INTELLETTUALI A SCUOLA PROLOGO
Da qualche tempo, pur se in forme discontinue e con accenti differenti, è in corso un dibattito sul ruolo e sulla funzione degli intellettuali nella nostra società. Ruolo e funzione inevitabilmente politici, nella accezione che ne dava Hanna Arendt, di azioni realizzate nell'arena pubblica. Nell'epoca del crollo delle soggettività forti, delle ideologie politiche del Novecento, del prevalere delle forme di comunicazione totalizzate dall'elettronica, della mondializzazione dei processi produttivi, sembra pesare molto il silenzio sulle cause e sulle conseguenze di tali processi storici. Silenzio drammaticamente esteso anche alle devastazioni delle guerre, Balcani, Africa, e alla diffusione dei nazionalismi.
Questo intreccio di temi irrisolti costituisce uno sfondo inquietante anche per la scuola, rispetto ai problemi dell'educazione e dell'istruzione delle generazioni future. Acuendo e direzionando lo sguardo verso la scuola, mi pare di poter individuare alcuni nodi teorico-pratici specifici:
a) la riproducibilità della cultura, quale, con quali accelerazioni e quali fughe di tempo e di confini;
b) il retroterra culturale degli insegnanti, il loro statuto di intellettuali, il contributo a-tipico alla cultura generale frutto della loro formazione erratica;
c) la femminilizzazione della scuola, come punto di forza per il pensiero della differenza e come contributo ad una pedagogia dell'agire e del pensare "come due" (Irigaray 1996).
CHI E' UN INTELLETTUALE?
Se i punti, espressi a mo' di prologo, hanno qualche senso, la domanda e' di obbligo.
"... tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali ... nel più alto gradino saranno da porre i creatori ... nel piu' basso i piu' umili amministratori e divulgatori"(Gramsci XII Q e note sparse)
A Gramsci è stato comminato un esilio fuori dai confini della cultura ufficiale tanto forte da rendere le sue riflessioni particolarmente adatte ad una rilettura decentrata, anche quelle sul ruolo della scuola e sui saperi.
Se poi vogliamo riutilizzare un filosofo altrettanto inattuale, Foucault, troviamo queste definizioni:
"E' un intellettuale colui che crea e diffonde cultura". Ancora, con una formula più complessa: " L'intellettuale è un tecnico del sapere pratico che analizza i modi complessi, e sempre mutevoli, attraverso i quali le tecnologie di controllo di sé, corpo, realtà del soggetto, incontrano le macro-istanze, quelle che presiedono alla produzione di discorsi riconosciuti veri e scientificamente validi" (Foucault 1995). Sono locuzioni provvisorie, una sorta di casa-base da cui ripartire per altri spostamenti.
Provo ad effettuarne qualcuno: a) creare non significa solo innovare, divergere da paradigmi filosofici e scientifici consolidati, che è di pochi - Darwin, Marx, Einstein, Freud - ma nel senso più ampio è creativo chi si assume la "responsabilità del dire" (Foucault 1995); b) "il dire" è tanto più produttivo del nuovo, quanto più il parlante denuncia - con ironia (Rorty 1993) - l'appartenenza ad un milieu, ma nello stesso tempo vi rinuncia, almeno temporaneamente; è proprio il sorriso disarmato della rinuncia alla nicchia offerta dal senso di appartenenza che provoca lo spiazzamento creativo del discorso; c) il concetto di responsabilità, come espressione della titolarità del discorso, quella che Foucault chiama "parresia", come la manifestazione delle appartenenze e dei discostamenti, fa uscire la parola dal cicaleccio e dal gioco salottiero delle opinioni. Questo è bene dirlo, visto che parte del dibattito sugli intellettuali si è svolto sulle pagine culturali dei giornali, non sempre alieni dallo snobbismo e dalla autoreferenzialità.
Infatti quello che conta, che rende "il dire" autorevole e creatore di nuove istanze, qualunque sia il mezzo di diffusione, è l'uscita dal conformismo, dalla pigrizia del sentito-dire; è l'onestà di provare a riportare ogni doxa (opinione) nell'ambito autentico di una pratica. Operazione che rende l'opinione, appunto, moralmente e scientificamente accettabile.
