Capitolo 1

 

 

 

Qualche volta la dipartita di una persona cara può determinare nell'animo umano l'insorgere di sentimenti e sensazioni assai discrepanti dall’etica comune, ovvero può apparire a chi, per misteriosa coincidenza ne giovi benefici imprevisti, come sinonimo di liberazione e rinnovamento.

Io stesso, al termine del terzo lustro della mia breve vita testimoniai questa tesi, quando, con ingenua sincerità adolescenziale, mi apprestai a vivere in modo sorprendentemente ameno quello che doveva essere un tragico evento: la scomparsa del longevo avo materno. Un esuberante gaiezza pervase infatti le mie gesta e le mie parole, facendomi apparire agli occhi ancora bagnati di lacrime di qualche parente che consumava in silenzio la disgustosa sceneggiata suggerita dalla circostanza, come un folle snaturato lasciato libero di scorrazzare tra i "normali" in un giorno quantomeno particolare.

Ma come si può non gioire al palesarsi di un prodigio? E come non definire tale la spontanea regressione della grave forma tumorale che sin dalla nascita mi stava lentamente divorando il cervello?.

Il suo onere distruttivo cessò infatti la sua inoppugnabile marcia proprio nel momento in cui mio nonno esalò l’ultimo respiro, e mi liberò dalle atroci sofferenze che mi avevano ormai reso folle e che nel giro di pochi anni mi avrebbero aperto le porte di una nuova esistenza.

Il vetusto albero genealogico di casa Forest si alleggerì così delle secche ed ammuffite foglie che simboleggiavano il nome del vecchio nonno Oliver, e la mia triste esistenza, liberata dalla gravosa zavorra, risalì l’oscuro baratro in cui l'aveva precipitata, rendendo quei secolari attimi di oblio nel mondo della sofferenza e dell’oscurità un evanescente ricordo destinato a rimanere, se si eccettua una marcata miopia, l’unico effetto collaterale di quell'inaspettata guarigione.

Il ricordo fu quindi per me un dovere ineluttabile al quale mi abbandonai soffrendone inizialmente il notevole peso emotivo, ma che tuttavia seppi mitigare servendomene nell'angusto tentativo di fare luce sulla singolare situazione in cui ero stato segregato prima della fatale inumazione.

Dico singolare poiché non trovo altro aggettivo per definire l'inferno in cui soggiacqui durante la fase terminale dell'estremo male: un’oscurità abissale mi avvolgeva incessantemente, un acuto silenzio saturava ogni angolo della mia anima e rendeva terribilmente ovattato il suono dei miei pensieri. Tutto ciò era spaventosamente insopportabile, umanamente incontrollabile, era un profondo coma che annientava tutte le mie attività vitali.

Ed era proprio questo, a detta di madre, l'arcano scopo del reprensibile provvedimento impostomi dal nonno, che pretendeva in tal modo di rallentare il propagarsi della massa tumorale tra i tessuti del cervello.

L’oscurità pregna di incubi nefasti, di agghiaccianti visioni e mia unica compagna durante quegli interminabili tre anni di isolamento nella non vita, con il suo immenso potenziale distruttivo, prima ancora di fiaccare il tumore, devastò il mio sistema nervoso, lacerandolo prima per poi gelarlo e renderlo consistente come un’intricata rete metallica. In questo stato non apparivo biologicamente superiore al più basso dei vegetali, tanto meno riuscivo ad avere alcuna reazione difronte la più' assurda delle situazioni.

Quando nella criptica quiete della mia stanza sentivo l'alito del defunto genitore scaldarmi le gelide membra, i miei sensi rimanevano illesi, imperturbati, come consci di verità nascoste alla mente.

Tutto era lecito e giustificabile a quegli occhi perversi non più in grado di sottrarsi agli oppiacei orrori dell’oscurità.

Mai più la luce avrebbe irradiato la sbiadita pupilla ormai dilatata in maniera così spropositata da coprire la quasi totalità del bulbo oculare, per redimerla da così cupa malvagità.

