.

L'Uomo si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte, sudato, tremante come un pulcino. I suoi occhi impotenti, sgranati, roteavano per la stanza, velocemente, voraci, senza riuscire ad intaccare minimamente il nero panno che li avvolgeva. Fuori la pioggia cadeva pesantemente: questo fu l'unico suono che l'Uomo riuscì ad afferrare, nel suo immobile panico.

Non era reale, non poteva. Forse era stata solo un'allucinazione, il tragico concludersi di un terribile incubo, alimentato dalla furia del temporale. La fatica, alle volte, gioca brutti scherzi: questo lo sapeva molto bene, come la fame, del resto, e la sete.

L'Uomo rimase per qualche minuto in ascolto, pronto a scattare, come una molla, al minimo segno di pericolo. Nulla...solo la pioggia battente e, lontano, come in un delirio, il rombare dell'Isonzo, giù, nel fondovalle, rompevano, in qualche modo, il sacro silenzio della montagna. Niente era accaduto, era stato solo un sogno. L'Uomo cercò di rilassarsi nuovamente, si rintanò fiducioso nelle calde e materne coperte, e chiuse gli occhi, sognando verdi prati e fiori profumati, in riva al suo bel mare.

All'improvviso il suono si ripeté, ancora più vicino: era una roca, fredda risata, una risata che non apparteneva a questo mondo, giungeva da dietro la porta, dal vuoto delle tenebre.

Una gelida vampata bruciò all'Uomo tutti i suoi sogni, lasciandolo di nuovo solo, nella notte.

Rimase come congelato, senza più fiato, per interminabili istanti: fissava senza espressione le tenebre, nella cieca direzione della porta. Ora si sentiva nudo, vulnerabile, come un gattino  guercio, circondato in ogni direzione da visi bestiali, pieni di smorfie e di urli senza vita.

"I morti sono veloci"- questo pensiero lo fulminò.

 

 

Capitolo V

 

Il brigante posò lo sguardo al di là della sua roccia, osservò la vallata nera, piena di misteri. Lui era lassù, tra le rocce eterne del monte Nero, al di sopra di tutto e di tutti; non aveva paura di nessuno, di niente: si sentiva un sanguinario dio, un dio pagano, il dio dei monti e delle vette, al quale i suoi insignificanti devoti, miserabili, pieni di paure, di timori, di ansie, dovevano, ogni giorno, un freddo tributo di sangue.

Il temporale si riversava sulla vallata, i fulmini squarciavano le tenebre, i tuoni ne facevano rimbombare ogni più lontano recesso: la sua ira si stava scatenando, pensò, stava schiacciando tutti coloro che egli aveva giudicato indegni; l'oscurità li avrebbe inghiottiti, per sempre.

Il brigante buttò indietro il capo, e, con la sua bocca marcia, lanciò una lunga e roca risata, quale sfida a tutti, ad ogni cosa, ad ogni monte, ad ogni misero, ignaro uomo.

Il suo cupo richiamo risuonò fragoroso per ogni roccia, per ogni più inaccessibile cresta, inghiottito dalle viscere delle valli, poi risputato fuori, a mo’ d’eco, e tornò a echeggiare, più gutturale, più sinistro, più antico, quasi appartenesse alla montagna stessa, alla sua essenza vitale, all'ignoto mistero della notte, non più a lui.

 

 

Capitolo VI

 

L'Uomo si mosse intimorito, tra le gelide lenzuola; il buio sembrava si facesse sempre più fitto, sempre più minaccioso, carico di silenzio, di tensione.

L'Uomo tremava, ed attendeva qualsiasi cosa, già spiazzato in partenza: contava i secondi che passavano, uno alla volta, sperando di giungere così all'alba, e di sentirsi un imbecille, di gettarsi tra i prati, di correre fino a svenire, ridendo, urlando la sua gioia di essere ancora vivo, un uomo tra gli uomini.

Le sue orecchie erano tese al massimo, pronte a percepire anche il più lieve scricchiolio, la sua mente lavorava febbrilmente, elaborava i più strani e contorti pensieri, delirante, in attesa che il buio si tramutasse in qualcosa di ancor più terribile, di ancora più fosco.

All'Uomo sfuggì un caldo gemito, quando udì la chiave infilarsi nella toppa, la sentì girare lentamente, delirante, quasi essa lo volesse stritolare con la sua rotazione, come un serpente stritola la preda tra le sue spire, diaboliche.

L'Uomo era dolorante, coperto di gelido sudore, immerso in un silenzio che non poteva spezzare.

"Chi va là?".

