II. CONDIZIONI ESTERNE 

 

4.3 I vescovi di Bacau

 

Dobbiamo dire fin dall'inizio che poche sono le informazioni che abbiamo trovato sui vescovi di Bacau e sul loro impegno pastorale in Moldavia, per cui la nostra presentazione su quest'argomento sarà abbastanza breve, seguendo il filo cronologico dei documenti a nostra disposizione. Fino allinizio del XVIIIo secolo furono nominati dieci vescovi per la sede di Bacau, ed i candidati per questa sede, tutti polacchi fino alla fine di questo secolo, cioè fino allultimo vescovo polacco, venivano presentati alla Santa Sede dai re di Polonia ogni volta che la sede rimaneva vacante e possiamo dire che normalmente, questo era l'unico intervento della corona polacca per quanto riguardava il cattolicesimo moldavo. Constatando il disinteresse dei vescovi per la loro sede e diocesi, nello spirito riformatore del concilio di Trento, Alessandro VII aveva già promulgato nel 1662 un decreto che obbligava i vescovi di Bacau a risiedere nella loro sede, tuttavia senza alcun risultato. Dopo la pace di Karlowitz (26 gennaio 1699) con l'impero ottomano, la Polonia ottenne il protettorato per la minoranza cattolica presente nei principati romeni della Moldavia e della Valacchia, ma sia i re, sia i vescovi si interessarono poco dei cattolici moldavi, perché non costituivano alcun interesse per loro e in secondo luogo perché la Polonia diventava sempre più debole a causa delle guerre, della crescita del potere della Russia zarista e dell'avanzata dell'Austria. Dopo la pace di Kutsciuk-Kainargi del 1774, il protettorato per i cristiani presenti nei paesi balcanici dominati dai turchi passò alla Russia, e in questo contesto l'influenza polacca e dei vescovi di Bacau diminuì ancora. Già nel 1752, dietro le richieste del vescovo Jezierski, Benedetto XIV aveva assegnato ai vescovi di Bacau il territorio di Sniatyn, in Polonia

APF, SC, Mold., v 4, ff 422-423.; così essi ottennero una sistemazione canonica nella loro terra, lasciando praticamente il destino dei cattolici moldavi nelle mani dei prefetti e dei loro missionari. Con la morte dell'ultimo vescovo polacco Karwosiecki nel 1789 si chiude definitivamente lepoca dei vescovi presentati alla santa Sede dai re cattolici di Polonia.

A causa delle guerre napoleoniche e delle tre spartizioni della Polonia (1773; 1793; 1795), dopo la morte dell'ultimo vescovo polacco Karwosiecki la sede di Bacau rimase vacante fino al 1808, quando fu nominato il primo vescovo italiano, Bonaventura Carenzi, che però non poté prendere possesso della sua diocesi a causa dell'opposizione del divano e delle autorità ortodosse locali. Per questo motivo, nel 1814, Pio VII lo nominò vescovo di Plebanae. Non potendo essere presente nella sua diocesi, Carenzi aveva affidato l'incarico di vicario generale al padre Luigi Landi. Nel 1815 la Santa Sede nominò Giuseppe Bonaventura Berardi come vescovo di Bacau, dopo che dal 1812 egli aveva ricoperto l'incarico di prefetto della missione. Come si era verificato con il suo antecessore, anche lui sperimentò l'opposizione del governo moldavo fanariota e delle alte autorità ortodosse, che non volevano riconoscere il suo titolo e neanche accettarlo in Moldavia. Morì a Iasi nel 1818 e con lui si chiuse la serie dei vescovi di Bacau. Infatti, fino al 1884, data di erezione della diocesi di Iasi, i cattolici moldavi e il loro clero furono guidati da prefetti e visitatori apostolici, anche se insigniti dellordine episcopale.

Dopo questa brevissima inquadratura politico-religiosa del vescovato di Bacau nel contesto delle grandi potenze e dei loro interessi per la minoranza cattolica moldava, passiamo adesso ad una presentazione più dettagliata di quello che abbiamo potuto ricavare dai documenti.

È già ben noto il fatto che raramente i vescovi di Bacau si facevano vedere nella loro diocesi, sia per il misero stato della missione, che a causa della mensa vescovile del villaggio di Trebes, che non permetteva loro una "honesta sustentatio" in Moldavia. Già nel 1737 il cancelliere Costantino Ruset aveva usurpato buona parte del terreno della mensa vescovile di Trebes precedentemente donata ai vescovi di Bacau dal principe Pietro lo Zoppo alla fine del XVIo secolo, e il prefetto Pesci ebbe nello stesso anno un processo per ricuperare il terreno, ma con scarsi risultati. Nel passato, cioè prima del 700, Trebes era stato sempre esente dalla imposte e da altri contributi da pagare al principe, ma ciò non significava che rendeva qualcosa di consistente per attirare lattenzione dei vescovi di Bacau.

