nuova serie

Periodico dei Comunisti Cameranesi. Numero unico in attesa di autorizzazione. Stampato nel mese di dicembre 1998

Per un progetto comunista

I comunisti cameranesi si schierano senza esitazioni a fianco della seconda mozione congressuale. E’ necessario sconfiggere il riformismo neokeynesiano del segretario Bertinotti, il marxismo rivoluzionario può e deve segnare una nuova avanzata.

Per un'opposizione di classe al centrosinistra, oggi e domani

Per una prospettiva socialista come unica alternativa di società

Per una riforma profonda del nostro partito

Per un bilancio di verità

Un corso politico smentito

Il nostro voto al programma di Maastricht

Il nostro contributo alla pace sociale

Per un nuovo corso Politico

Imperialismo italiano e 2^ repubblica

Il centro sinistra, formula privilegiata della grande borghesia

L'apparato D.S., come agenzia delle classi dominanti nel movimento operaio

L'esecutivo D'Alema come governo del grande capitale

Il PRC altemativo al centrosinistra in quanto polo autonomo di classe

Per un'opposizione di classe al centrosinistra, oggi e domani

Oltre la concezione delle "due sinistre", per aprire la sfida dell'egemonia

Per un'opposizione del PRC verso i governi locali, a partire dalle regioni e dalle grandi città

Per un'azione di rilancio del movimento di massa in una logica nuova di egemonia

Preparare le condizioni del movimento, non invocarlo

Per una vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati

Per un'unione nazionale dei disoccupati, per il salario sociale

Per una coerente rifondazione sindacale

Nel movimento degli studenti con una proposta chiara

Per il rilancio di una conseguente battaglia democratica: ritorno alla proporzionale, abolizione del concordato, antimilitarismo

Una coerente rifondazione comunista

La svolta d'epoca

Parassitismo finanziario e stagnazione

La crisi del "compromesso sociale keynesiano"

La base materiale del liberismo

Il liberismo temperato delle socialdemocrazie europee

Per il recupero e il rilancio del programma comunista

L'Ottobre e la rifondazione

L'internazionalismo come orizzonte programmatico

Rifondazione Comunista e la liberazione della donna

La rivoluzione italiana

Il blocco storico dell'alternativa

Un programma di transizione

Un piano anticapitalistico per l'uscita dalla crisi

La questione della proprietà

La questione dello stato

Per una riforma profonda del nostro partito

Costruire Il PRC come intellettuale collettivo

Per una svolta democratica nel partito, per un partito di liberi e di eguali

Per un forte investimento del PRC nei Giovani comunisti

 

PER UN PROGETTO COMUNISTA PER UN'OPPOSIZIONE DI CLASSE AL CENTROSINISTRA OGGI E DOMANI, PER UNA PROSPETTIVA SOCIALISTA COME UNICA ALTERNATIVA DI SOCIETÀ, PER UNA RIFORMA PROFONDA DEL NOSTRO PARTITO

Il IV Congresso del PRC riveste un'importanza particolare. Dopo due anni di sostegno al governo Prodi e alla luce dell'attuale ricollocazione all'opposizione, esso è chiamato a definire un bilancio dell'esperienza compiuta, una nuova linea politica, una coerente prospettiva strategica per la Rifondazione comunista.

Il nostro partito attraversa un momento difficile, ma al tempo stesso segnato da nuove grandi potenzialità.

La scelta della rottura col governo Prodi democraticamente sancita dal 70% del Comitato politico nazionale; la scelta di opposizione al governo D'Alema, esaltato dal capitale finanziario, rappresentano fatti importanti e positivi, che restituiscono il nostro partito al suo ruolo naturale di rappresentanza indipendente della classe lavoratrice e delle masse oppresse. Per questo il partito è oggi sotto attacco di un'aggressiva campagna dominante che nega il nostro diritto ad un'autonoma rappresentanza parlamentare. Per questo il partito ha subito una scissione burocratica e opportunistica di parte rilevante dei suoi gruppi dirigenti e della sua rappresentanza istituzionale, attratta irresistibilmente dal centrosinistra e dalle classi dominanti che lo sostengono. Il congresso chiama innanzitutto l'insieme del partito, al di là delle differenze politiche interne, a reagire unitariamente con tutte le proprie forze all'offensiva avversaria e a rilanciare la presenza e la lotta dei comunisti. Ma il rilancio del partito e della sua iniziativa deve accompagnarsi, tanto più ora, ad una riflessione vera e profonda sul bilancio di questi anni e sul nostro futuro.

Dobbiamo riconoscere, alla luce dell'esperienza, e per spirito di verità, che il sostegno accordato per due anni al governo Prodi ha rappresentato per il nostro partito un grave errore. La tesi di un centrosinistra permeabile alle ragioni sociali dei lavoratori e dei comunisti si è rivelata infondata. La strategia del compromesso sociale riformatore (come fu definita dal precedente congresso) con le classi dominanti e il loro personale politico ha conosciuto una smentita profonda. E' un fatto: mentre il PRC, in due anni, non ha realizzato un solo obiettivo del programma proposto per i primi 100 giorni della legislatura, il governo ha realizzato, col nostro voto determinante, il programma generale dei banchieri e delle grandi famiglie del capitalismo italiano. E infatti, dopo due anni, la borghesia italiana risulta incomparabilmente più forte, il movimento operaio e le classi subalterne profondamente più deboli, disgregate, demoralizzate. E alla lunga il nostro stesso partito ha finito col subire sulla propria pelle i contraccolpi del sostegno al governo esponendosi prima a un logoramento e poi alla scissione. Proprio da questo bilancio generale, e non solo dai tratti dell'ultima finanziaria, discende la giustezza della nostra ricollocazione all'opposizione, con i positivi effetti di rivitalizzazione che essa ha generato sul partito. Ma il ritorno all'opposizione, pur necessario, non è sufficiente. Dal bilancio di verità del corso politico passato occorre trarre un'indicazione nuova e di svolta per il futuro: un'indicazione nuova, politica e strategica, che assumendo fino in fondo le lezioni dell'esperienza, eviti il suo possibile ripetersi. L'esperienza che abbiamo vissuto ha indicato la vera natura del centrosinistra, quale formula scelta dal grande capitale per imporre "pacificamente" alle masse la propria politica di austerità e sacrifici entro la cornice del patto sociale. Il nuovo governo D'Alema-Cossiga, che pur modifica forme ed equilibri del centrosinistra, prosegue e rafforza l'ispirazione di classe del governo Prodi. L'opposizione nostra al centrosinistra e al nuovo governo non può essere allora un'opposizione cosiddetta "costruttiva", e comunque proiettata a riaprire il varco in prospettiva a un nuovo negoziato di governo, per un "equilibrio più avanzato". Né può combinarsi col nostro sostegno a quei governi locali di centrosinistra, in particolare nelle Regioni e nelle grandi città, che oggi gestiscono le finanziarie nazionali e sono sempre più interni alla concertazione. La nostra opposizione al governo di centrosinistra dev'essere reale, radicale, coerente, in quanto opposizione di classe alle classi dominanti che lo sostengono. Dev'essere dunque un'opposizione a D'Alema così come ai Rutelli, ai Castellani, ai Cacciari. Dev'essere un'opposizione tesa a rilanciare contro il governo e il blocco sociale dominante un movimento di massa dei lavoratori, delle lavoratrici, delle masse oppresse e sfruttate, in un duro e difficile lavoro di ricomposizione unitaria di un blocco sociale alternativo per un ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi. Dev'essere per questo un'opposizione radicale agli stessi apparati burocratici del sindacato quali vere e proprie agenzie della borghesia italiana tra le masse, fuori da ogni illusione di loro condizionamento. Lungi dall'alimentare tra le masse l'illusione di un possibile centrosinistra dall'equilibrio più avanzato, dobbiamo liberare le masse da ogni illusione verso il centrosinistra, ricostruendo le ragioni di una loro indipendenza di classe: per quel ribaltamento dei rapporti di forza a sinistra tra comunisti e DS che è condizione decisiva per una nuova prospettiva del movimento operaio italiano. L'esperienza vissuta ci indica parallelamente la necessità di un nuovo indirizzo strategico e programmatico del nostro partito, entro una riflessione ampia e profonda sulla svolta d'epoca del nostro tempo. Il fallimento obiettivo del compromesso sociale riformatore col governo Prodi e col centrosinistra non ha un significato occasionale ma di fondo. Ciò che abbiamo verificato, in una drammatica esperienza collettiva, è il carattere obiettivamente utopico e illusorio di un'ipotesi riformistica sullo sfondo della crisi strutturale del capitalismo mondiale, della nuova selvaggia competizione tra i blocchi imperialistici, delle implicazioni strutturali dell'integrazione imperialistica dell'Europa. Non a caso la stessa ispirazione keynesiana di Lafontaine e di Jospin, nel cuore dell'Europa si sta risolvendo nella gestione temperata delle politiche di rigore, flessibilità, privatizzazione, entro quei parametri di Maastricht che le socialdemocrazie europee continuano a sostenere nell'interesse delle proprie borghesie: spesso incontrando, come in Francia, le prime importanti reazioni di massa. Il nostro partito non può dunque indicare nelle socialdemocrazie europee né un modello di riferimento né la riprova della praticabilità del riformismo o di un "equilibrio più avanzato" del centrosinistra italiano. Non può riproporre l'illusione di "un'alternativa di società" come pura alternativa al liberismo, separata e distinta da un'alternativa anticapitalistica. Deve invece trarre una conclusione di segno opposto: la necessità di ricercare una risposta alternativa, strategica e programmatica, alla crisi del capitalismo e di un riformismo senza riforme. Una risposta che leghi, nell'azione quotidiana, i concreti obiettivi immediati di lotta alla prospettiva dell'alternativa di sistema. Una risposta anticapitalistica e comunista. La radicalità dell'alternativa anticapitalistica non nasce dunque da un imperativo ideologico astratto: ma dalla radicalità di una crisi sociale e di civiltà che la crisi capitalistica trascina con sé sull'intero pianeta. In un mondo in cui più di 3 miliardi di persone vivono con meno di tremila lire al giorno, mentre le tre persone più ricche concentrano nelle proprie mani la somma del Prodotto interno lordo dei 48 paesi più poveri, le illusioni riformiste rivelano la loro totale inconsistenza. Il comunismo moderno non è nato per porre rattoppi - oltretutto illusori - all'ordine esistente. E' nato per costruire un ordine nuovo della società umana. Questa finalità di fondo va rilanciata con forza recuperando l'ispirazione rivoluzionaria del marxismo e al tempo stesso attualizzandone e aggiornandone l'applicazione, sulla base di una riflessione autentica sull'esperienza del comunismo di questo secolo e di un'analisi concreta e puntuale delle nuove emergenze del nostro tempo. E' questo il senso, oggi, della stessa rifondazione comunista. Il IV Congresso deve avviare finalmente questa ricerca di fondo, evitando l'ennesimo rinvio in nome del "primato della politica": per i comunisti la politica non può essere separata dai fini generali che perseguono, e proprio l'eterno rinvio della definizione dei fini programmatici ha prodotto grandi guasti sulla nostra politica e sul nostro partito. Al contempo, questa svolta di linea e di ispirazione strategica deve accompagnarsi ad una riforma profonda della vita e del modo di essere del partito. Non deve più ripetersi la drammatica divaricazione fra Rifondazione e i suoi eletti che per due volte in pochi anni ha drasticamente ridotto la rappresentanza dei comunisti nelle istituzioni ed esposto il partito a una crisi politica mortale. Va superata ogni forma di burocratismo e di penalizzazione delle istanze inferiori ad opera di quelle superiori. Il rispetto della massima democrazia interna e anche la premessa per una più forte unità reale e non unanimistica, per la piena valorizzazione a tutti i livelli di tutte le risorse disponibili, per stimolare lo sforzo comune per costruire un partito più organizzato, radicato, preparato; un partito meglio in grado di svolgere la sua funzione fondamentale, quella di essere strumento collettivo della battaglia per la trasformazione rivoluzionaria dello stato di cose presenti.