Fu l'unica frase che uscì dalle sue labbra tremanti, non come una domanda, ma, bensì, come una sorta di supplica pietosa, un leggero sospiro che sarebbe andato a perdersi nel vuoto buio di quella casa.

L'Uomo udì un lieve sogghigno, appena accennato; fu l'unica risposta che ricevette, ma gli bastò: era la risposta del nulla, delle tenebre, una risposta senza parole alla sua muta domanda, una condanna.

L'Uomo urlò!

 

 

Capitolo VII

 

Per la prima volta nella sua vita, il brigante ebbe paura: ritrasse lo sguardo dalla vallata, preso da un timore che mai aveva provato, un timore che si prova solo da bambini, quando, in una tempestosa notte invernale, ci si ritrova a vegliare, solleticati dal monotono ululare del vento, misteriosamente attratti da ogni ombra, da ogni scricchiolio, coi pensieri che si fanno sempre più vorticosi, scossi dall'incessante echeggiare degli elementi; ci si sente solo uomini.

Il brigante mosse qualche passo indietro, improvvisamente insicuro, senza perdere di vista l'oscurità indefinita, tutto d'un tratto fattasi opprimente, che lo circondava, da sempre più vicino.

(Quella risata!).

Emise un gemito.

Terrorizzato.

Si sentiva piccolo come un insetto, così piccolo da non riuscire neppure a capire dove si trovasse, chi avesse innanzi.

Chiuse gli occhi.

E volle fuggire.

Forse persino morire.

 

 

Capitolo VIII

 

L'Uomo si vide vorticare tutto intorno, tutto egualmente nero e misterioso, poi i suoi occhi sconvolti videro una figura bianca pararsi oltre la porta, spettrale, senza confini.

L'Uomo si rintanò nei più profondi recessi di se' stesso, infreddolito, tremante, senza più voce: aspettava, tra lo scorrere infinito dei secondi, senza sosta, logorandosi, cogli occhi che gli dolevano dal troppo sforzo ed il freddo che lo consumava inarrestabile, sempre più vicino, sempre più grande.

La Figura si avvicinò a piccoli passi, lentamente, senza fretta, come una fiera affamata che si appressa, fiduciosa, alla bestiola ferita, delirante, senza più speranze.

Quando essa si accostò al letto, l'Uomo poté udirne il respiro affannoso, gelido, zefiro di morte, e carpirne l'acre odore, umido, pungente, ricco di messaggi e di minacce.

Fu un urlo rabbioso a squarciare la nera calotta che aveva invaso la mente dell'Uomo, ma non era stato lui a gridare, e neppure la pallida Figura, la quale, però, parve bloccarsi all'improvviso, quasi quel prolungato verso l'avesse investita, con la sua irosa freddezza.

“Pòjdi no! Gnùsen zver!”

 

 

Capitolo IX

 

Il suono si ripeté un paio di volte, sempre più potente e sempre più vicini, fino ad identificarsi con un minuscolo lumicino, che apparve, tremolante ed improvviso, oltre la soglia della stanza.

La bianca Figura, persa la propria risolutezza, si avvicinò al chiarore della candela, lenta e leggera, quasi incurvata, e sottomessa da quelle oscure potenze che essa sola conosceva.

Un solitario e traditore raggio di luna si posò, per pochi attimi, su colui che reggeva la piccola lanterna, veloce, fugace: l'Uomo vi riconobbe, come in un lampo d'orrore, la sua anziana ospite: i suoi piccoli occhi roteavano per tutta la stanza, senza pausa, le sue labbra, ritratte in un ghigno rabbioso, sembrarono all'Uomo estremamente purpuree, in netto contrasto col viso cereo e rugoso, che conferiva alla donna l'aspetto di un fiore secco, quasi in decomposizione.

Quando la spettrale Figura le fu abbastanza vicina, la donna incominciò a parlarle, sommessamente, forse nel vano tentativo di non farsi udire dalla propria preda, sperando che essa, ignara, fosse ancora avvolta da un pesante torpore, lontana da qualsiasi sospetto, errante cavallo selvatico, dormiente, sull'orlo di un precipizio senza più fondo.

L'Uomo non poté carpire che poche e spezzettate frasi, ma che bastarono a fargli gelare il sangue nel più profondo delle vene, pugnalate inflitte senza alcuna pietà sul corpo già segnato di un povero vecchio storpio, infelice, solo e senza più speranze.