Dopo di allora, l'esiguo usufrutto della mensa vescovile sarà gestito dai prefetti, giacchè i vescovi non si interessavano affatto di questi terreni che, come abbiamo detto, producevano ben poco. La relazione di Ausilia del 1745, ci dice che a Trebes, la mensa vescovile consiste in 200 pogoni (un "pogon" misurava mezzo ettaro e spesso questa unità di misura venne usata dai missionari nei loro scritti), dai quali non si ricava niente a causa dei grandi tributi che i cattolici devono pagare più volte all'anno al principe. E alcuni decenni prima del processo di Pesci con i Ruset, un'altra ricca famiglia moldava, la Manolache, aveva già acquistato con imbroglio, tramite un ortodosso, 600 pogoni della mensa vescovile di Trebes. Al vescovo rimane solo la chiesa di Bacau, pure in rovina; non ha né casa dove abitare, né beni, per cui risiede in Polonia.

Nel 1732, rispondendo alla Propaganda che gli domandava il motivo per cui il vescovo Parysowicz non era mai venuto in Moldavia ad amministrare la cresima e a visitare la sua diocesi, il prefetto Bossi dice che il principale motivo della sua assenza è rappresentato dalle difficili condizioni di vita della gente che vive "nelle selve, monti, e luoghi deserti" e c'è sempre il pericolo, tanto per i missionari, come anche per i vescovi di essere presi, catturati e maltrattati, come è successo un anno prima a Focsani con un missionario che era andato a visitare i pochi cattolici presenti ai confini con la Valacchia, probabilmente nelle città di Bîrlad e Galati. Però, per quanto riguarda Parysowicz, la Propaganda non sapeva che questi aveva fatto una breve visita in Moldavia verso la fine dell'anno 1722, ma, forse, senza preoccuparsi se c'era o no qualche persona da cresimare. Infine, Bossi suggerisce alla Propaganda di proporre al vescovo residente a Sofia di visitare i cattolici del sud della Moldavia e di impartire loro la cresima quando viene in Valacchia, territorio sotto la sua giurisdizione. Però, la sua proposta non ebbe alcun risultato perché non conosciamo nessun caso in cui un vescovo di Sofia, con giurisdizione anche per la Valacchia (dal 1644) sia andato in Moldavia per esercitare un certo ministero apostolico. Forse dietro la proposta di Bossi stava il fatto che nel 1714 allarcivescovo di Sofia era stato permesso, col consenso del vescovo di Bacau, di impartire la cresima in Valacchia. Nonostante il loro poco interesse per i cattolici moldavi, già da lungo tempo i vescovi di Bacau intendevano chiamarsi "vescovi di Moldavia e Vallacchia", malgrado già dal 1677, il re polacco fosse intervenuto perché la loro giurisdizione si limitasse alla sola Moldavia; ma, come abbiamo visto, anche all'inizio del secolo seguente i vescovi polacchi volevano ancora avere certi diritti sui cattolici della Valacchia. Tutto rimase tuttavia un semplice ed insignificante conflitto di giurisdizione; di fatto, i vescovi di Bacau, quando venivano in Moldavia, non andavano mai in Valacchia e Bossi dice che gli anziani "mai hanno visto faccia di Vescovo". L'ultimo vescovo che visitò per breve tempo la sua diocesi fu Bieganski, ma sulla sua visita del 1708 le informazioni si fermano solo al suo intervento nel conflitto che divideva i gesuiti e i conventuali della capitale.

Una successiva presenza del vescovo nella sua diocesi avvenne solo nel 1741, quando nell'estate di quell'anno Jezierski visitò per la prima e ultima volta la Moldavia, malgrado il suo ministero per questa diocesi sia durato 45 anni. Nella sua visita canonica si scontrò duramente col prefetto Giacinto Lisa, che il vescovo trovò colpevole di cose molto gravi, sia nella sua vita sacerdotale, sia nel suo impegno pastorale. Forse su una presentazione così negativa del prefetto influì in una certa misura anche il missionario Manzi, lasciato dal vescovo come suo vicario generale, provvedimento insolito perché questo incarico veniva normalmente affidato al prefetto, per poter supplire all'assenza del vescovo, cioè coordinare l'attività dei missionari e per esercitare certi diritti sia sui fedeli che sui missionari. Lisa si serviva dei suoi poteri in modo arbitrario, scomunicando fedeli senza motivo o per cause futili, e poi, togliendo la scomunica in un modo altrettanto arbitrario. Dobbiamo precisare che fino a questepoca, non abbiamo alcuna notizia sul fatto che i prefetti avessero ricevuto la facoltà di impartire la cresima, dato che i vescovi venivano così raramente nella loro diocesi.