Mio nonno l'avrebbe impedito. Avrebbe imposto ancora una volta il suo pugno d'acciaio innanzi al mio volere e a quello della mia povera madre che, irretita dal suo pedante timore nei confronti di quella lugubre figura, non avrebbe esitato un solo attimo ad assecondarlo in quel crudele progetto.

Il suo aspetto straziante le incuteva infatti una tetra reverenza, la sua pelle avvizzita che ricadeva pesantemente intorno alle orbite, alle giunture e che lo faceva sembrare più un cadavere in decomposizione che un innocuo vecchietto di ottantadue anni, le procurava un indicibile orrore che le impediva perfino di sostenerne lo sguardo.

E quale ripugnanza provava quando, al crepuscolo serale, lo vedeva comparire nell'austera sala da pranzo abbigliato in modo rigorosamente funebre. Le sembrava accompagnato da oscuri presagi, presagi di morte; egli stesso le appariva come la fatidica mietitrice di anime che al calar del sole porta il suo messaggio di speranza o disperazione.

Sarebbe stata forse lei la vittima prescelta da sorella morte in quella triste serata? Questo era l'incubo che l'assillava costantemente al manifestarsi di tale visione; un brivido freddo allora le increspava la pelle, un forte senso di vertigini la faceva vacillare costringendola ad assumere un comportamento decisamente impacciato che andava peggiorando quando, per non mostrarsi eccessivamente fragile al cospetto della dea rapace, cercava di dissimulare il suo evidente stato di panico esibendo un indifferenza oltre modo forzata.

Accadeva quindi che disgraziatamente, come per reazione chimica, le s’infuocassero le gote e che le ampie e intricate ragnatele di rossi capillari attecchissero la penosa maschera dietro la quale cercava invano di nascondersi.

La precedente ostentazione si tramutava così in una timida irresolutezza che le boicottava ogni tentativo di edificare un ultimo disperato riparo, e quando, tra mille singhiozzi e sospiri le riusciva di dire: "Posso ritirarmi nella mia stanza, credo di avere qualche linea di febbre.", l’ennesima dimostrazione di potere del vecchio nero brillava ormai nei suoi occhi sogghignanti che, dal di sotto delle folte sopracciglia corrugate, si beavano sadicamente di un intimo compiacimento.

Mentre quotidianamente questa scena si ripeteva con il medesimo risvolto, io ero lì, nella camera adiacente, con un ago conficcato nel braccio a consumare il mio spuntino serale.

Ero lì, inerte ed indifferente alle violenze che il nonno compiva su di me e su mia madre.

Ma di quale occulto potere era custode questo sporco figuro per poter praticare così impudentemente tali vessazioni sul proprio nucleo familiare?

Di questo mi occupai con grande impegno quando, guarito dal tumore, i vividi ricordi delle antiche sofferenze coadiuvati dagli strazianti racconti di mia madre, mi permisero di ricostruire molti dei soprusi subiti durante gli anni vissuti con il nonno.

 

 

Capitolo 2

 

 

La mia prima mossa in tal senso fu quella di varcare la soglia della stanza nera, al cui cospetto mai persona viva, eccetto il nonno, era stata ammessa.

Ad accoglermi trovai un'aria fuligginosa che rendeva quasi impossibile la visione delle immense librerie che pendevano dalle pareti soverchiate da una profusione di polverosi volumi dall'aspetto secolare.

A stento mi resi conto che gli scaffali delimitavano un perimetro pentagonale interrotto a nord e a sud rispettivamente da un camino nero di generose dimensioni, edificato probabilmente con delle grandi pietre refrattarie annerite da un uso frequente, e da un’altrettanto notevole porta d'ingresso di struttura trilitica, dove i piedritti erano costituiti da due massicce colonne di granito nero e l'architrave da una pesante lastra di granito grigio.