PER UN BILANCIO DI VERITÀ’

Il bilancio del sostegno al governo Prodi è un atto doveroso del nostro partito. Non fare un bilancio dei nostri errori ci condannerebbe infatti a ripeterli. Il bilancio non interroga solo il passato ma il nostro futuro e la prospettiva stessa dell'alternativa. Per questo è necessario un bilancio di verità, scevro di ogni tentazione propagandistica, e invece capace di chiamare le cose con il loro nome.

Un corso politico smentito

Il III congresso del PRC varò un corso politico nuovo che motivava il nostro ingresso nella maggioranza del governo Prodi con tre ordini di argomenti tra loro intrecciati:

  1. la possibilità, a partire dalla nuova dislocazione, di condizionare in senso riformatore l'indirizzo generale del governo e del centrosinistra;
  2. la funzione positiva della nostra collocazione in maggioranza come sponda di una possibile ripresa del movimento di massa e del conflitto sociale;
  3. la necessità di quella collocazione ai fini del consolidamento della "vittoria democratica del 21 aprile '96".

Dopo due anni è onesto riconoscere che questa impostazione politica ha registrato un sostanziale fallimento, su tutti e tre i piani indicati.

(a) Il governo Prodi ha rappresentato non solo un governo incapace di ogni "svolta riformatrice" ma un governo profondamente controriformatore in ogni articolazione della sua politica e della sua impostazione programmatica. Il programma dell'Ulivo assunse esplicitamente come proprio cardine il completamento della transizione italiana all'Europa di Maastricht e alla II Repubblica, facendo proprio il disegno di fondo del grande capitale finanziario e delle classi dominanti del Paese. Il governo Prodi ha perseguito organicamente quel programma generale, caricandosi di una funzione storica agli occhi della borghesia italiana. E proprio la borghesia italiana ha rappresentato per due anni il diretto supporto materiale di quel governo e della sua azione. Il governo Prodi ha realizzato innanzitutto una gigantesca operazione di risanamento capitalistico del bilancio statale, la più imponente in Occidente. Ha realizzato il primato delle privatizzazioni in Europa, con particolare incidenza nei settori strategici della produzione e del sistema bancario. Ha promosso la riforma privatistica e liberistica di interi comparti della vita pubblica, come nel caso della sanità, della scuola, delle ferrovie, delle poste, delle telecomunicazioni, del commercio, e avviato la completa liberalizzazione del mercato degli affitti, con gravi conseguenze soprattutto per le masse lavoratrici. Ha realizzato un salto impressionante delle politiche di flessibilizzazione della forza lavoro (v. pacchetto Treu), oggi, per ammissione generale, la più flessibile d'Europa. Ha varato una legislazione reazionaria sull'immigrazione in omaggio ai dettami di Schengen, basata sul primato delle espulsioni, sui campi lager, sulla campagna contro i "clandestini". Ha inaugurato una nuova politica estera attenta ad espandere gli interessi e le posizioni strategiche dell'imperialismo italiano nello scacchiere dei Balcani in Medioriente, in America Latina. Questo programma generale ha prodotto, in due anni conseguenze sociali devastanti. Mentre i profitti padronali hanno conosciuto un'ascesa straordinaria conseguendo il record decennale nel '97, il potere d'acquisto dei salari e degli stipendi ha proseguito la propria caduta; la disoccupazione di massa, il precariato, la povertà hanno raggiunto nuove drammatiche vette; il Mezzogiorno d'Italia, in particolare, non solo ha conosciuto un nuovo impoverimento ma ha accresciuto la propria dipendenza strutturale dai grandi monopoli italiani ed europei sotto il peso di politiche neocolonialiste.

(b) Questa politica controriformatrice si è combinata con una straordinaria pace sociale. I livelli di combattività sociale, sullo sfondo del governo Prodi, hanno conosciuto il punto più basso dell'intero dopoguerra: il volume degli scioperi, in particolare, ha registrato il livello minimo dalla caduta del fascismo. Il quadro di concertazione garantito in primo luogo dal DS e dagli apparati sindacali, ha inibito le capacità di reazione della classe operaia. E la passività della classe lavoratrice a fronte dell'arretramento ulteriore della sua condizione materiale ha privato ogni altro settore di massa di un riferimento unificante ed egemone. Così, dopo due anni, nei luoghi di lavoro, nel territorio, nella società italiana, i rapporti di forza tra le classi hanno conosciuto un'ulteriore pesante involuzione a vantaggio del blocco dominante. Più ancora dell'imponenza delle misure realizzate a favore dei profitti, questo ha rappresentato il principale successo strategico del governo.

(c) La politica sociale del governo entro il quadro della pace sociale ha consentito il consolidamento complessivo delle destre e del loro blocco di riferimento, oggi potenzialmente maggioritario. Il centrodestra ha potuto beneficiare per due anni sia del proprio monopolio dell'opposizione (che spesso peraltro mascherava ripetute convergenze consociative con l'Ulivo), sia della legittimazione e rincorsa di umori reazionari da parte del governo (v. immigrazione, riforme istituzionali e difesa dell'esercito sul caso Somalia), sia gli effetti di passivizzazione e spoliticizzazione ulteriore a livello di massa indotti dal quadro generale. Tutto questo ha consentito alle destre una pericolosa sintonia con il senso comune diffuso di ampi settori di massa, ben al di là del loro bacino elettorale, unito allo sviluppo di una più ampia base militante e capacità di mobilitazione. Il IV Congresso riconosce dunque l'evidenza: il sostegno del PRC al governo Prodi ha mancato obiettivamente gli scopi dichiarati.