Visitando le principali comunità, Jezierski stese poi una relazione sullo stato della missione, nella quale dichiarava esserci circa otto mila anime, in undici parrocchie e con solo tre missionari. L'immagine che gli delinea sulla diocesi non è positiva, ma questo non gli impedì di tornare presto in Polonia e di non venire mai più in Moldavia per cercare di porre qualche rimedio alle mancanze ed ai mali della diocesi stessa.

Cronologicamente, abbiamo presentato già il trasferimento della sede del vescovo di Bacau a Sniatyn, nel sud della Polonia, nell'anno 1752, decisione che sancì de jure una realtà de facto. Inoltre, in Moldavia, si afferma ancora una volta, il vescovo non aveva alcun mezzo di sostentamento, perché i beni della sua mensa erano nelle mani del boiaro Ruset. Quattro anni più tardi, Jezierski nominerà il prefetto Laidet come suo vicario generale, lasciando nelle sue mani tutto il governo della missione. Più tardi ancora, nel 1761, il nuovo prefetto Di Giovanni cercherà di mettersi in contatto col vescovo, ma senza alcun risultato; Jezierski non risponderà neppure alle sue lettere e il prefetto sarà desolato anche di aver avuto la temerità di chiedere ai cardinali della Propaganda la facoltà di poter impartire la cresima ai suoi fedeli (gli era stato rimproverato per aver osato chiedere una tale facoltà), dato che il vescovo non si faceva vedere da vent'anni. Essendo il vescovo avanzato in età, al prefetto non rimase che esortare i suoi fedeli ad avere pazienza finché non avranno un altro vescovo che possa venire a compiere il proprio dovere.

Nel 1782 muore Jezierski e il coadiutore Karwosiecki fu il suo successore nella diocesi di Bacau; egli, come già detto, fu l'ultimo vescovo polacco di Bacau fino alla sua morte nel 1789, ma rimase uno sconosciuto per la sua diocesi, malgrado il prefetto Martinotti fosse andato nel 1779 a parlare con lui su alcuni problemi della diocesi stessa. Non sappiamo niente di lui fino al 1788, anno in cui minacciò il prefetto Rocchi qualora questi avesse avuto il coraggio di amministrare la cresima, visto che dal 1776 non era mai venuto in Moldavia. Alcuni anni dopo, e cioè nel 1792, Rocchi ricevette dalla Propaganda la richiesta di informarla su come fosse stata fatta nel passato la nomina del vescovo da parte del re polacco: La congregazione poco sapeva sui vescovi di Bacau e sulla loro presentazione da parte del re polacco, essendo questo vescovato così piccolo e insignificante; possiamo così concludere che se la sacra congregazione avesse avuto un interesse maggiore per questo vescovato, probabilmente i rispettivi vescovi si sarebbero datti da fare di più, e ciò sarebbe stato solo a vantaggio della minoranza cattolica moldava. Comunque, Rocchi pensò essere arrivato il momento favorevole perché la Santa Sede prendesse in mano il problema e non si lasciasse sfuggire l'opportunità di decidere da sola la nomina del vescovo di Bacau. Invece a Roma, la sua proposta non suscitò molto interesse e tutto rimase in sospeso.

Sotto la prefettura di Sassano, nel 1796, si parlò di un nuovo vescovo di Bacau, nominato dal re polacco, e nuovamente, a Roma non si sapeva nulla su quest'affare, oppure, la Santa Sede passò sotto silenzio il problema in quanto le grandi potenze adesso in gioco, la Russia e l'Austria oltre alla debole Polonia, pretendevano tutte quante un certo diritto di interferire sulla nomina del vescovo e Roma aspettò così un momento migliore per decidere in quale direzione andare. Il momento opportuno arrivò solo nel 1808, quando fu nominato come vescovo di Bacau il primo italiano, Bonaventura Carenzi, che, come abbiamo già detto, a causa delle difficoltà politiche e dell'opposizione del clero ortodosso, non potè venire in Moldavia. Dopo di lui, nel 1815, fu nominato un altro francescano italiano, Giuseppe Berardi, morto a Iasi nel 1818: Fu l'ultimo vescovo di Bacau e riuscì a fare poco per la sua diocesi a causa del contesto locale politico e religioso poco favorevole, se non ostile, alla presenza di un vescovo cattolico nella capitale della Moldavia.

Malgrado portasse il titolo di Bacau, città geograficamente collocata al centro delle zone abitate dai cattolici, i vescovi si orientarono verso Iasi, capitale e sede della prefettura della missione, benché la maggioranza delle comunità cattoliche fossero come lo sono tuttora, alquanto lontane da questa città.