Nel centro del pentagono disegnato dalle librerie, a sovrastare un cinereo pavimento d'alabastro, vi era un tavolo rudimentale anch'esso di forma pentagonale, sul quale giaceva senza nessun ordine apparente una moltitudine di misteriosi oggetti completamente occultati dalla densa coltre fuligginosa che come un deserto post atomico ricopriva il marciume del legno.

Poche gobbe spigolose turbavano l’omogeneità' del manto che appariva così solcato da irregolari catene montuose dal ventre fecondo. La più alta ed imponente sembrava impegnata in un travaglio; dalla sua estremità tremante infatti, sporgeva un esile lembo che fluttuando al di sopra della grigia cenere, ostentava il suo vivace colorito giallognolo.

La mia attenzione, colpita con veemenza da quell'unica nota di colore, si rivolse verso la creaturina in difficoltà.

La guardavo con gli occhi spalancati compiere le sue disperate evoluzioni. La guardavo e soffrivo per lei; - soffrivo troppo -.

Allungai la mano, afferrai la creaturina giallognola tra il pollice e l'indice e tirai verso l’alto.

Come devastato da questo movimento lo spietato ventre rovinò silenziosamente attorno alla creaturina e alla sua inaspettata corpulenza: un corpo ben più massiccio di quanto avevo potuto presagire pendeva infatti dalla mia mano incredula.

Lo fissai lungamente ed invano oscillare nel vuoto nel tentativo di definirne la natura, ma la mia fantasia, vivamente eccitata dall’originalità della situazione si dimostrò un ostacolo quasi invalicabile.

Solo dopo interminabili minuti di trasognata contemplazione, la stanchezza muscolare derivata dall'arto teso perpendicolarmente al corpo mi richiamò momentaneamente al raziocinio. Scosso infatti dal fastidioso formicolio che mi stava rosicchiando la spalla destra, con grande lucidità mi impegnai a modificare quella condizione calando lentamente il braccio dolente e appoggiando l'infante sul palmo aperto della mano sinistra.

Nel compiere quest’operazione, per altro assai banale e scontata, mi feci fautore di una proverbiale stoltezza che risultò tuttavia avere uno sviluppo quanto meno provvidenziale.

La "cosa" misteriosa, infatti, sbilanciandosi goffamente sulla mia mano tremolante, cadde a terra accompagnata da un secco tonfo che sollevò dalla sua superficie una quantità di cenere sufficiente a renderla maggiormente riconoscibile. Appariva adesso stranamente regolare e geometrica; si avvicinava molto ad un parallelepipedo avente il lato maggiore di circa trenta centimetri, quello minore approssimativamente uguale ai tre quarti del primo e l'altezza molto vicina ad un quarto del secondo. Da uno dei lati più piccoli sporgeva inerte quella sottile striscetta giallognola che tanto aveva colpito la mia attenzione.

Vivamente incuriosito mi chinai per stuzzicarla con un dito in modo da provocarne eventuali reazioni, ma nessun movimento seguì alle mie sollecitazioni e ben presto fui persuaso del fatto di aver avuto a che fare con una massa di materia inorganica e non con un essere vivente in difficoltà come avevo precedentemente creduto.

Con entusiasmo mutato per volume ed animosità la raccolsi allora da terra e me l’accostai al volto: "Solo uno stupido libro!", mormorai con voce rotta. Quello che mi insudiciava i polpastrelli era infatti un consunto volume di grande formato, rilegato elegantemente in pelle dalla mano esperta di un abile artigiano, ma affatto differente dai moltissimi altri che ornavano le librerie; e quello che sporgeva da una delle sue estremità solo uno sfilacciato segnalibro.

Appreso ciò decisi di terminare la mia prima spedizione nella stanza nera e di ritornarmene tra le silenziose mura della mia camera da letto a contemplare quanto avevo scoperto.