Il nostro voto al programma di Maastricht

Tuttavia l'aspetto davvero più grave non è dato dal mancato conseguimento degli obiettivi nostri; è dato dal nostro sostegno determinante, per due anni, agli obiettivi opposti del governo di centrosinistra. Il nostro voto alle leggi finanziarie del governo nel '96 e nel '97, al pacchetto Treu, alle privatizzazioni, alla rottamazione, alla riforma delle aliquote Irpef, alle leggi razzistiche sull'immigrazione ha rappresentato qualcosa di più di un errore: ha costituito un sostegno al cuore del programma strategico della borghesia italiana, contribuendo a un rafforzamento decisivo delle sue posizioni di forza. Il nostro partito si era presentato alle elezioni del '96 con un "Programma dei 100 giorni" segnato da un assunto centrale e testuale: ´Ci opporremo con ogni mezzo a leggi o provvedimenti legati ai parametri di Maastricht. Per due anni abbiamo capovolto esattamente questo impegno. Certo, il PRC ha negoziato e contrattato, talora anche duramente, col governo. Ma ha negoziato il programma del governo, forme, tempi, misure della sua realizzazione, non il proprio programma. Né realisticamente poteva entro le compatibilità politiche e sociali di una maggioranza segnata dagli interessi della borghesia italiana. In questo quadro aver spesso esaltato gli accordi stipulati col governo, come nel caso della Finanziaria del '96 ("Una finanziaria di svolta") o del pacchetto Treu ("sbloccata la politica per l'occupazione") o della finanziaria del '97 ("spostamento a sinistra dell'asse politico e programmatico del governo") ha rappresentato un fatto profondamente negativo: nello stesso rapporto di verità col partito e con le masse. Tanto più oggi è un grave errore continuare a rivendicare il "contributo positivo" del PRC al conseguimento dell'Euro come titolo morale per chiedere la "svolta riformatrice": nella costituzione materiale dell'attuale Europa imperialistica proprio il perseguimento della moneta unica ha dettato strutturalmente le politiche liberiste e i relativi sacrifici. E l'esperienza ci ha confermato una volta di più che proprio la logica dei due tempi (prima i sacrifici, poi le riforme) va respinta dai comunisti, non rivendicata.

Il nostro contributo alla pace sociale

Il nostro sostegno al centrosinistra e alle sue politiche ha coinvolto il PRC, obiettivamente, nel quadro della concertazione, ossia nel quadro di consolidamento della pace sociale. Certo: impugnando, all'interno della maggioranza, le "ragioni" simboliche dei lavoratori, abbiamo per un certo periodo suscitato attenzione e simpatia in reali settori di massa che, sfiduciati nella propria forza, erano portati ad affidarsi alla nostra presenza come fattore di "garanzia". Ma abbiamo con ciò favorito un affidamento passivo, non una dinamica di mobilitazione. Abbiamo anzi favorito illusioni sul governo e sul nostro stesso ruolo nella maggioranza, non una presa di coscienza sulla natura di classe dell'esecutivo: col risultato oltretutto di esporci all'effetto di ritorno della prevedibile delusione. Per tutto questo abbiamo contribuito obiettivamente, per due anni, al di là delle nostre intenzioni, alla pace sociale in Italia e, con essa, all'ulteriore pesante involuzione dei rapporti di forza tra le classi.

PER UN NUOVO CORSO POLITICO

Proprio dal bilancio chiaro e onesto del fallimento obiettivo del corso politico precedente dobbiamo trarre l'indicazione di una svolta reale di linea politica e di prospettiva. Perché ciò che è accaduto non possa ripetersi più. La rottura consumatasi col governo Prodi non può assumere un respiro contingente ma di fondo. Non può essere motivata solamente in base ai caratteri dell'ultima finanziaria, del tutto analoghi alle finanziarie precedenti, ma in base a un bilancio complessivo del centrosinistra e della maggioranza del 21 aprile. Non può essere motivata e vissuta come registrazione di un compromesso mancato, ma come nostra rottura con la politica del compromesso, per l'oggi e per il domani. Non può essere "un passo indietro" oggi per farne due avanti domani, lungo il medesimo cammino: dev'essere l'avvio di un altro cammino, di un altro corso politico.

Imperialismo italiano e 2^ Repubblica

Il capitalismo italiano ha conseguito da molto tempo una sua maturità imperialistica. Non solo non rappresenta più un "capitalismo straccione" ma partecipa al consesso dei paesi dominanti su scala mondiale e quindi alla spartizione di materie prime, zone di influenza, aree di dominio e di oppressione sui paesi dipendenti. In questo quadro le pressioni della crisi capitalistica internazionale, il crollo dell'URSS, lo sviluppo del polo imperialistico europeo hanno esercitato un effetto decisivo sulla crisi della I Repubblica e sulla svolta storica in atto in Italia, a partire dal '92. Da un lato, la crisi capitalistica internazionale e il forte rilancio, in condizioni nuove, delle contraddizioni interimperialistiche hanno indotto l'imperialismo italiano ad affrontare il fardello strutturale dei propri "ritardi" e "distorsioni". Dall'altro lato, il crollo dell'URSS ha dissolto, parallelamente, il vero fondamento storico della discriminazione borghese verso il vecchio gruppo dirigente del PCI in ordine al suo possibile accesso al governo: perciò stesso ha consentito al capitale finanziario un distacco dalle proprie vecchie rappresentanze della I Repubblica (il vecchio blocco assistenziale DC-PSI), precipitate negli scandali e abbandonate al loro destino, e l'avvio di una profonda ricomposizione della propria rappresentanza e degli stessi assetti istituzionali. E' questa la cornice della transizione italiana che ha dominato la vicenda degli anni Novanta, sullo sfondo delle sconfitte della classe operaia. Un processo complesso che non risponde a pianificazioni lineari, ma nel quale sono ben individuabili gli assi strategici portanti e le loro basi di classe. 1) Sul piano economico la grande borghesia ha esteso e consolidato, in misura rilevante, le proprie basi materiali. Il processo di privatizzazione di settori strategici dell'economia come il credito, l'energia e le telecomunicazioni, l'apertura privatistica del sistema pensionistico, la ristrutturazione e concentrazione del sistema del credito, concorrono ad allargare la base del capitale finanziario, con l'ulteriore rafforzamento del peso specifico dei grandi monopoli, a partire dalla FIAT, principali beneficiari delle privatizzazioni (v. caso Telecom). Alla vigilia della "moneta unica" europea l'imperialismo italiano si presenta dunque con un peso strutturale sensibilmente accresciuto, cui corrisponde, non a caso, un'accresciuta proiezione nella politica estera. Una attività diplomatica alle dirette dipendenze dei grandi monopoli, ma anche di una media industria diffusa e rapace, entrambi interessati non solo e non tanto all'allargamento delle esportazioni ma ad un nuovo massiccio investimento imperialistico favorito dai vasti processi di privatizzazione in corso negli stessi paesi dipendenti su commissione del FMI. 2) Parallelamente, la borghesia italiana ha il problema di governare l'impatto sociale delle politiche indotte dal suo ulteriore salto imperialistico e dall'"integrazione europea". L'impoverimento materiale e la frammentazione di vasti settori di classe; l'allargamento di una disoccupazione strutturale e del lavoro precario; le dinamiche di proletarizzazione di strati inferiori della piccola borghesia; il precipitare delle condizioni sociali di vaste masse del Mezzogiorno; configurano, agli occhi della borghesia, la massa critica potenziale di una pericolosa esplosione sociale. Peraltro la divaricazione che investe la piccola e media borghesia nel quadro dell'integrazione europea, con l'emergere soprattutto al Nord-Est di un suo strato superiore arricchito, autonomistico e corporativo, produce elementi di contraddizione nuova nello stesso blocco sociale dominante.

Il centro sinistra, formula privilegiata della grande borghesia

Alle proprie necessità di classe la borghesia risponde con un'azione strategica dislocata su piani diversi ma complementari: a) la riorganizzazione dello Stato, in funzione di un più stabile assetto istituzionale antioperaio e antipopolare; b) Il bipolarismo politico in funzione della stabilità di governo e della compressione delle rappresentanze autonome delle classi subalterne; c) il centrosinistra quale formula di governo. Entro la scelta bipolare, il centrosinistra si configura come riferimento privilegiato delle grandi famiglie capitalistiche e più in generale del capitale finanziario. Il personale politico di centrosinistra seppur diversamente organizzato era già riferimento essenziale della borghesia italiana nel '92 e nel '93 allorché i governi Amato e Ciampi iniziarono la "transizione" italiana. La sconfitta del polo dei progressisti e la vittoria delle destre nel 94 rappresentò un momento di contraddizione che indusse la borghesia per un breve periodo a verificare sul campo la carta Berlusconi. Ma anche in quel breve passaggio il rapporto del capitale finanziario con le destre fu di utilizzo strumentare, non di riferimento strategico (Se Berlusconi vince, vince per tutti; se perde, perde da solo, dichiarò Agnelli).