Da queste poche informazioni che abbiamo sui vescovi e sul loro impegno per la diocesi nel XVIIIo secolo, possiamo concludere con alcune osservazioni brevi e sintetiche. Sprovvisti di una mensa vescovile che potesse permettere loro una presenza se non stabile, almeno provvisoria in Moldavia, i vescovi polacchi stavano nella loro terra, nel sud della Polonia. Dopo 1752, con il trasferimento della sede da Bacau a Sniatyn, anche dal punto di vista canonico, essi potevano risiedere in Polonia e in Moldavia venivano raramente. All'inizio del secolo XVIII, Bieganski è venuto due volte (1706 e 1708); poi seguì la breve visita di Parysowicz del 1723 e quella di Jezierski nel 1741 e l'ultima è di Karwosiecki nel 1776. Cinque brevissime visite pastorali dunque nell'arco di un secolo per impartire la cresima, visitare alcune delle principali comunità, prendere qualche contatto con i prefetti e i missionari, interessarsi se i terreni della mensa vescovile di Trebes potevano offrire loro qualcosa e poi tornare in Polonia.

Nonostante la loro assenza dalla diocesi e il disinteresse per i missionari e i cattolici moldavi, quei vescovi si opposero sempre alle richieste dei prefetti di poter amministrare la cresima e solo dopo la morte dell''ultimo vescovo nel 1789, i prefetti poterono esercitare liberamente questa facoltà loro concessa dalla Santa Sede. Una loro presenza nella diocesi avrebbe giovato sicuramente alla missione; d'altra parte, non si può neppure affermare che la loro assenza abbia avuto delle conseguenze gravi, tranne la troppo rara amministrazione della cresima. Grazie all'impegno pastorale dei prefetti e dei loro missionari, impegno portato avanti con tanti sacrifici, la minoranza cattolica andò avanti anche senza la cura reale, effettiva dei suoi vescovi.

 

I vescovi di Bacau nel XVIIIo secolo

1. Francesco Bieganski, OMC (1698-1709)

2. Giovanni Damasceno Lubieniecki, OP (1711-1714)

3. Giosafat Parysowicz, OMC (1717-1732)

4. Raimondo Stanislao Jezierski, OP (1737-1782)

5. Francesco Ossolinski, OMC, coadiutore (1765-1773)

6. Domenico Pietro Karwosiecki, OMC, coadiutore (1776-1782); titolare (1782-1789)

7. Bonaventura Carenzi, OMC (1808-1814)

8. Giuseppe Bonaventura Berardi, OMC (1815-1818)

 

4.4 Il protettorato e le relazioni con i principi locali

 

4.4.1 Il protettorato

Come abbiamo detto sopra, dopo la pace di Karlowitz (26 gennaio 1699) con l'impero ottomano, alla Polonia fu concessa la protezione dei cattolici nei principati romeni. Ma lintervento di questa nazione a favore della missione moldava si limitava praticamente solo alla nomina (oppure presentazione alla Santa Sede) del vescovo di Bacau. Siccome, de facto i cattolici rimanevano senza alcuna protezione, malgrado non venissero perseguitati dagli ortodossi o dalle autorità civili per motivi religiosi, nel 1731 il prefetto Cardi tentò di ottenere tramite la Propaganda il protettorato del re francese che già era esteso per le missioni alle terre sottoposte al dominio della Sublime Porta, esponendo in modo molte semplice i vantaggi di questa protezione: "ciò servirà ancora per questi poveri nostri Cattolici, mentre avranno il loro ricovero nel nostro recinto, per così dire, senza verun timore, e precise dalli incursione de' Tartari ed anche i Prencipi, prò tempore avranno qualunque riguardo in ordine al nostro personale, ed in caso di molestia si possa ricorrere a medemi, ne così facilmente ci sarà negato l'ingresso". Chiese alla Congregazione di intervenire presso il card. Melchiore de Polignac, rappresentante di Luigi XV alla Curia, perché questi desse una raccomandazione in questo senso al marchese De Villeneuve, che si trovava a Costantinopoli come ambasciatore della Francia.