Giunto ivi mi lasciai cadere pesantemente sul letto. Le molle del materasso, bruscamente compresse dall’azione poderosa del mio peso corporeo, stridettero ritmicamente per qualche secondo, poi il silenzio tornò a regnare. Trascorsi pochi minuti di corroborante riposo, sfuggii alla morbida carezza della gomma piuma per riconquistare la posizione verticale.

Mi avvicinai alla scrivania in rovere che troneggiava mastodontica sotto il davanzale della finestra, e vi posai sopra il libro.

Il suo aspetto era veramente sudicio e consunto e mi fu necessario, prima di intraprenderne un esame più accurato, dargli una sommaria ripulita.

Infilai una mano nella tasca anteriore dei sdruciti jeans che mi fasciavano le gambe e ne trassi fuori un fazzoletto cencioso al quale decisi di affidare questo oneroso compito.

Delicatamente lo passai sulla copertina una volta, due volte, tre volte, poi una scritta in rilievo si innalzò dall’antico cuoio bloccandomi la mano e catturandomi lo sguardo: "La verde vallata infernale", proclamava solennemente con tutta la magnificenza delle sue preziose dorature.

Il silenzio che aveva sino allora regnato venne a questo punto spodestato da un rumore sordo e frenetico che prese a rimbombare cupamente dentro la stanza. Alzai la testa sicuro di vedere pesanti gocce di pioggia infrangersi sospinte dal vento contro l’immobile vetro della finestra, quando mi resi invece conto che un tiepido sole primaverile colmava con i suoi raggi aurei il celo terso e affascinante come un limpido fondale marino. Anche il vecchio abete che da lunghi anni mi fissava immobile al di là della finestra era pervaso da quella calda sorgente e sembrava opporsi ostinatamente contro ciò che parte dei miei sensi continuavano a farmi credere. Eppure quel molesto tambureggiare continuava ad insinuarsi irrispettosamente dentro le mie orecchie aumentando ad ogni istante l’intensità delle sue pulsazioni.

Cominciai allora a setacciare con lo sguardo ogni angolo della camera alla ricerca dell’occulta fonte fino a quando scorato per non aver trovato nulla realizzai: non era nella mia camera che dovevo ricercare quell’odioso rumore, e nemmeno all’esterno. Lo dovevo ricercare tra i mille clangori del mio corpo.

La forte agitazione provata nel riesumare quella antica iscrizione mi aveva provocato infatti un tale aumento della frequenza cardiaca da farmela apparire fragorosa come un improvviso temporale estivo.

Venirne a conoscenza non mi giovò molto, almeno nell’immediato lasso di tempo, infatti l’opprimente senso di panico che mi aveva inesorabilmente serrato la frenetica pompa, persistette ancora diversi minuti, durante i quali non seppi far altro che tapparmi le orecchie con i palmi delle mani nell’attesa che quell’incubo in pieno giorno avesse fine.

Riacquistata in fine la calma, riuscii a concentrarmi nuovamente su quell’inquietante libro.

Decisi di dare un occhiata al suo contenuto così cominciai a sfogliare avidamente le prime polverose pagine che mi rivelarono subito un’altra importante scoperta: i caratteri impressi su quell’antica carta non rappresentavano un linguaggio comprensibile come avevo auspicato dalla misteriosa titolazione in italiano (probabilmenet postuma), bensì formavano un complesso codice crittografato che avrebbe richiesto un bel po' del mio tempo e del mio impegno per giungere ad una risoluzione.

Il testo cominciava con questo angusto periodo: "Unqe ha niqsa, il Refmiqa, hurbeule ubbacaqa uhha Taqca Tuhhusu ........ .".

E qui mi fermo visto le sconvolgenti conseguenze che l’ignara lettura di questi versi mi provocò allora.

Durante la faticosa opera di decifrazione si scatenò infatti una serie di avvenimenti che segnarono irrevocabilmente la mia sorte.