E proprio la sconfitta strategica del governo Berlusconi rivelatosi incapace di gestire sia una concertazione stabile, sia uno scontro risolutivo vincente ha riattivato l'investimento borghese nel centrosinistra: prima nell'Ulivo e nel governo Prodi, ora nel nuovo governo D'Alema. La scelta politica del centrosinistra da parte della grande borghesia non ha certo valore definitivo o ideologico, ma neppure carattere contingente, bensì una valenza strategica di fase. a) Il personale politico del centrosinistra è un personale sperimentato con solide radici nell'apparato dello Stato e nella tecnocrazia borghese, spesso selezionato dagli stessi ambienti del capitale finanziario, conosciuto dalla diplomazia borghese europea e internazionale. b) La composizione politica e le radici sociali del centrosinistra sono funzionali alla strategia della concertazione, ossia alla pacifica subordinazione del movimento operaio alle compatibilità della crisi capitalistica, dell'integrazione europea, della transizione alla II Repubblica, attraverso la collaborazione stabile e istituzionalizzata con le sue burocrazie dirigenti. c) La coalizione di centrodestra, dopo la caduta del governo Berlusconi ha visto acuirsi profondamente le proprie contraddizioni. Forza Italia ha conosciuto e conosce una crisi irrisolta determinata ad un tempo dall'appannamento sensibile della sua leadership, dal permanente condizionamento degli interessi aziendali della Fininvest, dall'impasse della sua politica di alleanze (dopo la rottura con la Lega). La lotta apertasi per l'egemonia nel Polo ha a sua volta moltiplicato i fattori di difficoltà della coalizione alimentando spinte centrifughe e trasformistiche senza peraltro configurare una alternativa di direzione a Forza Italia. E tali difficoltà, a loro volta, hanno favorito l'ulteriore consolidamento del rapporto privilegiato tra centrosinistra e blocco sociale dominante.

L'apparato DS, come agenzia delle classi dominanti nel movimento operaio

I Democratici di sinistra sono l'architrave del centrosinistra, il tassello strategico del suo disegno. Il loro apparato è oggi il mezzo di arruolamento nel centrosinistra di una parte importante delle masse lavoratrici in funzione di una loro integrazione subalterna nel blocco con la borghesia. La cultura di riferimento della larga maggioranza del gruppo dirigente dei DS ha conosciuto una deriva liberale, segnata dal distacco per molti aspetti dalla stessa tradizione riformista della socialdemocrazia. Si tratta peraltro del riflesso italiano dell'evoluzione liberaleggiante di parte importante della socialdemocrazia europea. Ma i DS non sono solamente un insieme di culture, programmi e politiche. L'apparato burocratico dei DS, nell'insieme della sua espressione politica e sindacale, è il principale strumento di controllo della classe operaia e delle sue potenzialità di conflitto. Il radicamento sociale dei DS presso le masse politicamente attive è esattamente funzionale a tale scopo. E tale controllo sulla classe lavoratrice resta il fattore di perdurante diversità tra i DS e un partito liberale tradizionale. Peraltro proprio per questo l'apparato DS è utile alla borghesia e indispensabile al centrosinistra: è individuato come unico possibile garante, tra le masse, di una politica concordata di sacrifici e restrizioni. Simmetricamente è questa la stessa dote contrattuale che i DS portano alle classi dominanti e al loro Stato per ottenerne il riconoscimento politico ed accrescere il peso del proprio apparato burocratico nel sistema borghese.

L'esecutivo D'Alema, governo del grande capitale

Il governo D'Alema rappresenta il punto d'incontro più avanzato negli anni Novanta delle strategie convergenti del capitale finanziario e della burocrazia dirigente dei DS. Esso non costituisce affatto l'espressione di una "Grosse Koalition", ossia di un'alleanza tra forze di centrosinistra e forze di centrodestra, diversa e alternativa al centrosinistra. Perciò stesso esso rappresenta l'espressione più nitida del centrosinistra e della sua strategia, come tale salutata dal grande capitale. Sarebbe un errore attribuire l'apertura di credito della borghesia al governo alla presenza in esso dell'UDR di Cossiga. La presenza dell'UDR nell'esecutivo ha certo un significato importante nella dinamica di ricomposizione degli assetti del centrosinistra. Rafforza il versante di "centro" della coalizione, condiziona ulteriormente a destra, su alcuni terreni specifici, la politica del centrosinistra, crea un quadro di governo più omogeneo sotto il profilo programmatico. Ma non è l'UDR di Cossiga il referente centrale della borghesia italiana, né la ragione essenziale del suo sostegno al governo. Il capitale finanziario sostiene attivamente questo governo per altre prioritarie ragioni di classe: a) Il governo D'Alema segna una rassicurante continuità di fondo, politica e programmatica col governo Prodi. Una continuità materializzata dalla legge finanziaria e più in generale dal proseguo delle politiche di risanamento, flessibilità, privatizzazioni, con nuovo travaso di imponenti ricchezze nelle mani del grande capitale. Le scelte del governo in ordine alla liberalizzazione-privatizzazione dell'ENEL, alla legislazione sugli straordinari, alla scuola, alla soppressione dell'equo canone (incredibilmente votata anche dal nostro partito!), segnano peraltro un significativo rafforzamento, nella continuità, della politica borghese del centrosinistra. Il quale, libero dalla necessità di negoziare il proprio programma col nostro partito, può procedere sulla medesima strada con maggiore linearità. b) La composizione ministeriale dell'esecutivo dà al programma del governo una particolare "credibilità". La conferma dei ministri economici del governo Prodi, il valore aggiunto di un nuovo ministro del lavoro (Bassolino) che ha fatto della propria giunta napoletana un laboratorio avanzato delle politiche di concertazione; il ritorno ministeriale di Giuliano Amato, già sperimentato sul campo come ariete di sfondamento contro le pensioni; rappresentano un elemento importante dell'apprezzamento borghese. Ma è soprattutto la figura e il ruolo di Massimo D'Alema ad incarnare, entro la formula del centrosinistra, le aspettative della borghesia: il leader della socialdemocrazia italiana, proprio in quanto riferimento maggioritario del movimento operaio, si presenta come il capo di governo più idoneo a garantire la continuità della pace sociale. c) Proprio la ridefinizione e il rilancio del patto sociale è il promettente biglietto d'esordio del nuovo governo. La concertazione viene estesa ai sindaci sia come terminali politici sia come rappresentanti di interessi locali in forte crescita (v. municipalizzate); viene estesa al cosiddetto "terzo settore" (no profit) e cioè a quel coacervo di ben robusti interessi che è cresciuto all'ombra della demolizione dello stato sociale e ambisce da tempo ad un maggior peso politico ed economico; viene estesa più direttamente che in passato al variegato mondo delle corporazioni piccole medio borghesi, prodighe infatti di elogi inediti verso il centrosinistra. La socialdemocrazia mira dunque ad assicurare all'imperialismo italiano una più solida base sociale di supporto entro il sistema di coinvolgimento di una più ampia platea di soggetti. E' il terreno su cui il governo ottiene il pieno coinvolgimento della CISL e la subordinazione piena, sempre più netta, della burocrazia CGIL. Tutto questo non significa naturalmente che il nuovo quadro politico sia privo di contraddizioni. Al contrario: la convivenza di due disegni divaricati sul terreno della rifondazione bipolare (tra DS e UDR), la penalizzazione dell'area ulivista, le nuove difficoltà del PPI nella stretta tra Prodi e UDR possono agire come fattore di instabilità: sia sul terreno accidentato della riforma elettorale ed istituzionale, sia in occasione della prossima elezione del Presidente della Repubblica. Ma, ciò nonostante, il governo D'Alema è uno dei governi più autorevoli degli ultimi venti anni agli occhi della borghesia italiana. Parte col sostegno di tutte le forze che "contano " all'interno del blocco dominante: le stesse forze che hanno sostenuto Prodi e che oggi pensano di poter procedere sulla stessa via, con la stessa formula di centrosinistra (sia pure rifondata) ma con un esecutivo più robusto, più inserito in un quadro politico omogeneo a livello continentale, entro rapporti di forza sociali e politici più favorevoli cui il governo Prodi e la maggioranza del 21 aprile hanno spianato la strada.