E' bene allora precisare, serve al mio discorso, che a lato, e al di sotto, dell'intellettualità ufficiale - accademica, giornalistica, televisiva - esiste un'ampia schiera di donne e di uomini che non frequentano alcun salotto e che quindi non avranno un facile riconoscimento sociale al proprio dire. Eppure, non per questo, essi rinunciano a riflettere sul proprio lavoro, sulla sua collocazione sociale, sul nodo che intreccia teorie "alte", scelte politiche e empirismo quotidiano. Donne e uomini che personalmente, e in piccole comunità di riferimento lavorativo, raccolgono indizi e dati sui processi, mentre essi avvengono, e sui cambiamenti di piccolo respiro, suscettibili di entrare, in seguito, nel flusso delle macro modificazioni culturali. Penso al lavoro di Magistero svolto nella scuola, ad ogni grado, dagli insegnanti. Suffraga l'ipotesi che esista e che svolga un compito di qualche interesse sociale, questa schiera di pensatori, l'attenzione ad essi rivolta da alcune note, certo a margine, del dibattito sull'intellettualità. Mi riferisco ad una scarna, ma acutissima considerazione di Iacono e Piccioni su "Il manifesto" del 24 febbraio 1996. In essa gli autori, si chiedevano se, autentici intellettuali non fossero proprio i maestri elementari (sic!), che inventano ogni giorno il proprio lavoro, creando percorsi di conoscenza metaculturale. Più nel merito, sempre sullo stesso foglio, qualche giorno dopo, commentando la pochezza dei programmi universitari di formazione per i futuri maestri, Clotilde Pontecorvo diceva: "... [gli] insegnanti [che] lavorano con impegno e creatività, [che] riflettono su quello che fanno, [che] producono allievi motivati e criticamente formati ... sarebbe il caso di chiedersi come hanno fatto, con quali esperienze formative di studio e sul campo, in quale contesto di esercizio della loro professione, e durante quali studi ..."
Forse, sarebbe opportuno che se lo domandasse anche l'attuale Ministro.
Forse, domandandoelo, riserverà un ruolo più autonomo alla scuola pubblica, nel ridefinire i suoi scopi rispetto ai valori della società in cui viviamo.
FRAMMENTI
Mentre nelle scuole si discute, ai diversi livelli, di teorie dell'intelligenza, di teorie dell'apprendimento, di teorie delle discipline, di formazione politica delle coscienze, un po' perché lo abbiamo sempre fatto, e un po' perché incalzati dai programmi riformisti, i bambini crescono, giocano, amano, imparano. Lo fanno adesso, mentre li osserviamo, e cerchiamo mappe di orientamento per il nostro lavoro con loro. La responsabilità del "dire" a scuola, si carica di una valenza fortemente politica, perché obbliga sempre a ragionare con gli altri, a cercare il confronto, ad assumere la consapevolezza della impossibilità dei percorsi individuali, e rimanda continuamente alla comunità che apprende. Se si vuol dire diversamente, richiama al gruppo, al contesto che possiede parametri, esplici ed impliciti, sempre in via di definizione. L'appartenenza e la provvisorietà, caratteristiche affettive e relazionali, tipicamente femminili (Braidotti1996), obbligano alla ricerca di forme sempre nuove di coerenza morale, sospese fra le modalità della crescita del sé e le pratiche di deontologia professionale. La valutazione nella scuola, ad esempio, anche quella più tecnica , brutalmente input -output , non può prescindere da tutto questo. Chi esercita un Magistero parla sempre due volte, con i discepoli e, con i pari, negli spazi di riflessione "meta". La povertà della formazione di accesso per i docenti, la miseria culturale di certa editoria destinata agli insegnanti e ai loro alunni, la serietà di alcuni temi culturali (moltiplicazione dei saperi, ridondanza comunicativa, confusione dei confini disciplinari e trasversalità delle conoscenze), rendono la parola della scuola pastosa, ambigua, spesso indicibile ai più. Ecco, allora, che si torna a chiedere una rilettura dei programmi ministeriali non dal punto di vista dei contenuti, e un ritorno, nella scuola dell'obbligo alle competenze di base - leggere, scrivere, far di conto - elevati a competenze cognitive. Si pensa alla praticabilità di strumenti capaci di rendere le donne e gli uomini di domani idonei ad ogni ricerca, di strumenti capaci di garantire una difesa proprio dalla settorialità feroce o, come altra faccia della stessa medaglia, dalla richiesta di flessibilità continua. Si pensa a pratiche di nomadismo culturale appaganti, sensibili ai cambiamenti veloci, capaci di renderne conto, di mantenerne il controllo.(Braidotti 1995)
La scuola rimane l'unico luogo accessibile a tutti, dove davvero si può discutere, in un momento in cui imperano i non-luoghi e scompaiono quelli tipici del discorso in pubblico, piazze, sedi politiche, centri aggreganti nelle nostre città. Nella scuola è ancora possibile il formarsi di opinioni progressivamente più critiche su un piano politico e morale. Penso anche ai genitori, ovviamente. Un certo modo di insegnare che potremmo definire "critico", aperto alla crisi, un insegnamento nel contempo autorevole, cioè dotato di titolarità di alcune certezze, può sfondare all'esterno, può contaminare il territorio, può produrre forme di apprendimento continuo, fornire modelli e opportunità di apprendimento come adattamento selettivo al vivere civile. Può farlo una scuola con gli intellettuali-maestri esistenti e con quelli che vorremmo avere. Una scuola siffatta è un centro di irradiamento di cultura antagonista al conformismo e alla mediocrità imperanti. Non ci servono, per tentare questo consolidamento di ruolo della scuola, né la logica mercantile, né una logica di servizio come contratto, semmai la circolarità degli scambi, la gratuità dei doni culturali, sapendo e facendolo sapere, dove si è situati, e verso cosa si prova ad andare. L'appartenenza consapevole ad un progetto di società, la responsabilità sono sempre collettive e tributarie dei concetti di condivisione e di consenso di gramsciana memoria.
Renata Puleo
Direttrice didattica - Roma
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