Era la seconda giornata di lavoro sul testo quando decisi di leggere integralmente e fedelmente il primo paragrafo nell’ennesimo tentativo di individuarne il misterioso senso recondito. Quelle strane parole cominciarono a fluire musicalmente dalle mie inconsapevoli labbra affascinandomi e spingendomi a continuare la lettura.

In breve tempo e senza rendermene conto mi ritrovai a leggere il terzo capitolo, poi il quarto fino a quando la mia stessa voce cominciò a suonarmi misteriosa ed incantatrice.

Raggiunta questa momentanea sensazione di piacevole smarrimento, mi ritrovai sull’orlo dell’abisso: Dense gocce di gelido sudore si animarono sulla mia pelle e violenti giramenti di testa mi gettarono in un vortice gassoso nel cui ventre cominciai a roteare follemente.

 

 

 

 

Capitolo 3

 

 

 

 

Non so per quanto tempo rimasi in balia di quel vortice, ad ogni modo quando finalmente la sua virile morsa cessò di blandirmi tanto appassionatamente, una estrema spossatezza s’impadronì delle mie membra e della mia mente.

A fatica riaprii gli occhi umidi e collosi che sgomenti si riparavano sotto le pesanti palpebre.

Un esile raggio di luce squarciò la nebbia che sembrava avvolgermi in quel timido risveglio e puntò i bulbi neonascenti esortandoli a ritornare nella più confortante oscurità.

Così feci fino a quando, ripreso un po' di coraggio, ritentai quella pericolosa operazione.

Questa volta la nebbia era meno fitta e la luce meno autoritaria, così mi fu possibile guardare oltre: Un paesaggio dall’irreale bellezza si stagliava sconfinato innanzi a me, circondandomi di verde e prosperosa natura.

Sinuose colline avevano sostituito misteriosamente le squallide librerie che contornavano la stanza nera, e gli spazi si erano enormemente dilatati pur mantenendo quella particolare forma pentagonale.

Nell’estesa pianura che costituiva il fondo della vallata si stendeva una rigogliosa vegetazione di basso fusto che abissava per numero l’esigua quantità di alberi in grado di superare l’altezza umana.

All’ombra di questi pochi alberi vi erano degli animali che evidentemente sfuggivano al focoso alito di quello strano sole che puntava minaccioso sulla vallata. Di quali animali si trattasse non mi fu possibile stabilirlo immediatamente, poiché tra me e la zona d’ombra più vicina intercorreva una notevole distanza e per quanto mi sforzassi di mettere a fuoco quelle lontane immagini in movimento non mi riusciva di identificarle che come tali.

Decisi allora di incamminarmi verso una di queste piccole oasi silvane.

Così facendo mi resi conto con ancora maggior stupore che si trattava di comunissime capre.

Una di loro ad un certo punto notò la mia presenza e cominciò a fissarmi insistentemente.

Inizialmente pensai che si trattasse del capobranco e reputai prudente fermare la mia avanzata per non correre il rischio di irritarlo, ma anche così facendo il maestoso caprone dal pelo grigio e dalle corna ricurve continuò a fissarmi.

Passò in questo modo un lungo minuto durante il quale sentii sbocciare in me una strana reverenza nei riguardi di quell’animale, che divenne panico quando abbandonata la sua posizione originaria cominciò a procedere verso di me con passo lento.

Questa volta ero io a fissarlo mentre lui avanzava con la testa bassa. Si avvicinava sempre di più e io rimanevo immobile, inspiegabilmente terrorizzato da quello che doveva essere un pacifico erbivoro.

Quando giunse ad una decina di metri dalla mia postazione, si fermò ed emettendo uno strano suono alzò nuovamente il capo.

Finalmente capii cosa mi terrorizzava tanto in quell’animale: il suo aspetto.

Il suo muso, infatti, non era quello di una comune capra ma quello di un essere umano deturpato da orrende sembianze caprine.

Le lunghe corna emergevano dal pelo ispido compiendo un’evoluzione che le riportava verso il basso fin quasi la bocca.