Il PRC alternativo al centrosinistra come polo autonomo di classe

S'impone dunque un nuovo asse politico e strategico del PRC. Il nostro rapporto col centrosinistra non può limitarsi alla difesa di una nostra "autonomia", spendibile indifferentemente "al governo o all'opposizione". Deve tradursi in una scelta chiara e coerente di alternativa al centrosinistra e ai suoi governi, sulla base di una diversa e opposta rappresentanza di classe: a fronte dell'alternanza bipolare della II Repubblica tra un centrodestra reazionario a base prevalente piccolo borghese e un centrosinistra liberale, confindustriale e concertativo, il PRC deve presentarsi e costruirsi come il polo autonomo della classe lavoratrice e di un altro blocco sociale. Il PRC non è quindi semplicemente distinto dal centrosinistra ma alternativo e contrapposto ad esso, perché alternativo e contrapposto al blocco dominante che lo sostiene e alla soluzione concertativa che lo ispira: per i comunisti infatti le scelte politico-istituzionali debbono riflettere coerentemente gli interessi del proprio blocco sociale. Ciò non preclude ovviamente la duttilità della tattica o le occasionali convergenze pratiche che possono prodursi in sede politica o parlamentare attorno a specifici obiettivi. Né tanto meno significa un disimpegno dei comunisti nella battaglia contro la destra. Ma la battaglia contro la destra non può essere separata dalla battaglia di classe e anticapitalistica decisiva anche per arginare la reazione e scomporre il suo blocco sociale. Per questo essa esclude un'alleanza politica del PRC con il liberalismo borghese. Il IV Congresso rivede radicalmente in questo quadro, la cosiddetta politica della "desistenza". Accordi specifici puramente tecnici, sul terreno elettorale (comunque escludenti le forze borghesi del centro), possono a certe condizioni rivelarsi utili sia per battere candidati reazionari, sia per ampliare la superficie di dialogo con la base popolare del centrosinistra ed in particolare dei DS. Ma ciò che da ora dovrà essere escluso è ogni tipo di patto politico-elettorale col centrosinistra, che direttamente o indirettamente vincoli il PRC a sostenere politicamente il centrosinistra e i suoi governi.

Per un'opposizione di classe al governo D'Alema, oggi e domani

L'alternatività di classe del PRC al centrosinistra trova oggi la sua traduzione naturale nell'opposizione al governo D'Alema. Questa opposizione deve essere chiara nella sua ispirazione e nelle sue finalità. Un'opposizione cosiddetta "costruttiva", comunque finalizzata a creare le condizioni di un nuovo negoziato di governo col centrosinistra in nome di "un suo equilibrio più avanzato" rappresenterebbe un equivoco di fondo. Se il centrosinistra è l'espressione organica degli interessi e della strategia del grande capitale, l'obiettivo dei comunisti non può essere quello (illusorio) di "spostarlo a sinistra", né quello di favorire lo sfilamento dell'UDR per sostituirla domani con la propria presenza in una maggioranza di centrosinistra rinegoziata. Rappresentare oggi il governo D'Alema come "grande coalizione" per salutare un domani il nostro ritorno in maggioranza come "svolta" e rilancio di un centrosinistra "riformatore", significherebbe peraltro un inganno obiettivo del partito e dei lavoratori. Questa impostazione va radicalmente rettificata. Lungi dall'alimentare tra le masse l'illusione di poter influenzare il centrosinistra, i comunisti debbono lavorare per liberare le masse dall'influenza del centrosinistra, assumendo come asse generale dell'intervento di massa la riconquista dell'indipendenza di classe del movimento operaio dal centrosinistra borghese. Naturalmente l'opposizione comunista può e deve saper incunearsi nelle contraddizioni del fronte avversario: ma la contraddizione centrale su cui lavorare non è quella di vertice tra DS e Cossiga, per creare il varco di un nostro reinserimento in maggioranza, bensì quella tra la politica borghese del governo e la base di massa dei DS al fine di costruire tra le masse la nostra egemonia alternativa.

Oltre la concezione delle "due sinistre", per aprire la sfida dell'egemonia

In questo quadro l'opposizione al governo D'Alema è chiamata a superare la concezione politica delle "due sinistre". L'apparato DS e il PRC, infatti, non possono essere visti solamente come soggetti distinti: sono la rappresentanza politica di progetti strategici tra loro alternativi, al servizio di opposte classi sociali. Tanto è vero che uno degli obiettivi dei vertici DS è quello di annullare la presenza di una forza comunista autonoma alla propria sinistra o attraverso una corresponsabilizzazione alla propria politica di governo o attraverso una soluzione elettorale-istituzionale. L'obiettivo storico nostro dev'essere, all'opposto, quello di dissolvere l'influenza maggioritaria dei DS sulle masse lavoratrici e, per questa via, realizzare la conquista progressiva delle masse politicamente attive a un diverso progetto politico. La costituzione del governo D'Alema con la massima esposizione dell'apparato DS nella gestione della politica confindustriale, libera il più grande spazio di rappresentanza sociale e politica alla sinistra dei DS Le condizioni potenziali di una battaglia per l'egemonia a sinistra sono dunque, per alcuni aspetti, più avanzate di ieri. All'interno delle lotte, sulla base delle rivendicazioni di classe e con le dovute articolazioni tattiche, la politica del partito dev'essere indirizzata a dimostrare alle masse, la vera natura dell'apparato DS, la sua irriformabilità, il carattere illusorio di ogni ipotesi di suo "recupero". Le sfide unitarie ai vertici dei DS - che, a certe condizioni, possono rivelarsi tatticamente opportune - vanno comunque subordinate a questo obiettivo strategico. Nella consapevolezza che la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio è condizione decisiva sia per procedere alla ricomposizione di un blocco sociale alternativo, sia per affermare in prospettiva una alternativa anticapitalistica. A sua volta questa politica di egemonia richiede la nettezza e la coerenza dell'opposizione comunista, sia sul versante istituzionale sia nell'intervento sociale.

Per un'opposizione del PRC verso i governi locali, a partire dalle regioni e dalle grandi città

La prima implicazione di questa nuova impostazione è un nuovo orientamento del nostro partito verso i governi locali di centrosinistra. La politica borghese di centrosinistra non si sviluppa solo a livello nazionale ma si estrinseca anche a livello locale dove anzi a volte trova dei laboratori avanzati di sperimentazione. Ed oggi la nuova estensione formale della concertazione nazionale alle rappresentanze di governo dei principali enti locali rafforza ulteriormente il legame politico e di classe tra il quadro nazionale e quello locale. L'opposizione comunista al centrosinistra nazionale non può dunque combinarsi con un sostegno del PRC alle sue espressioni locali. In particolare va rivista la nostra partecipazione o sostegno ai governi di centrosinistra nelle Regioni e nelle grandi città. Il PRC non può infatti opporsi alle finanziarie nazionali e negoziare le implicazioni locali di quelle finanziarie (tagli, privatizzazioni, svendita del territorio); non può opporsi alla concertazione nazionale e continuare a sostenere quei grandi sindaci come Rutelli, Castellani, Pericu, Cacciari, Bassolino che sono a tutti gli effetti, tanto più oggi, partecipi e protagonisti di quella concertazione. Peraltro ripetute e recenti esperienze, in particolare nelle grandi città (Roma, Napoli, Genova), hanno dimostrato che il sostegno alle giunte di centrosinistra espone il nostro partito al logoramento dei suoi legami di massa e, talora, al conflitto aperto con articolazioni importanti del blocco sociale alternativo. Occorre dunque una svolta che registri una coerenza tra collocazione di classe e scelte politico-istituzionali del PRC. Il rilancio dell'opposizione di classe al governo D'Alema, il lavoro di ricomposizione del blocco sociale alternativo e del movimento di massa contro governo e padronato richiedono una ricollocazione dei comunisti all'opposizione anche sul piano locale a partire dalle regioni e dalle grandi città. Diversa è ovviamente la situazione in cui i comunisti fossero parte essenziale di giunte locali che si pongono realmente sul terreno dell'alternativa: ove diventa fondamentale un'azione di opposizione al governo nazionale fortemente legata agli interessi di classe, fuori da ogni falsa neutralità istituzionale. Le scelte elettorali del partito sul piano locale sono dunque subordinate a questo nuovo orientamento. Non escludono comportamenti tattici che possono favorire una più amplia influenza politica dei comunisti presso la base di massa dei DS in condizioni di piena indipendenza politica. Escludono compromessi subalterni che rimuovano l'indipendenza politica dei comunisti come forza alternativa al centrosinistra e ai suoi governi.

Per un'azione di rilancio del movimento di massa in una logica nuova di egemonia

L'implicazione decisiva del nuovo corso politico riguarda il lavoro di ricostruzione dell'opposizione sociale e di massa al governo. Il PRC non può fare dell'opposizione la semplice difesa delle "ragioni" dei lavoratori se non al prezzo dell'occupazione di un puro spazio d'immagine (peraltro oggi assai più problematico) a fini elettorali e istituzionali. L'opposizione di classe al centrosinistra richiede un salto importante di elaborazione e iniziativa: l'assunzione di una nuova proposta di fase per il rilancio del movimento di massa contro il governo in una logica nuova di radicamento sociale, lotta per l'egemonia, ricomposizione del blocco alternativo. Essenziale è la concezione e la pratica della lotta per l'egemonia. Essa non significa imposizione o autoimposizione del partito sulle masse e sui movimenti, di cui va rispettata, com'è ovvio, la piena autonomia organizzativa. Significa invece che il nostro partito lavora e interviene tra le masse e nei movimenti non limitandosi ad un'azione di evocazione, solidarietà e sostegno, ma con proprie proposte, chiare e concrete, su obiettivi, forme di lotta, forme organizzative, sbocchi politici e vertenziali, nel quadro ovviamente del proprio progetto generale di ricomposizione anticapitalista. Configurandoci per questa via come punto di riferimento e direzione alternativa delle lotte: che è condizione determinante per sottrarle al controllo dei vertici DS e degli apparati sindacali, grandi organizzatori delle sconfitte. La lotta per l'egemonia non è dunque una nostra necessità di affermazione di partito distinta dall'interesse generale del movimento operaio e delle masse. All'opposto, essa risponde a una necessità vitale delle grandi masse tanto più dopo le sconfitte subite e i relativi arretramenti: la necessità di un'altra direzione politica e sindacale. Senza una nuova direzione, infatti, anche i più grandi movimenti di massa finiscono con l'essere contenuti, deviati, dissolti e magari "usati" per ragioni estranee alle loro motivazioni di classe: è l'esperienza amara dell'autunno del '94. Senza una nuova direzione, un nuovo punto di riferimento, una nuova proposta, oggi si cronicizzano e si aggravano tutte le difficoltà esistenti sullo stesso terreno di una possibile ripresa del movimento di massa.