Cardi si sbagliò affidando la lettera commendatizia ricevuta da Polignac assieme ad una sua propria ad un barone originario di Liegi, il De Vigouroux, di passaggio per la Moldavia, perché questi le presentasse a Villeneuve. I tentativi del barone di Liegi di discreditare Cardi e i francescani davanti a Villeneuve non ebbero successo. D'altro canto neanche l'ambasciatore era d'accordo con la domanda di Cardi, perché erano già troppe le cure della Francia per le altre missioni presenti nell'impero ottomano. Inoltre, l'ambasciatore intervenne presso i ministri degli Affari Esteri presenti a Versailles, affinché non fossero favorevoli al protettorato per questa missione. Nell'ottobre dell'anno seguente 1732, il risultato in questo senso arrivò con una disposizione dei ministri francesi all'ambasciatore Villeneuve perché i minori conventuali della Moldavia si mantenessero "cosi come loro medesimi potranno fare, tanto più che non sembrano d'essere stati molestati dal Governo del paese". In definitiva appare chiaro che i missionari ed i fedeli cattolici della Moldavia non suscitavano alcun interesse per la corona francese. È vero che i missionari non furono perseguitati dal governo moldavo, però nel 1735 il missionario Manzi assieme al suo prefetto Cardi furono rinchiusi nel carcere del metropolita e maltrattati per suo ordine, e adesso Cardi ebbe tutti i motivi per chiedere la protezione della Francia e l'anno seguente rivolse la stessa domanda al nunzio in Polonia, Paolucci, perché fossero intervenuti presso il re francese, Luigi XV, per ottenere "detta sua santa Protezione". Lo stesso orientamento verso la Francia lo mostrò anche il vescovo Jezierski, quando visitò la sua diocesi nel 1741. Egli intervenne presso la Sublime Porta tramite l'ambasciatore francese a Costantinopoli, per ottenere una conferma dei privilegi garantiti ai cattolici con il trattato di Karlowitz (1699), privilegi che non erano ben visti dalle autorità ortodosse moldave.

Alcuni anni dopo, nel 1744, essendo a Roma, Manzi, che aveva sperimentato l'umiliazione di trovarsi nel carcere del metropolita, insieme al prefetto Cardi, chiese alla Propaganda di intervenire presso l'ambasciatore francese a Costantinopoli, per prendere sotto la sua protezione le missioni di Moldavia, così come erano sotto la protezione francese gli altri cattolici del dominio ottomano. Due anni più tardi, trovandosi a Costantinopoli, intervenne personalmente presso l'ambasciatore francese, però non ottenne nulla. La Francia considerava la Polonia come protettrice dei cattolici moldavi, inoltre non ne trovava vantaggio alcuno, per cui l'anno seguente (1747) rispose negativamente alle richieste di Manzi, e così la missione continuò ad andare avanti solo con le proprie forze, senza nessun aiuto da parte delle grandi forze cattoliche, una realtà confermata più tardi (1761) da una lettera del prefetto Di Giovanni alla Propaganda.

Tre anni dopo, l'ex missionario Bartolomeo Frontali si lamentava nella sua relazione mandata alla Propaganda che "e vero, che siamo sotto la protecione della Polonia, ma quando non vi è una buona condota in Moldavia a niente serve". A causa del prefetto che fa "capricci" (probabilmente si riferisce a Lisa) e più tardi a causa di Cambioli, che non si era dato alcun interesse per imparare la lingua del posto, la missione aveva perso alcuni dei privilegi accordati dal principe per la mensa vescovile di Trebes e per la casa dei missionari a Iasi, privilegi che il vescovo Jezierski aveva cercato di ripristinare nella sua visita fatta in Moldavia nel 1741. Dobbiamo dire però che questi privilegi non furono accordati dai principi a causa dell'intervento esplicito della Polonia o della Francia, ma in base soprattutto a certi diritti ed usanze locali (anche il clero ortodosso e i loro beni erano esenti da certe tasse e godevano di certi privilegi) e in secondo luogo con degli interventi di qualche autorità politica o religiosa estera.

La pace di Kutsciuk-Kainargi (1774) confermò il diritto della Russia di proteggere i cristiani nei paesi balcanici sotto il dominio turco. Per quanto riguardava i principati romeni, lo zar aveva chiesto alla Sublime Porta di non impedire la costruzione o la riparazione delle chiese, di rispettare i missionari e di dar ascolto alle richieste dei rappresentanti russi a Costantinopoli a favore dei romeni. Nella sua politica religiosa, la Russia aveva dei motivi per interessarsi dei cristiani balcanici. Per quanto riguardava i cattolici di rito orientale, per esempio gli ucraini uniti con Roma nel 1595 a Brest-Litovsk, essa intendeva di farli rientrare nella grande Chiesa ortodossa, della quale lo zar intendeva essere il capo supremo. Dopo le spartizioni della Polonia del 1793 e 1795, a causa delle quali una grande massa di cattolici di rito sia orientale che latino entrano a far parte del grande impero russo, Mosca è più che interessata ad avere strette relazioni con la Chiesa cattolica e per questo motivo accettò un nunzio alla sua corte. Per l'esiguo gruppo di cattolici in Moldavia e per il loro vescovato, rimaneva l'autorità del console di Iasi, come rappresentante di un potere che, politicamente e militarmente, valeva, nel contesto europeo, di più che non la Polonia, stancata da tante guerre e divisa tragicamente tra Occidente e Oriente, tra la Prussia e la Russia. Addirittura, considerandosi l'erede dei privilegi dei re polacchi per i cattolici moldavi, la Russia rivendicava anche il diritto di nomina dei vescovi di Bacau, diritto al quale aspirava anche l'Austria, perché potenza cattolica, e, in più, perché nel 1775 si era annesso la parte superiore della Moldavia, la Bucovina.

