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La protesta secondo noi

Critica del protestante

Se veramente lo spirito assurge ad un livello qualitativo superiore nella sua manifestazione, nella sua "fenomenologia etica", nella propria personalizzazione verso l'alterità e quindi nella propria partecipazione alla socialità (termine di cui spesso si abusa), la protesta cos'è, se non un nocivo "panegirico dello spirito", una consuetudine poco salutare a discapito di un effettivo interesse nelle problematiche sociali, un estuario che sfocia nella demagogia?

Quello che affermo riflette forse un'opinione (meglio, una contro-opinione) che alcuni (fra cui mi inserisco indebitamente) hanno elaborato, sazi d'una esasperazione forzata della necessità del protestare.

Punto primo: i centri sociali. Qui la vita (intesa come esistenza) trasmuta in protesta e la protesta in vita ("lo zio mi fa da padre e la madre mi fa da zia..." Amleto, atto II, sc.II). La cultura si chiude a limitati (e limitanti) campi rigorosamente "rivoluzionari" che spaziano dalla figura ormai "post-mitologica" di un Che Guevara ospite più di T-shirt variopinte che di dibattiti seri alla cultura beat che poco o nulla riguarda il dibattito politico. Per carità, qualche libretto sul Che l'ho comprato anch'io, ma ho l'impressione che ci sia un enorme paradosso: vedo la figura del combattente, come quella, nel migliore dei casi, di un fantasma carismatico e invalicabile, punto insuperabile di un "percorso di protesta" che già stenta a partire e ciò come un nefasto leitmotiv. Il militante si presenta come un cavaliere inesistente (specie quando basa la propria protesta su argomenti fittizi o obsoleti), un coriaceo pezzo di nulla, un alacre apatico, colui che vede come panacea di ogni male la clausura sociale negli edifici autogestiti o occupati.

Punto secondo: il senso della protesta. "I cani abbaiano a quelli che non conoscono" dice Eraclito in uno dei suoi tanti frammenti. L'Uno combatte l'Altro (per usare termini palesemente hegeliani) col rifiuto del medesimo, con la negazione di ciò che sembra già rappresentare la privazione dei caratteri peculiari dell'"Uno" di questa questione (il militante e/o il protestante). Condivide, accetta, ci gioca un po' sopra, non esecra questa costante diatriba sociale, la sente quasi una sua determinazione. Però, pensandoci bene, risulta utile a volte imparare la disposizione in acie anche da chi ci e` avverso.

Limitarsi alla mera protesta è poi infruttuoso, non è politica, voglia radicale di apportare modifiche, il più delle volte, " la voce in congresso è sprecata in piazza".

Problema finale: i diversi tipi di protesta. Individuiamo particolarmente una prima divisione fra "protesta razionale"[1] e "protesta irrazionale"[2] .Partiamo dalla seconda, più facilmente identificabile nella protesta scaturita dalla "coercizione sociale", la violenza perpetrata ai danni di minoranze (etniche o ideologiche) che istintivamente protestano per affermare la propria importanza o, cosa a dir poco tragica, cercano di rovesciare la situazione (diventando oppressori). Ad esempio nei ghetti neri americani la cultura nera si sta mobilitando nella musica, nell'arte per conquistare i propri diritti sociali, ma esistono comunque fazioni intransigenti che auspicano ad un " rovesciamento degli opposti " (altre persino all'avvento di un Dio nero). La prima è molte volte legata ad associazioni, organismi che, bene o male, mirano ad ottenere risultati concreti.

Che sia un'arte (non combattere l'Altro, ma farlo un po' più Nostro), che sia un istinto (combattere per noi per essere almeno considerati Altro, avere voce in capitolo, nel capitolo della storia sociale), non importa. Basta che lo sia, per favore.

Alessandro Raveggi

 

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