Preparare le condizioni del movimento, non invocarlo

Sviluppare e ricomporre un movimento di massa contro le politiche dominanti è compito complesso: tanto più dopo l'ulteriore degrado della situazione sociale degli ultimi due anni. Ma proprio la difficoltà della situazione sociale e in essa la nostra difficoltà, richiedono una svolta chiara, di impostazione analitica e politica. Innanzitutto vanno respinte esplicitamente, senza equivoci, le teorie ciclicamente riemergenti in fasi di riflusso, circa il tramonto della centralità di classe. Le potenzialità di lotta della classe lavoratrice e delle masse, nonostante le sconfitte e gli arretramenti subiti, sono immense. La crisi capitalistica certo rimodella i blocchi sociali ma ripropone al contempo, su basi ancora più ampie, tutte le condizioni materiali della lotta di classe e del conflitto, nel mondo e nella stessa Europa. I grandi processi di proletarizzazione che investono gli stessi paesi imperialisti accumulano nuove fascine sul terreno sociale. Non a caso la vicenda europea degli anni Novanta, entro una dinamica di brusche svolte, ha visto ricorrenti esplosioni sociali come nel '94 in Italia, nel dicembre '95 in Francia, nei mesi scorsi in Danimarca e in Grecia, spesso con basi di massa ancor più estese che in cicli precedenti della lotta di classe. Le condizioni materiali di un'esplosione sociale in Italia sono dunque ben presenti nella situazione del paese. E ne sono infatti coscienti le classi dominanti che proprio per questo puntano ad un equilibrio politico (centrosinistra) e ad una strategia avvolgente (patto sociale) funzionali a prevenire e disinnescare quelle potenzialità. Il primo compito dell'opposizione comunista è allora quello di lavorare a ricostruire nel movimento operaio e tra le masse la consapevolezza e fiducia nelle proprie possibilità di resistenza e controffensiva verso le politiche dominanti, contrastando le vaste tendenze, oggi dominanti, alla demoralizzazione e al ripiegamento passivo. Al tempo stesso l'esperienza ci mostra che un movimento di massa non decolla per decisione di partito, ma si innesca nella concretezza imprevedibile dello scontro sociale e politico di classe. La funzione del PRC non è allora quella di invocare il movimento o di illudersi di surrogarlo con proprie iniziative di partito. Ma è quella di lavorare pazientemente e capillarmente tra le masse per favorire le condizioni di innesco di un'ampia radicalizzazione sociale nel segno della ricomposizione di un blocco anticapitalistico. E' essenziale a questo fine sviluppare l'inserimento attivo del nostro partito in ogni ambito di massa, in ogni realtà di movimento, in ogni piega di conflitto per quanto limitato e parziale possa essere, assumendoci la responsabilità di nostre indicazioni e proposte in rapporto diretto con le esigenze concrete di ogni settore del proletariato e delle masse oppresse. Ma parallelamente abbiamo la necessità di lavorare in una logica unificante tesa a ricomporre l'unità di lotta dei diversi soggetti del blocco sociale alternativo contro i processi di arretramento e disgregazione. Per una vertenza generale del mondo del lavoro e dei disoccupati Sotto questo profilo è necessario che il nostro Partito avanzi una sua proposta rivendicativa di fase per la ricomposizione del blocco sociale. Questa proposta non può essere la somma astratta degli obiettivi programmatici del partito, né può ridursi alla pur giusta rivendicazione delle 35 ore. Deve invece rispondere alla complessa articolazione del blocco alternativo e all'esigenza di una sua riunificazione oggi: la riunificazione del lavoratore che pratica lo straordinario, del lavoratore precario e flessibile, del disoccupato e del giovane senza lavoro. Questa esigenza di unificazione non passa per l'affidamento a una pura logica sindacale e categoriale. E non è realizzabile nel rispetto delle compatibilità del capitalismo in crisi e del "patto di stabilità". Passa invece per lo sviluppo di una vertenza generale del mondo del lavoro, dei giovani e dei disoccupati attorno a una piattaforma comune basata interamente sulle esigenze delle classi subalterne. Nell'attuale situazione, solo una vertenza generale su una piattaforma comune, può unire le forze esistenti, sottrarle alla dinamica di frantumazione e sconfitta in ordine sparso, innescare una ripresa reale di mobilitazione e ricomposizione del fronte alternativo. Il PRC può e deve dunque avanzare apertamente questa proposta accompagnandola con gli obiettivi seguenti: - la riduzione immediata e generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario a 35 ore settimanali, senza flessibilità ed annualizzazione, senza finanziamento ai padroni e a spese dei profitti, con una drastica limitazione del lavoro straordinario; - la trasformazione di tutti i contratti atipici e particolari in contratti a tempo pieno e indeterminato; - un reale recupero salariale attraverso un significativo aumento uguale per tutti; - un dignitoso salario sociale garantito ai disoccupati; - il riconoscimento e l'estensione dei diritti sindacali a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione dell'impresa. Questa piattaforma naturalmente, può e deve essere articolata in forme diverse nei diversi luoghi sociali di intervento. Ma può costituire il punto di riferimento unificante per il lavoro di massa del partito nei movimenti di lotta, nelle organizzazioni di massa, sul territorio superando in avanti le frequenti tendenze settorialiste o localiste. Indipendentemente dai risultati immediati questo lavoro di massa per la vertenza generale, può rappresentare un lavoro preparatorio prezioso per lo sviluppo e l'orientamento del movimento futuro.

Per un'unione nazionale dei disoccupati, per il salario sociale

E' importante un intervento finalizzato del partito nell'attuale movimento dei disoccupati, oggi frammentato e diviso. Va superata anche qui una logica di puro sostegno e solidarietà, o di mediazione tra movimento e istituzioni. Il PRC deve avanzare proposte precise di costruzione e indirizzo di un movimento unitario dei disoccupati come soggetto vertenziale e di lotta contro il governo. Intanto è essenziale una proposta di unificazione organizzativa dei disoccupati con la prospettiva di un'unione nazionale democraticamente costituita e rappresentativa. Un'assemblea nazionale a Napoli delle strutture e dei comitati dei disoccupati, opportunamente preparata e costruita, può essere un primo passo in questa direzione. In secondo luogo è essenziale la proposta rivendicativa. Una particolare rilevanza assume in questo ambito la rivendicazione del salario sociale per i disoccupati in cerca di lavoro, come terreno unificante di mobilitazione e di lotta a partire dal Mezzogiorno. Il PRC è chiamato a superare le sue attuali preclusioni verso questa indicazione fondamentale. E' sbagliato contrapporre la rivendicazione del lavoro e della riduzione d'orario all'obiettivo del salario sociale, riducendo quest'ultimo alla rivendicazione di alcune agevolazioni particolari. Né si può rivendicare il cosidetto "lavoro minimo garantito" senza subordinarsi di fatto alle tendenze attuali di precarizzazione. Questa impostazione va rettificata a fondo. Nel mentre lottano per distribuire fra tutti lavoro esistente, nel mentre rivendicano il diritto al lavoro in funzione di bisogni sociali e quindi lotte e vertenze per assunzioni finalizzate, i comunisti possono e debbono rivendicare l'immediato diritto alla vita per coloro che cercano un lavoro. E' questa una rivendicazione alternativa non al lavoro, ma al lavoro precario, alle gabbie salariali, alla flessibilità come leva di ricatto verso i lavoratori occupati e come negazione dei diritti per i giovani disoccupati. E' una rivendicazione storica dei comunisti nelle epoche di crisi, funzionale ad organizzare e mobilitare i disoccupati, a sottrarli alle pressioni padronali, alla degradazione sociale e alla criminalità, a rafforzare la loro unità con i lavoratori e quindi la stessa lotta per il lavoro. E' infine una rivendicazione di indipendenza del movimento operaio dalle compatibilità del capitale perché entra nella duplice contraddizione di una crisi senza sviluppo e di uno sviluppo senza occupazione. Nell'attuale situazione italiana ed in particolare nel Sud questa richiesta può produrre importanti contraddizioni nello stesso blocco sociale reazionario a tutto vantaggio del movimento operaio e della lotta per l'egemonia sulle grandi masse del Mezzogiorno.