Occupata nello stesso anno dall'Austria, i cattolici ivi presenti passarono dalla giurisdizione del vescovo di Bacau, sotto la giurisdizione di quello di Vienna e poi, sotto l'arcivescovato di Lwów, con un decanato a Cernauti. Per rafforzare i legami con Lwów e con l'Austria, nel 1781, Vienna proibì qualsiasi relazione della Bucovina con la Moldavia. Pensando che la vicina Austria avesse qualche interesse anche per i cattolici rimasti nella parte libera della Moldavia, nel 1780 il prefetto Martinotti si era recato a Vienna per intervenire presso il nunzio perché si facesse qualche passo presso la Sublime Porta per ottenere il fermano per la costruzione della chiesa di pietra a Iasi. Ma la corte viennese non si mosse, perché considerava questa parte della Moldavia sotto la speciale protezione della corona polacca, malgrado de facto in Moldavia comandassero i russi. Per i cattolici moldavi, non è difficile capire che nel contesto generale, i consoli e gli agenti diplomatici delle rispettive potenze europee menzionate (negli ultimi due decenni del secolo furono aperti a Bucuresti e Iasi i consolati della Russia, dell'Austria, della Prussia, della Francia e dell'Inghilterra) si interessavano di loro solo per motivi politici, facendo solo quegli sforzi e solo in quei momenti che corrispondevano ai loro interessi.

Per il fatto che l'impero ottomano

Vedi il documento XIII, nr. 25. era già entrato in un declino inesorabile, le grandi potenze pensavano di dividerselo tra di loro, i principati romeni inclusi; oppure, in un'altra variante, pensavano se fosse più conveniente, di unire i principati romeni e di ripristinare l'impero greco-bizantino, ma avendo come capo uno dei figli di Caterina II. Così, l'egemonia della terza Roma, Mosca, si sarebbe imposta sulla seconda Roma, togliendo dalla capitale del Bosforo le bandiere con la mezzaluna e formando un commonwealth ortodosso dal Baltico al Mar Egeo.

In quellepoca era un dato di fatto che la Russia rappresentava nell'est il primo potere; e siccome la Moldavia le era confinante, per i cristiani, ortodossi e cattolici, non rimaneva altra alternativa che di accettare la sua protezione. Nel 1787, la Russia e lAustria dichiararono guerra al grande nemico, la Turchia, e per quattro anni occuparono la Moldavia. Tenendo conto del contesto generale, Pio VI chiese alla zarina Caterina II di prendere sotto la sua protezione i cattolici di Moldavia; per di più, siccome a Iasi, il prefetto Rocchi era in buone relazioni con il comandante generale dell'esercito russo in Moldavia, Potemkin, questi si prese cura tanto dei missionari, quanto della chiesa cattolica della città, contribuendo alla sua costruzione e dottandola di paramenti sacri. Tanto il papa, quanto la Propaganda, lo ringraziarono per il suo gesto e speravano che nel trattato di pace che sarebbe stato firmato sarebbe introdotta de jure la protezione russa sui cattolici dei principati romeni.

Questo avvenne nel 1792, quando a Iasi viene firmato il trattato con il quale la Sublime Porta riconosce la protezione della Russia su tutti i cristiani. Nellaprile dello stesso anno, Pio VI scrisse a Caterina e ai suoi rappresentanti, ringraziandoli per i loro interventi e raccomandando alla loro protezione Rocchi e i cattolici della Moldavia. Questo tuttavia non significava che la Russia, de jure, sarebbe diventata la protettrice dei cattolici nei principati romeni. Nonostante in base al trattato del 1792 fosse stato riconosciuto il suo ruolo di protettore per tutti i cristiani dimoranti nellimpero ottomano, de facto la protezione andava a pari passi con i suoi interessi politici. Comunque, a Iasi, il prefetto Rocchi riponeva grandi speranze nella protezione russa, per il fatto che era in buone relazioni con il generale Potemkin

APF, Fondo di Vienna, v 31, f 173. e che per il momento i russi erano molto forti in Moldavia, malgrado la provincia rimanesse sotto la dominazione ottomana. Al congresso di pace tenutosi a Iasi nel 1792, partecipò anche Rocchi e davanti ai rappresentanti occidentali di Vienna e Berlino, Rocchi mise tutto il suo talento per difendere la causa dei suoi cattolici, malgrado i turchi si fossero obbligati a Belgrado nel 1739 di rispettare i loro diritti.

I suoi buoni rapporti con le autorità locali e con i rappresentanti russi favorirono il mantenimento dei privilegi che i prìncipi avevano concesso ai cattolici, per le loro chiese e per i beni della missione. Ai cattolici era riconosciuta la libertà di culto; i beni della missione erano esenti dalle tasse ed era garantita l'integrità e l'inviolabilità delle proprietà del vescovo a Trebes, proprietà che in grande parte era stata occupata dal boiaro Ruset, senza essere mai restituita totalmente; ma tutti questi privilegi, come abbiamo già detto, dovevano essere rinnovati ogni volta che saliva al trono un nuovo principe.