E gli occhi...., gli occhi non erano tondi e scuri ma avevano un taglio ovale e convergevano verso il centro della fronte pelosa brillando di una cupa luminescenza violacea.

E la bocca...., la bocca era sicuramente umana e cominciò a contorcersi nel tentativo di proferire parola.

"Figliolo non mi riconosci? Sono io, tuo padre!", Disse la creatura con una voce gorgogliante che mi fece rabbrividire quasi quanto l’evento in sé.

Non un suono, non un fiato uscì dalla mia bocca a risposta di quanto avevo udito, ma solo un inconsapevole gesto di disapprovazione.

Allora la creatura replicò: " Si Sono proprio io, anche se forse sono un po' cambiato dall’ultima volta in cui mi hai visto."

Un nuovo brivido corse tagliente su per la mia schiena quando sentii nuovamente la sua voce. "Forse è proprio lui", pensai in quell’istante, credendo di aver riconosciuto la sua proverbiale pedanteria, ma non mi potevo fidare di una simile aberrazione della natura e proseguii nel mio diffidente silenzio.

Ancora una volta fu lui ad interromperlo invitandomi ad avvicinarmi per osservarlo meglio ed io, non so per quale motivo, non riuscii ad oppormi alla sua richiesta.

Mi avvicinai infatti a mio padre, o a qualsiasi altra cosa fosse, senza muovere un muscolo... .

Il mio sguardo venne attirato da dei strani movimenti provenienti dal manto erboso che circondava i miei piedi: Stentai a crederlo ma quei minuscoli filamenti verdastri, con un movimento frenetico, mi stavano guidando verso quella meta.

In meno di un battito di ciglia mi ritrovai faccia a faccia, se così si può dire, con quell’orrendo essere.

Questa volta presi coraggio e azzardai una timida quanto banale domanda con l’intento di appurare ciò che aveva precedentemente cercato di farmi credere: "Come faccio a sapere che quanto mi dici corrisponde a verità?"

A questo punto, sorprendendomi non poco, rispose in maniera molto accondiscendente che mi era in tal senso sufficiente poggiare una delle mie mani sulla sua testa caprina dopo di ché tutto mi sarebbe risultato estremamente chiaro.

Il denso drappo funebre della follia che accompagna l’opera del coraggioso, gravò per qualche istante sul mio capo incitandomi a reagire a quella sorprendente affermazione in modo almeno parimenti sbalorditivo.

Senza esitare nemmeno un istante, catapultai la mia bulemica mano sull’osso frontale di quell’immondo cranio, dove la sentii affondare nell’ispida pelliccia.

Il manto peloso era più spesso di quanto avevo potuto presagire e finì con l’ingoiarsi la mia mano fino al polso.

Invece della calda epidermide sentii infine premere contro il palmo del mio impavido arto una fredda gelatina che prese a dialogare in modo molto convincente con lo stesso.

Come mi aveva in precedenza rassicurato la cosa, tutto cominciò a sembrarmi chiaro e perfino scontato, come se gran parte del suo essere si stesse trasferendo nel mio tramite quel rudimentale ponte.

Era con mio padre che stavo parlando, con mio padre allora morto da otto anni.

Appreso ciò il fiume dei pensieri traboccò copiosamente oltre i suoi generosi argini dando vita ad una colossale inondazione .

"Dove mi trovo? ". Farfugliai in fine con la bocca allagata da un esiguo rivolo acquitrinoso fuggito dalla piena.

Mio padre cercò inizialmente di rassicurarmi con parole vaghe ed evasive cercando di rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto rivelarmi la quantomai triste verità, ma quando si rese conto della mia effettiva esigenza di sapere, interruppe il suo banale monologo e con aria grave mi scagliò in volto ciò che aveva da dirmi.

"Ti trovi la dove cammin l’uomini morti, la dove riposan i deboli come i forti.

