TESTIMONIANZA
di un insegnante d’inglese da una scuola media
inferiore di un ‘tranquillo’ paesino nella provincia di Roma
Chiasso, disordine e maleducazione sono state
le tre componenti che mi hanno accolto nelle due sezioni, sei classi, nelle
quali insegno. E fin qui’ tutto normale, c’e’ da aspettarselo da ragazzini e
ragazzine tra gli undici ed i tredici anni.
Non ho visto normale cio’ che sto’ per
raccontarvi.
E’ una prima di venticinque persone tra
ragazze e ragazzi. Con un po’ di difficolta’ riesco a raggiungere i libri di
grammatica e a spiegare cosa e’ un paradigma e a che cosa serve. La classe mi
segue e gia’ questo, dopo appena una settimana di supplenza, e’ tanto. Affinche’
la lezione sia il meno pesante possibile, scrivo alla lavagna cinque verbi con
relativo paradigma e chiedo alle ragazze e ai ragazzi di leggerli insieme con
me ad alta voce per imparare la pronuncia corretta e memorizzare. Leggere i
verbi dando ogni volta un intonazione di voce diversa crea un ritmo che, se
portato avanti per tre, quattro, cinque volte, porta naturalmente a muovere le mani, le braccia, le gambe. La
loro voce va cosi’ all’unisono che imparare diventa veramente divertente. Un
ragazzo mi chiede di mettersi alla lavagna e dare lui stesso un tono per ogni verbo.
Sono d’accordo, lo trovo un modo costruttivo di partecipare alla lezione. Gli
faccio spazio e vado in mezzo alla classe per correggere o aiutare i piu’
timidi che non scandiscono bene le parole. Ad un certo punto, sui volti delle
ragazze leggo un’espressione di schifo. Mi chiedo cosa possa essere, mi giro e
vedo il ragazzo che mima l’atto copulatorio con ampi movimenti delle anche. Interrompo
la lezione, gli chiedo cosa stesse facendo e lui mi risponde: ‘Niente,
professoressa, non stavo facendo nulla’. Rispondo che non era vero e che la
finisse di molestare con comportamenti osceni. Riprendo la lezione, lascio il
ragazzo al suo posto. Passano pochi secondi e le ragazze mi mandano un segnale
ben preciso, hanno lo sguardo piu’ disgustato di prima. Mi volto di scatto e
trovo ancora lui con un dito in bocca che, a ritmo di paradigmi, mima una
fellatio.
A questo punto gli dico: “il tuo
comportamento e’ veramente indecente, tu ci stai molestando.’ Lo mando a posto,
prendo il registro personale, e con cura annoto cio’ che e’ successo, lo stesso
faccio sul registro di classe in forma piu’ sintetica. Il ragazzo si ribella e
gli altri ragazzi provano anche a solidarizzare con lui negando e
minimizzando l’accaduto, rispondo che cio’ che aveva fatto non era un
azione normale ma un atto di molestia premeditato e che fosse responsabile dei
suoi comportamenti.
In consiglio di classe, ho parlato di questo
caso e le colleghe hanno subito capito la gravita’ di simili comportamenti,
hanno ritenuto giusto che si prendessero provvedimenti: parlare con la famiglia
e la sospensione. Sono stata molto d’accordo nell’invitare la famiglia e per
niente sulla sospensione perche’ sarebbe stato solo un cerotto al problema. Le
note e rimedi simili sono inutili, non risolvono la situazione che e’, secondo
me, quella di modelli culturali violenti profondamente introiettati sin dalla
scuola materna. Cio’ che ha fatto questo ragazzo non e’ quindi un problema
individuale, di quella singola persona, ma un comportamento ‘normalmente’
attuato dalla maggior parte dei ragazzi dentro e fuori la scuola. Farlo passare
come una ‘birbonata’, non nominando e non analizzando cio’ che accade non fa
altro che portare avanti questo tipo di situazioni, e’ come un lasciapassare. Alcuni
colleghi presenti al consiglio, hanno riconosciuto l’importanza della
visibilita’ di queste azioni ma hanno
subito colpevolizzato anche le allieve prendendo il caso di una ragazza che
dice frasi sconce che a loro fanno tanto ‘divertire’. Ho insistito per sapere
quale fosse il contenuto di cio’ che questa ragazza ha detto ma e’ stato
inutile. Sono intervenuta affermando che c’era poco da ridere e che, magari,
c’era da capire del perche’ di simili atteggiamenti e comunque, cio’ che dice
una ragazza di sconcio e di violento va a penalizzare lei e tutte le altre
donne mentre cio’ che dice un ragazzo di osceno non penalizza certo lui che
anzi, agli occhi dei compagni, fa pure la figura del ‘macho’. Cio’ che ho descritto non e’ un episodio
isolato. In una classe terza dello stesso istituto, alcuni ragazzi mi hanno
chiesto di andare alla toilette avvicinandosi alla cattedra e
contemporaneamente toccandosi il pene. Il
loro sguardo mi e’ sembrato di sfida. Pensavano, forse che, essendo io donna
non li avrei guardati e che forse non li avrei neppure ripresi? E infatti, la
prima volta sono rimasta sorpresa, poi, alla seconda occasione, ho verbalmente
espresso il mio dissenso dicendo a voce alta e chiara: ‘Non toccarti il pene’. Il
silenzio e’ calato pesante nella classe, non volava una mosca. La reazione del
ragazzo e’ stata quella di togliere le mani e abbassare lo sguardo. Anche gli
altri hanno capito e non hanno piu’
rifatto questo gesto. Mi sono sentita addosso lo sguardo di gratitudine delle
ragazzine che si sono sentite rappresentate, valorizzate: finalmente, non si fa
finta di nulla!. Sono sicura che con questo esempio le ragazze troveranno la
forza di ribellarsi quando dei loro compagni avranno atteggiamenti simili. Io
penso che nominare cio’ che accade, chiamare le cose con il loro nome, e’
importantissimo per non far passare per normale cio’ che non lo e’.
Maria Rosaria Capozzi - Velletri
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