 

 

Capitolo X

 

Quando le due figure si furono allontanate, ghignanti, ritirandosi nuovamente nei più oscuri meandri di quella fredda notte autunnale, l'Uomo, tratto un lungo ma inutile sospiro di sollievo, si ritrovò all'improvviso di fronte alle più nere delle prospettive; capì di aver a che fare con pericoli ben più gravi di quelli che aveva corso sui campi di battaglia della Dalmazia, tra fiumi di sangue cristiano e montagne di cadaveri anneriti e sfigurati dal furore della lotta: aveva a che fare con forze mille volte più terribili: i Vukodlak!

Nella sua patria, in Croazia, così come in tutta l'Europa Orientale, esistevano secolari leggende a proposito di queste creature della notte, leggende che spingevano gli uomini a richiudersi in se' stessi, dietro poveri simboli di fede, timorosi di ogni cosa si trovasse al di sopra della loro popolare ignoranza, leggende oscure e piene di misero, che venivano sussurrate da padre in figlio, di fronte al tetro fuoco di un polveroso caminetto.

L'Uomo ne aveva udito spesso parlare, sapeva di queste sanguinarie creature, che vivevano tra le tenebre, in continuo agguato, che assalivano i viandanti ed i vagabondi, nel cuore della notte, spillandogli le purpuree gocce del loro prezioso sangue. Si diceva che essi, spesso, spinti dalla fame, attaccassero interi villaggi, in massa, portando sugli abitanti la loro perpetua maledizione, e la loro oscura fede, diabolica, come le loro stesse sembianze.

Gli occhi dell'Uomo presero a vorticare, furiosi, per tutta la stanza, in cerca di una via di fuga, di una qualsiasi speranza. Ma le tenebre continuavano, inesorabili, ad avvolgere ogni oggetto, ogni creatura, opprimevano l'Uomo sotto il loro peso, lo pressavano come una foglia entro un torchio, non gli davano alcuna illusione.

Poi, come nel più terribile degli incubi, il suo sguardo si posò sull'angusta finestra, attraverso la quale filtravano, sempre più esigui, i candidi raggi della luna.

Oltre quei vetri opachi, scuriti da anni ed anni di violenza e di terrore, una miriade di piccoli occhi lo fissava, bramosa: visi bestiali, smagriti, ammucchiati gli uni sugli altri, in una sorta di diabolica competizione, ondeggianti, incorniciati da lunghe, nivee zanne, che sporgevano, minacciose, tra le labbra purpuree, leggermente socchiuse.

Affilati artigli graffiavano instancabili i vetri, provocando macabri miagolii, mentre mille sguardi frugavano tra le carni indifese dell'Uomo, lo strappavano, lo squarciavano per poterne succhiare la calda linfa vitale. Il sangue scorreva a fiotti e si riversava copioso, mescolandosi con l'antica polvere che ricopriva ogni pietra di quella casa maledetta.

L'Uomo era paralizzato; sentiva un gran freddo: un gelido zefiro sferzava, incessante, contro ogni membra del suo corpo martoriato. Non ebbe neppure la forza di urlare. Nella sua mente risuonavano strane voci senza vita: dolci e, nello stesso tempo, aspri richiami. L'Uomo ascoltava quelle parole, senza più forze, senza più alcuna illusione, ormai schiavo di quelle stanze, di quei luoghi, che gli stavano rubando tutto ciò per cui vale la pena di vivere, la speranza.

La tempesta infuriava, silenziosa, scatenata da quei muti sguardi, ricolmi di morte.

 

 

Capitolo XI

 

L'Uomo non seppe mai, con precisione, ciò le sue orecchie udirono, quella notte.

Tutto era troppo pazzesco, troppo macabro.

Ma quel gelido terrore, senza nome, senza volto, che lo aveva attanagliato, e  con tanta veemenza trascinato in un furioso galoppo di morte, riportò alla luce, nella sua mente in totale scompiglio, un lontano ricordo d'infanzia, ormai sepolto sotto un'alta cortina di nostalgie e rimpianti.

Era l'osteria del suo villaggio, ricolma di fumi, impregnata dal puzzo delle pipe, perennemente immersa nel sommesso vociare degli avventori, nelle loro risate, nei loro schiamazzi.

Era il rigoglio della vita. La vita…

Il vecchio Jernej sedeva accanto al caminetto, con lo sguardo fisso e vacuo. Guardava oltre ogni cosa. Persino l'allegro scoppiettare dei ceppi, che arroventava l'animo degli avventori, non lo lambiva minimamente: lo lasciava lì, grigio, come un oggetto dimenticato da tempo.

Ecco... ora i ricordi si stavano facendo più chiari: una mano invisibile aveva aperto i più remoti scomparti della sua memoria.

L'Uomo strinse ancora più forte i lembi delle coperte.