Per una coerente rifondazione sindacale

La ricollocazione del partito all'opposizione deve combinarsi con una svolta profonda della nostra politica sindacale. Essenziale è innanzitutto un giudizio di fondo, chiaro e inequivoco, sulla natura delle burocrazie sindacali, quali vere e proprie agenzie della classe dominante all'interno del movimento operaio. La politica di concertazione dei gruppi dirigenti confederali e segnatamente della CGIL non rappresenta semplicemente una "politica sbagliata" o un "errore burocratico", per quanto gravi. Riflette la natura profonda degli apparati burocratici del sindacato: un "ceto politico", e una corrispondente struttura tramite i quali il grande capitale esercita e perpetua il suo dominio di classe. Il primo dovere del nostro partito è quindi quello di superare l'ottica sino ad ora perseguita di "spostare a sinistra l'asse della CGIL". All'opposto il PRC è chiamato ad assumere come nuovo asse della propria politica sindacale una lotta aperta per cacciare la burocrazia dal movimento sindacale, a partire da un giudizio di "irriformabilità" delle strutture. Ciò non esclude il lavoro dei comunisti nelle organizzazioni tradizionali e segnatamente nella CGIL. Ma certo implica il completo abbandono di ogni logica di pressione, fosse pure radicale, sulle burocrazie dirigenti, e lo sviluppo di un'aperta opposizione di classe capace di sfidare le "regole" dell'apparato sindacale e di configurarsi come riferimento autonomo per l'insieme dei lavoratori/lavoratrici. Sotto questo profilo, si impone un bilancio onesto dell'obiettivo fallimento, in seno alla CGIL, sia dell'esperienza dell'Area programmatica dei comunisti, sia di Alternativa sindacale. La prima ha costituito un tentativo verticistico di approntare una pura cinghia di trasmissione del PRC in CGIL, subordinata in particolare alle mutevoli scelte del gruppo dirigente del partito e alle sue esigenze tattiche nella negoziazione di governo: il sostegno attivo dell'Area Programmatica alle finanziarie del governo Prodi ne è stato un riflesso. Ma anche il gruppo dirigente di Alternativa sindacale non ha avanzato realmente un'alternativa di classe alla politica della burocrazia: si è invece chiusa in una logica di pressione, come "minoranza congressuale" sulla base di un approccio sostanzialmente riformista allo scontro sociale in atto: un approccio che trova oggi un riflesso nell'adesione al programma del cosiddetto "Forum antiliberista", basato su un'impostazione neokeynesiana, oggi accettata purtroppo da un'area vasta del sindacalismo di classe. Le gravi scelte sul terreno politico e di partito del gruppo dirigente di Alternativa sindacale non possono quindi essere viste come fatti contingenti ma sono, in definitiva, il frutto della sua linea politico-sindacale complessiva e dell'adattamento alla pressione dell'ambiente burocratico, che contiene il rischio di un'ulteriore involuzione. Da questo bilancio emerge la necessità e l'urgenza di una nostra svolta nell'azione sindacale. In CGIL è necessario lavorare allo sviluppo di un'area coerentemente e radicalmente classista, basata sui militanti comunisti ma aperta all'aggregazione di altri settori indipendenti, che si candidi all'egemonia sull'insieme della sinistra della confederazione, e si basi su un programma d'azione antiburocratico e anticapitalistico in aperta opposizione ai gruppi dirigenti: questa ricomposizione classista non può continuare ad essere paralizzata da una logica di "attesa" della sinistra FIOM (Cremaschi), ossia dell'ala sinistra della burocrazia sindacale, se non al prezzo di gravissimi guasti. Parallelamente il PRC deve lavorare ad un collegamento costante, nell'azione, tra questa sinistra rifondata della CGIL e i compagni/e comunisti/e che sviluppano la propria azione nel sindacalismo extraconfederale: un sindacalismo che configura, com'è ovvio, un quadro d'intervento più avanzato sul terreno degli obiettivi politico-sindacali e che, tuttavia, su basi diverse, è anch'esso segnato da limiti reali, ben oltre il suo limite di influenza: quali, ad esempio, la tendenza cronica alla frammentazione. Il PRC non può illudersi di superare "per decreto" l'attuale dislocazione dei militanti comunisti in diverse organizzazioni sindacali: è questa una realtà sancita e "legittimata" sia dall'obiettiva complessità della questione sindacale, sia dalla concreta vicenda del sindacalismo italiano, e che solo lo sviluppo della lotta di classe e l'esperienza della lotta antiburocratica potrà consentire di superare in avanti. Il PRC può e deve invece, da subito, indicare l'asse generale di proposta e le basi programmatiche che debbono unire i militanti sindacali comunisti, siano essi collocati nel sindacato confederale o nella sinistra extraconfederale. L'asse generale che il IV Congresso avanza è la proposta della "costituente di un sindacato classista, unitario, confederale, democratico e di massa". Con questa indicazione i comunisti si rivolgono all'insieme dei lavoratori e delle lavoratrici perché si uniscano, sulle basi più larghe, in una confederazione sindacale unitaria, fondata sulla democrazia dei lavoratori e sulla difesa dei loro autonomi interessi, in rottura con le attuali burocrazie dirigenti. Significa avanzare la prospettiva di una unità dal basso, a partire da assemblee unitarie di iscritti (e non) nei luoghi di lavoro. Significa contrapporre la prospettiva dell'unità dal basso a ipotesi di ricomposizione burocratica dall'alto del movimento sindacale su basi ancor più subalterne. Le forme di articolazione di questa proposta generale potranno variare in rapporto allo sviluppo concreto della situazione. Ma essa assume come riferimento centrale la lotta dei comunisti per l'egemonia sulle masse politicamente e sindacalmente attive: fuori sia da una logica di autoghettizzazione su basi puramente sindacalistiche, sia da una logica di subalternità agli attuali apparati sindacali. In questa prospettiva di lavoro comune è necessario un coordinamento dei militanti sindacali comunisti al di là delle diverse appartenenze di sigla. Un coordinamento che deve porsi da ora come ambito unificante del nostro dibattito sindacale, ai vari livelli territoriali e nei diversi settori. Parallelamente, sulla base della proposta della "costituente", dobbiamo lavorare al raggruppamento unitario di un settore più largo, che vada al di là dei soli militanti comunisti, costruendo, nei luoghi di lavoro, ove possibile, "comitati per la rifondazione sindacale", che coinvolgano attivisti sindacali di diversa appartenenza, e cerchino di configurarsi come punto di riferimento per l'azione antipadronale e antiburocratica. E' altresì importante che il PRC lavori al rilancio del movimento dei delegati RSU, tanto più a fronte dell'ampliamento di questa struttura. Su questo terreno va superato il passato atteggiamento di distacco del nostro partito e le incomprensioni prodottesi. Non si tratta naturalmente di negare gli attuali limiti politico-organizzativi del movimento delle RSU, si tratta invece di lavorare a superarli entro un'azione di rilancio in avanti del movimento. Un coordinamento permanente della sinistra larga degli eletti/e nelle RSU su un programma immediato di natura classista può essere, in questo quadro, uno strumento importante di lotta antiburocratica e per il rilancio del movimento di massa. Infine, pur considerando centrale la lotta nelle organizzazioni sindacali, i comunisti debbono evitare qualsiasi tipo di formalismo. In particolare, nei momenti di ascesa della lotta, sia generali che particolari, è decisivo lavorare allo sviluppo di forme di autorganizzazione di massa, sia nella forma di comitati di lotta, sia nella forma ben più elevata di strutture elette e controllate democraticamente (comitati di sciopero, consigli). E' in definitiva in queste strutture, più che nelle organizzazioni sindacali, che si giocherà la battaglia dei comunisti per la conquista della maggioranza.