La protezione de facto della Russia dispiaceva all'Austria che, per gli stessi motivi, voleva la missione moldava sotto la sua protezione. Però, dobbiamo aggiungere il fatto che lAustria rappresentava una potenza cattolica e poi, il suo influsso culturale ed economico, oltre a quello politico, era sempre crescente, di meno in Moldavia, e di più oltre le sue frontiere, i Carpazi, come anche nella Bucovina, adesso parte integrante del suo impero.

La Russia tuttavia conservava il suo predominio nella capitale moldava, e il governo locale accettava le sue iniziative sia in campo civile, come anche in quello ecclesiastico e nel 1798, il prefetto Sassano scrisse al cardinale Borgia pregando di intervenire presso il nunzio Litta a San Pietroburgo perché questi intercedesse presso la corte russa a favore della missione moldava. Il nunzio fece tutto quello che dipendeva da lui a favore dei cattolici moldavi, ma tutto si bloccò con la morte a Iasi del conte russo Severin, un grande amico e protettore della missione.

Le speranze in una protezione russa svanirono con l'assassinio dello zar Paolo I, simpatizzante dei cattolici per vari motivi, se non personali, almeno politici, e da quel momento in poi i prefetti e i missionari cercheranno sempre di più l'appoggio dei principi e delle autorità politiche locali, anche esse disposte ad allacciare dei contatti con i cattolici e con la grande potenza cattolica, l'Austria. Da adesso in poi, data anche la crescente apertura culturale e politica della Moldavia verso l'Occidente, la missione dei francescani conventuali cercherà un appoggio presso la corte cattolica di Vienna e non più presso la Russia, che col tempo diventerà più ostile verso la Chiesa Cattolica.

 

4.4.2 Le relazioni con i principi locali

Per quanto riguarda le relazioni con i principi, i prefetti non hanno mai avuto dei grossi problemi con loro e, sempre nelle loro relazioni mandate alla Propaganda, essi affermavano che nel paese il culto è libero. I prìncipi di questo secolo, per ragioni politiche hanno serbato sempre una politica favorevole ai cattolici. Però non potevano mostrarsi troppo favorevoli o addirittura simpatizzanti per la religione cattolica, anche se interiormente lo avessero voluto, perché in questo modo avrebbero perso lappoggio del clero e la simpatia del popolo e ciò significava perdere il trono. Questa politica chiamiamola così "neutrale" verso i cattolici, come anche verso i calvinisti e luterani, i prìncipi la dovevano seguire anche perché così aveva deciso parecchie volte la Sublime Porta che, soprattutto nei primi decenni del secolo dovette seguire le capitolazioni firmate con la Polonia. Varie volte sono stati spediti da Istanbul vari fermani che ordinavano ai principi e alle principali autorità del paese di non molestare in alcun modo i cattolici. Abbiamo così i fermani inviati ad Antioco Cantemir nel 1699, a Nicola Mavrocordat nel 1713 e due fermani a Gregorio II Ghica (1732 e 1741).

Quando arrivavano nella missione, i prefetti dovevano prima di tutto presentarsi al principe per spiegare il motivo della loro presenza in Moldavia e l'incarico che avevano ricevuto dalla Propaganda, chiedendo inoltre la benevolenza e la protezione del principe e dei boiari per la missione cattolica. Se qualcuno trascurava o ritardava a compiere questo protocollo già da secoli in uso, come successe con Gatt, nel 1799, il fatto poteva essere interpretato dal principe e dalla corte come offensivo. Inoltre, ogni anno, per la festa dell'Epifania, i prefetti in abiti liturgici, con la croce e l'acqua benedetta in mano dovevano presentarsi al principe insieme alle alte autorità ortodosse della capitale per salutarlo e portargli il dovuto omaggio, riconoscendolo così come la prima autorità nel paese, nonostante che sopra di lui, ma tanto lontano, stesse il capo dei capi, cioè il sultano. Il principe baciava la croce, tanto quella presentatagli dal metropolita, come pure quella presentata dal prefetto e poi prometteva di rispettare le libertà, i privilegi e i diritti di ciascuna religione, cioè degli ortodossi e della minoranza cattolica.