La dove si ha patir la vile esistenza di chi più dell’altro credette alla Sua potenza.....!"

-- Svenni! --

 

 

Capitolo 4

 

 

 

L’erba era molto umida, innaffiata da una copiosa rugiada che cercava invano di disperdere l’intenso calore catturato dal suolo.

Ogni secondo che passava migliaia di minuscole perle fluide lasciavano fuggire le loro anime nell’aria torrida, mentre altrettante s'affollavano in loro aiuto piovendo da un’ignota sorgente.

Quando finalmente riaprii gli occhi un’abbondante cascata di queste perle s’infranse sul mio viso.

Ero steso sul prato e una tiepida coltre ombrosa gravava sulla parte superiore del mio corpo. L’ombra del premuroso padre che aspettava pazientemente il risveglio del figlio indisposto.

Durante questa attesa, la massiccia figura alla quale corrispondeva l’ombra, aveva continuato a scuotersi con repentini movimenti facendo zampillare nell’aria quelle goccioline che avevano ormai reso madida tutta la zona prospiciente, compreso il sottoscritto che passivamente ne faceva parte.

Il suo manto, una volta intriso d’acqua, era ormai quasi completamente asciutto, grazie forse a quell’attività frenetica o al cocente rogo che ardeva indomabile dove sogliono essere le nuvole.

Al contrario io mi sentivo enormemente appesantito da quel fluido che, unitosi al febbrile sudore del mio corpo aveva assunto la consistenza della resina, ed era finito con l’invischiarsi sulla mia pallida epidermide rendendola rigida come corteccia.

I suoi occhi erano su di me, mi scrutavano alla ricerca di un segnale di ripresa e splendettero seppur per un solo istante nel momento in cui mi ridestai, poi la sua triste esistenza gli riconsegnò la consueta gravità.

Cercai allora di penetrare quel muro di insondabile desolazione e ricordai... .

Udii nuovamente quell’improbabile narrazione, quell’agghiacciante sequenza di verità dal risvolto sconvolgente.

Lagrime pendule si affacciarono ai miei occhi, lagrime colme di consapevolezza e di triste rassegnazione.

"Morto", borbottò mio padre interrompendo bruscamente il vortice dei miei pensieri.

"Hai abbandonato per sempre il tuo corpo nel tentativo di catturare una lepre selvaggia che corre terrorizzata tra le spighe di un campo di grano."

Il suo tono era decisamente anonimo e rilassato, ricordava molto la voce sterile di una segreteria telefonica che ci annuncia il suo messaggio con timida risoluzione. Non aveva inflessioni e non lasciava trasparire alcuna particolare emozione, evidenziando come quegli anni trascorsi in quel luogo fossero riusciti a cancellare del tutto ogni traccia dell’antica umanità.

"Anch’io ho cercato di fermare quella lepre e come vedi mi trovo qui, nella sua tana. Abbiamo fatto il suo gioco, il suo meschino gioco."

A terra sempre più rigido cominciai a tremare vistosamente.

"Ero ad un passo dalla preda quella sera. Lui era lì nella stanza nera, chino su quel lordo tavolaccio con un pollo sgozzato tra le mani. Lo faceva oscillare a destra e sinistra lentamente, lasciando spillare sangue dal collo reciso. Il sangue era ovunque sul tavolo, sulle sue mani, sulle sue braccia. Il taglio che come una bocca sorrideva sul collo dell’animale lasciava sgorgare il denso e caldo fluido in una così grande quantità che sembrava provenisse da un abisso. E quel dannato libro era li, sul tavolo ma al di fuori della portata del sangue a suggerirgli i versi giusti affinché quel rito diventasse opera malefica come era sua intenzione che fosse.