Nel movimento degli studenti con una proposta chiara

E' importante un nuovo intervento attivo del PRC nei movimenti di lotta che oggi si sprigionano nell'ambito della Scuola e dell'Università. E' certo necessaria una presenza più forte dei comunisti tra i giovani studenti come nostra area organizzata. Ma non è sufficiente. E' essenziale una nostra capacità di proposta al movimento. L'esperienza ciclica delle autogestioni e occupazioni da parte degli studenti a partire dal '93 dimostra infatti che in assenza di una direzione politica chiara, le più ampie mobilitazioni finiscono col disperdersi, frammentarsi, rifluire nella spoliticizzazione a tutto vantaggio del governo e delle autorità istituzionali. E' importante lavorare, ovunque possibile, alla costituzione di comitati di difesa della scuola pubblica su una piattaforma immediata di lotta, fortemente caratterizzata da alcune rivendicazioni prioritarie: il rifiuto della privatizzazione dell'istruzione pubblica e di ogni forma di finanziamento, diretto o indiretto, alla scuola privata, la rivendicazione della gratuità dei libri di testo e dell'abolizione delle tasse scolastiche, la richiesta di un raddoppio della percentuale del PIL destinato alla scuola, finanziato dalla tassazione dei grandi patrimoni, delle rendite e dei profitti. Su questa piattaforma di lotta immediata i comitati per la difesa della scuola pubblica debbono aprirsi unitariamente, dal basso a tutti gli studenti che ad essa aderiscono con l'unica discriminante antifascista. Debbono promuovere, nelle forme possibili, un'unità di lotta con gli insegnanti e il personale della scuola, contro ogni forma di reciproca chiusura o diffidenza; debbono lavorare a una relazione unitaria col mondo del lavoro, coi disoccupati, con ogni realtà territoriale di opposizione di classe alle politiche sociali del governo. In questo quadro i comitati di difesa della scuola pubblica possono configurarsi e crescere come embrioni di una tendenza radicale del movimento degli studenti, in alternativa ai vertici dell'UDS e in opposizione irriducibile alle politiche governative. E possono rappresentare il luogo di confronto sulla prospettiva generale della riforma radicale della scuola e dei saperi entro un più generale progetto anticapitalistico. Congiuntamente i comunisti debbono avanzare la proposta di una unificazione del movimento studentesco in atto sul terreno dell'autorganizzazione democratica. Una situazione di atomizzazione del movimento e delle occupazioni, senza piattaforma unificata, senza un quadro democratico di verifica della rappresentatività delle diverse posizioni e proposte, sarebbe priva di sbocchi vincenti. Ed anzi spianerebbe la strada, come l'esperienza insegna, ai vertici dell'UDS e al relativo riflusso del movimento. Si può invece imparare dall'esperienza degli studenti francesi: proporre che ogni assemblea di scuola occupata designi democraticamente i propri delegati, permanentemente revocabili, e che i coordinamenti dei delegati, ai vari livelli, sino al livello nazionale siano la sede democratica di definizione della piattaforma rivendicativa del movimento. Solo così il peso delle diverse posizioni, organizzazioni ed aree sarà misurato dall'effettivo livello di rappresentatività democratica. Solo così potrà svilupparsi una vertenza nazionale vera tra movimento e governo, sulla base di una piattaforma di lotta che costringa il governo a una risposta chiara. Solo così le stesse forme di lotta e la loro continuità saranno finalizzate su obiettivi chiari, rappresentativi, verificabili.

Per il rilancio di una coerente battaglia democratica: ritorno alla proporzionale, abolizione del concordato, antimilitarismo

L'opposizione comunista deve recuperare una coerenza di proposta sullo stesso terreno sociale delle rivendicazioni democratiche. L'opposizione centrale, di grande rilevanza, ai disegni referendari in materia elettorale deve combinarsi con una vera e propria campagna del partito contro il sistema maggioritario e per il ritorno completo a una legge elettorale proporzionale. Ciò non significa naturalmente precludersi spazi futuri di duttilità tattica in sede parlamentare nel caso eventuale che i nostri voti possano risultare determinanti per evitare le soluzioni peggiori. Ma non possiamo, come in passato, assumere il meno peggio come nostra piattaforma politica, tanto più sul terreno della democrazia. Né possiamo assumere più in generale la logica della governabilità avanzando soluzioni (modello tedesco, soglie di sbarramento) che in forme e gravità diverse comportano comunque una restrizione degli attuali livelli democratici e rispondono ad una logica di classe (la stabilità dei governi borghesi) che è opposta alla nostra. La campagna per il ritorno alla legge proporzionale, senza compromissioni snaturanti, segna dunque un elemento di svolta, di rifiuto della rassegnazione alla II Repubblica. E' una campagna che va condotta con la più ampia disponibilità alla mobilitazione unitaria con forze diverse dell'intellettualità, della cultura, del diritto, ma che non può essere scorporata, per quanto riguarda l'impostazione del PRC, da contenuti e ragioni di classe della nostra opposizione. Il ritorno alla proporzionale va da noi rivendicato per quello che è: il ripristino di una piena rappresentanza, autonoma e libera, degli interessi di classe dei lavoratori, dei disoccupati, delle masse oppresse contro una governabilità borghese unicamente mirata a colpire quegli stessi interessi. Parallelamente il PRC apre una grande campagna politica per l'abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa, modificando le posizioni contraddittorie e confuse sino ad ora sostenute nei confronti della Chiesa cattolica. L'avallo ripetutamente offerto ad un presunto "anticapitalismo" del papato, il dialogo ricercato e praticato ai massimi livelli, e persino nelle feste nazionali di partito, con alti esponenti della Chiesa cattolica (vedi Cardinal Tonini) in una logica di comune riconoscimento e "ricerca", hanno rappresentato un errore profondo del nostro partito. Il Vaticano rappresenta tuttora, come sempre, un baluardo storico dell'ordine esistente. Gli intrecci materiali tra gerarchie ecclesiastiche e proprietà capitalistica nel settore finanziario, immobiliare, terriero, costituiscono la base materiale di questa funzione conservatrice. Le formali posizione di "apertura" della Chiesa a istanze sociali, così come la critica all'assolutismo del profitto non solo non rappresentano un anticapitalismo reale ma rientrano o in un più generale antimaterialismo ideologico regressivo o in una aperta "concorrenza" e lotta al marxismo all'interno delle masse oppresse. Inoltre la natura assolutistica e integralistica dell'istituzione ecclesiastica si esprime da sempre nelle posizioni apertamente reazionarie del Papato sul terreno dei diritti civili, dell'autodeterminazione della donna, dei diritti degli omosessuali e delle lesbiche, dell'istruzione. In particolare la lotta centrale delle donne per la difesa della legge 194 trova nell'apparato della Chiesa il proprio nemico frontale. Per queste ragioni i comunisti sono chiamati a combattere apertamente le gerarchie ecclesiastiche, il loro ruolo sociale e la loro ideologia. Certo il PRC non è e non deve essere un partito "ideologico"; il marxismo stesso va concepito come programma di trasformazione, non come credo; la conquista di masse cattoliche ad una prospettiva socialista è un aspetto importante della strategia rivoluzionaria. Ma proprio questo implica il disvelamento delle contraddizioni enormi tra le esigenze progressive di quelle masse e la natura reazionaria della Chiesa, a partire dalla lotta di classe e nella stessa battaglia per le rivendicazioni democratiche. In questo quadro, oggi, sull'onda dello scontro apertosi in ordine alla scuola privata e alla libertà delle donne, a fronte della forte ripresa di un sentimento laico in vasti settori di massa, la rivendicazione dell'abolizione del Concordato, della fine dei privilegi materiali e simbolici che esso garantisce alla Chiesa, riconquista una forte attualità. Il PRC sviluppa una forte iniziativa sul terreno antimperialista ed antimilitarista. La questione curda e il caso Ocalan hanno dimostrato una volta di più l'importanza e lo spazio di un'iniziativa politica caratterizzata dal nostro partito sul terreno del sostegno ai popoli oppressi e ai loro diritti democratici. Ma va evitato il rischio di ridurre le nostre iniziative internazionaliste a fatti occasionali o d'immagine su cui si muovono solo settori specifici e limitati del Partito o della sua rappresentanza istituzionale. Il più netto rifiuto delle operazioni imperialistiche di "polizia internazionale" - come la recentissima aggressione anglo-statunitense all'Iraq - quale che sia il modo in cui esse vengono configurate (con o senza l'avallo e/o la copertura della bandiera dell'ONU); la difesa di Cuba dalla pressione imperialistica; la lotta contro le minacce ricorrenti di un intervento imperialistico nei Balcani; il sostegno alle lotte di liberazione nazionale nel mondo debbono essere assunte dall'intero partito come un elemento permanente di caratterizzazione. Centrale è la battaglia di opposizione, innanzitutto, contro l'imperialismo italiano e la sua politica estera. In questo quadro il PRC deve impegnarsi in una forte campagna antimilitarista, contro il blocco industrial-militare e i disegni di professionalizzazione dell'esercito. Parallelamente, rettificando la sua attuale posizione, deve assumere una netta opposizione al progetto di "difesa comune" europea oggi trainato dal governo Jospin e Blair e sostenuto attivamente dal centrosinistra italiano. Si tratta infatti di un progetto di imponente sviluppo di militarismo europeo al servizio del nuovo polo imperialistico continentale come fattore di riequilibrio dei rapporti di forza con l'imperialismo americano e di pressione sui paesi dipendenti. Mantenere una posizione di sostegno al progetto di un'autonoma difesa europea sarebbe un fatto di grave contraddizione non solo con l'attuale collocazione del partito, ma con i più elementari principi antimperialistici dei comunisti.


continua

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