Le sue mani erano un impasto di sudore

Il vecchio Jernej non aveva che due miseri moncherini.

Giravano oscure voci su questo mesto serbo dallo sguardo indecifrabile e dalle membra martoriate da chissà quali truci torture: si diceva che, catturato dopo la disfatta di Szigetvar, fosse rimasto sepolto per anni nelle più torbide galere turche, a Belgrado, a Mostar, a Tuzla, tra epidemie di colera, feroci tormenti, sull'orlo della pazzia.

E nei suoi occhi vi era qualcosa di folle.

L'Uomo se li ritrovò innanzi, dopo tanti anni, così com'erano allora.

Solo che adesso appartenevano a lui.

 

 

Capitolo XII

 

Dopo aver vuotato qualche boccale, le scarne gote del vecchio cominciavano a prendere colore, e dalla sua bocca, come in una lenta nenia, cominciavano a fluire parole: descriveva luoghi lontani, quasi fantastici, luoghi che aveva vissuto, e dei quali aveva imparato a nascondere i ricordi.

Le sue frasi scaturivano sempre più veloci, fino a diventare farneticanti, alimentati da una forza oscura. Gli avventori ascoltavano in silenzio; le donne si addossavano al caminetto, lanciandosi sguardi increduli, tormentandosi il viso con le mani tremanti.

Il delirio si soffocava sempre in un’ultima sommessa, disperata esortazione:

“Tutto è finito, tutto! Fuggitene via!!”

 

 

Capitolo XIII

 

(“Fuggi, fuggi!!”).

Due esili, calde parole illuminarono l’oscurità.

L’uomo si alzò di scatto.

Poi un urlo, uno schianto, meschine risate.

La notte si tinse di vermiglio.

 

 

Capitolo XIV

 

Un gelido vento spettrale stava sferzando la foresta, sollevando nubi cariche di polvere e facendo ondeggiare i rigidi rami delle piante, come tante spighe di grano in balia degli elementi.

La luna, pallida e più lontana che mai, anch'essa schiava della tempesta, non poteva che accontentarsi di lanciare poche, fulgide occhiate, al di là delle plumbee nubi che la stavano lentamente strangolando, come un serpente con la propria preda. Le catene dei monti si riconoscevano difficilmente, oltre le cime dei larici, immerse com'erano nelle nebbie notturne che quella valle solitaria e selvaggia sembrava produrre senza sosta, in continuo movimento, oltre la silenziosa cortina della notte.

Erano fulgidi e rari i rumori che osavano spezzare quest'incanto: gli uomini erano lontani, sprofondati nel caldo delle loro misere abitazione lassù, in quelle selve nere e misteriose, sembrava regnasse, da sempre indisturbata, l'incrollabile quiete della montagna.

 

 

Capitolo XV

 

L'Uomo correva ansimante, scavalcando sassi e sterpi, barcollando per la foresta, come una delle tante ombre che la popolavano, silenzioso.

Rivoli di sangue gli colavano lungo le tempie, e lunghi sfregi pulsanti imporporavano, sotto i vestiti a brandelli, ogni membra del suo corpo, simili a tante pietose trincee, scavate nella carne umana.

L'Uomo vagava senza meta, tra i larici ed i mugheti, pieno di orrore e di ripugnanza, senza più pensieri, senza più idee, se non miste a quello strano senso di vuoto, di morte, che lo stava pian piano demolendo.

Ma, nonostante la sua mente fosse sempre più debole ed annebbiata, come quella di un bambino in lacrime, sconvolto, egli continuava a percepire macabri presentimenti, interminabili e taglienti, come nere lame infuocate; la neve bianca e danzante aveva iniziato a cadere, tra gli alberi, come in una fiaba, creando lontane, magiche ombre spettrali; dietro di sé l’Uomo udiva lenti, fruscianti movimenti, passi sempre più vicini, sempre più avvolgenti.

Le sue mosse si stavano facendo stentate, stanche e disperate al tempo stesso: erano le mosse di un animale braccato, di una bestia innocente che già avverte, sul dorso, bianco e soffice, l’alito sanguinolento del lupo, grigio becchino delle foreste.

 

   

Capitolo XVI

 

Anche il suo sguardo si stava ormai spegnendo, vinto, per sempre, da quella notte senza fine; i suoi occhi, lacrimanti ed infreddoliti, frugavano invano oltre la nera coltre nevosa, ormai prossimi alla fine, ma indemoniati, senza pace: lentamente gli alberi si stavano diradando, come le tenebre prima dell’alba, facendo spazio ad una vasta radura, bianca e sinistra, fiocamente illuminata dalla pallida luce della luna, che faceva capolino, solitaria, da dietro le fosche nubi che gravavano sul cielo, da lassù, oltre le montagne.