Era così preso, così rapito da quello che stava facendo che in quel momento peccai irreparabilmente di presunzione. Armato della convinzione di compiere il giusto e di un vecchio fermacarte da me preparato per l’occasione, mi gettai con l’arma in pugno verso l’adulatore di Satana. Vidi la mia lama lacerare le sue nere vesti e ne sentii un’altra che affondava placida nel mio ventre. Altro sangue prese a sgorgare in quella fatidica serata, il sangue del mio corpo morto. Avrei voluto cancellare con quella coraggiosa quanto stupida impresa tutti i soprusi e l’ignominia della quale era vittima la nostra famiglia, soprattutto in quel momento in cui una nuova anima si era aggiunta alla nostra sofferenza. La tua !. Si la tua piccola e innocente anima, così dolce da risultare irresistibile al famelico palato di tuo ..... nonno.

Una risata frastagliata da frenetici singulti interruppe quella voce che parlandomi da dentro mi rammentava ciò che avrei voluto dimenticare. Anche il mio corpo era scosso e disturbato dall’irruenza di quella risata, si perché era da lì che proveniva, ed era incontrollabile, una risata senza fine.

La sentivo echeggiare e perdersi negli immensi spazi che mi circondavano. Sembrava quasi svanire ma ecco che tornava indietro e s’infilava nuovamente nella mia gola fino a riempirmi i polmoni e a costringermi ad espellerla nuovamente fuori per non venirne irreparabilmente saturato.

Così facendo cominciò ad aumentare incredibilmente d’intensità fino a tuonare nel cielo con note gravi che non pensavo sarebbero mai potute sgorgare dal mio petto come da quello di qualsiasi essere vivente.

Già, ma io non mi potevo più definire tale e più che stupirmi di quell’apocalittico fragore, prendevo atto della mia nuova natura con una rassegnazione anch’essa di un altro mondo.

Un altro mondo, un’altra vita. Mi ero domandato tante volte quando la morte mi veniva a trovare così da vicino da spingermi a corrergli incontro cosa avrei trovato il giorno in cui sarei riuscito ad afferrala.

A volte pensavo che avrei trovato un mondo migliore che mi avrebbe finalmente strappato alle sofferenze che mi distribuiva in abbondanza la vita terrena, figurandomi una sorta di Eden dove avrei potuto finalmente parcheggiare la mia anima stremata, ma altre volte, ed erano molto più numerose, m’immaginavo un mondo che non c’era.

Vedevo la mia anima che si dissolveva nel nulla disperdendo una debole luminescenza nel nero che la trangugiava.

Sentivo il pulsare della vita che si affievoliva inesorabilmente, i pensieri che smettevano di vorticare nella mia testa e l’insorgere di una calma piatta che non potevo nemmeno percepire.

Quella sensazione allora mi agghiacciava, mi portava ad accogliere con entusiasmo qualsiasi sorte pur di non incorrere nel dissolvimento. Quant’era avventata quella mia considerazione; se solo avessi saputo quello che mi aspettava avrei partorito sogni in cui il nulla era il mio eroe, la mia meta ed unica ragione di vita.

Anche tu che oggi mi hai richiamato ricordandomi cosa vuol dire vivere e soffrire, ritorna sui tuoi passi ed evita di calpestare un suolo ancor più arido, almeno fino a quando quel sottile legame che trattiene l'anima legata al corpo terreno sarà in grado di farlo. E non agognare mai più quest'altra vita.

Ormai anch'io sono cambiato, ho abbandonato la posizione eretta ed il pelo ha completamente ricoperto il mio corpo ultraterreno, tuttavia non lo sono ancora al punto da desiderare l'oblio della razza umana, pertanto ho guidato la tua mano nella stesura di questo racconto affinchè la tua anima, mio giovane fratello, ma anche quella di tutti coloro che avranno la fortuna di venire a conoscenza di questa somma verità, possa permanere il più a lungo possibile nel confortevole mondo terreno.

Fuggi l’ignoto, fuggi il perfido guardiano della Verde Vallata Infernale.

Fuggi il Vecchio Nero.

 

 

Latina sabato 21 giugno 1997

Luca Ventura

Anime !

 

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