 

 

Capitolo XVII

 

L’Uomo mosse qualche ultimo passo, sfinito e barcollante, poi, tutto d’un tratto, sentì che anche le sue ultime forze lo avevano abbandonato e cadde bocconi nella neve, profanandone la candida perfezione: dalle viscere stesse della montagna si era levata una nenia truce e melanconica, trasportata dalla selvaggia forza della tormenta. Parole sconosciute e terribili sferzavano la foresta, come l’oscura forza del fulmine ne squarciava le piante. Al loro lento riecheggiare non resistevano che le grigie rocce, screpolate e senza vita, nel profondissimo silenzio che era calato sulla vallata: anche gli alberi, con le loro scarne chiome, sembravano ritirarsi nell’ombra, farsi piccoli, addossati gli uni agli altri, come tanti condannati prima del supplizio.

 

 

Capitolo XVIII

 

L’improvviso fragore di un fulmine fece sussultare, come una cannonata solitaria, tutta la vallata, seguito da un orrido ululare di lupi.

 

 

Capitolo XIX

 

Gli occhi dell’Uomo si alzarono lentamente, come stregati, mentre, tutt’intorno, ogni cosa si ritirava in sé stessa, in cerca di un impossibile riparo, nelle eterne calotte dell’oscurità.

 

 

Capitolo XX

 

Neri sudari scivolavano sul nevaio, ancora odorosi di terra, cupi, lenti, come in un sogno. Terribile. Un incubo.

Tra le orride gole del Kuk, cominciarono, grigi, a sfavillare i fuochi fatui.

Il lupo, tra gli alti mugheti del Nagnoj, sospinse velocemente i suoi piccoli nella profonda tana, senza osar voltare lo sguardo oltre l’angusto riparo.

Ora erano decine, avanzavano fluttuanti, intrisi dalla gelida luce lunare; da sotto i manti, sepolti oltre un fosco strato di morte, mille occhi saettanti lo fissavano, si muovevano come le lucciole tra i rovi, a mezzanotte.

Innanzi agli altri, una Figura bianca, due occhi più ardenti.

Una cappa pallida ne celava le sembianze, si opponeva a quello che gli occhi non avrebbero potuto reggere.

La bora, fredda e umida, prese a fischiare tra i rami; e, tutto a un tratto, un lembo di  quel ruvido manto vaporoso si scostò, come d’incanto.

E ne fece capolino un volto sfigurato da profonde rughe, coperto da folti capelli neri, denti gialli, affilati.

L’Uomo si ricordò di quel volto, i suoi occhi non riuscirono a sfuggirlo.

Mosse qualche insicuro passo all’indietro, mentre l’aria si faceva più rarefatta, il respiro più affannoso.

Quel ritratto…gli si faceva più vicino…quegli occhi, grigi, vecchi, duri come mai avrebbe creduto…ed erano lì, a due passi da lui.

Quei denti sprigionavano scintille, opache e sinistre.

Si aprì, quella bocca, ed i denti si fecero più grossi, più affilati.

Quel nome, qual era quel nome?

(Vukodlak, i Vukodlak!)

 

 

Capitolo XXI

 

Ora anche le altre figure gli si stavano chiudendo intorno, in una danza macabra, oscurandogli per sempre gli occhi.

(Occhi rossi).

Le più lontane affrettavano il passo, senza distogliere lo sguardo.

All’Uomo sembrò che volassero sulla neve, rimasta assurdamente immacolata, al passare  delle loro vesti.

Fu l’ultima cosa che vide.

Poi perse i sensi.

Inebriato dal dolciognolo sapore della nenia funebre.

(Denti, fila di denti aguzzi, odore di sepolcro).

 

 

Capitolo XXII

 

Nel crollare a terra, esanime, la sua testa urtò una vecchia lapide, dura, di pietra bianca.

Una consumata incisione in cirillico, che il suo sguardo non poté decifrare.

 

“In pietosa memoria di

Ersilio Gubec.

 

Suicida.

 

Non seppe resistere

al remoto richiamo

dell’amata consorte,

spirata tre mesi prima,

come lui, in una fredda notte nevosa.

 

Addì 14 novembre 1617.”

 

 

Capitolo XXIII

 

La Vecchia emerse, curva, dalle ombre della macchia.

Con un ghigno stampato in volto.

E fu la prima a placare la sua sete infernale.

 

 

Capitolo XXIV

 

L’uomo non vide più il sole.

La sua notte non ebbe mai fine.

 

 

 

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