Per affrontare i problemi della missione, spesso i prefetti ricorrevano all'aiuto dei principi. In richiesta dei prefetti, spesso, questi esentavano la loro missione di Iasi, come pure la mensa vescovile di Trebes ed i missionari dalle tasse e da altri tributi che normalmente la gente doveva pagare. Esenzioni dalle tasse per i missionari, per i loro beni come pure per le poche persone che lavoravano per loro a Iasi, oppure per i terreni della mensa vescovile di Trebes ne abbiamo parecchie. Nel 1700, Costantino Duca esentò Zavoli dalle suddette tasse e nel 1711 Costantino Cantemir rinnovò lesenzione. Nel 1748, invece, il missionario Giovanni Battista Vannucci afferma che da otto anni i principi avevano abolito i privilegi delle chiese cattoliche. Malgrado ciò, la sua affermazione ci sembra errata in quanto due anni prima Giovanni Mavrocordat aveva confermato i privilegi alla missione di Iasi. Inoltre, dopo di lui varie volte i principi avevano riconfermato i privilegi alla chiesa di Iasi, consistenti nel poter tenere in servizio alcune persone per le quali non si pagava il tributo e ancora, si accordava un'esenzione delle tasse sulle due vigne, che costituivano l'entrata principale per la missione. Oltre questo, venivano esenti dalle tasse per i cavalli (vacarit) e per la loro casa (fumarit). Conosciamo i seguenti principi che confermarono i privilegi: Gregorio Ghica nel 1740 e 1741, Costantino Racovita nel 1750 e 1756; Matteo Ghica nel 1753; Scarlat Ghica nel 1757; Giovanni Calimachi nel 1758; Gregorio Calimachi nel 1762; Gregorio Ghica nel 1764; Alessandro Mavrocordat nel 1784.

Ma non solo i conventuali godevano di queste esenzioni. Anche i gesuiti erano esenti dalle tasse e varie gabelle. Allinizio del secolo, nel 1701, il principe Costantino Duca gli esentava dalle imposte sui apiari e sui maiali e dalle tasse sul vino. Inoltre, per mezzo dei loro connazionali polacchi alla corte, essi riuscirono ad avere altri privilegi ed esenzioni per il loro bestiame e per la loro residenza. In più, per la loro scuola, i gesuiti hanno ricevuto parecchie volte dai boiari della capitale vari doni ed elemosine, essendo la loro scuola molto apprezzata e alla quale i boiari mandavano i loro figli.

Presso la corte, quasi sempre, i principi avevano un segretario cattolico, tanto per favorire le relazioni con i paesi cattolici, come anche a motivo che questi segretari sapevano, oltre il latino, più lingue straniere, caso che era di grande aiuto per il principe e la sua corte e tramite questi segretari i prefetti potevano ottenere "qualche solievo" per la loro missione, scrive il missionario Frontali nel 1764.

All'inizio del secolo, mentre funzionava ancora la scuola dei gesuiti a Iasi, tanto i principi (Antioco Cantemir, Michele Racovita, Nicola Mavrocordat), come anche i boiari, a differenza dell'alto clero della capitale, si mostrarono molto favorevoli verso di loro, come pure verso i cattolici in genere. Il loro atteggiamento positivo si rivelava sia nel mandare i loro figli alla scuola dei padri, essendo questa una minuscola oasi di cultura occidentale (si studiava il latino ed altri elementi di cultura classica e rinascimentale), sia nel fare delle offerte. Un atteggiamento positivo verso i gesuiti lo mantenne anche Costantino Mavrocordat, che regnò per la prima volta in Moldavia tra il 1733 e il 1735. Mandando degli aiuti ai gesuiti polacchi presenti in varie città del sud della Polonia, il principe voleva in contraccambio delle informazioni su quello che accadeva in Occidente.

Senza interferire in nessun modo nei problemi interni della missione, i prìncipi volevano come prefetti delle persone che conoscessero la lingua del paese e che fossero ben orientati nel contesto locale. Così si comportò nel 1729 il giovane principe Gregorio Ghica con il nuovo prefetto Cardi, un missionario che aveva già lavorato per 12 anni in Moldavia e conosceva benissimo la lingua romena e la vita del popolo. Ghica "specificò che così doveva essere cioè che dovevasi veramente eleggere successore un prattico della Patria a fine che non li generasse confusioni, o altro, chiuse li suoi sentimenti con promettere ogni prottetione". Un "prattico della Patria" lo vuole nel 1740 lo stesso Gregorio Ghica, di nuovo regnante. In una lettera alla Propaganda egli vuole Manzi, lodando le sue conoscenze per le lingue romena e ungherese, il suo zelo pastorale, la condotta esemplare e il fatto che aveva costruito già sette chiese nella missione. In più, lo voleva tutta la comunità di Iasi, ma non lo voleva la Propaganda, che nominò invece come prefetto Giacinto Lisa.

Un caso simile lo riscontriamo nel 1766, quando venne mandato prefetto per la seconda volta Di Giovanni, amico del principe Gregorio Calimachi, che però, arrivato a Iasi alla fine di novembre 1767 incontrò l'opposizione del segretario Nagni e dell'alto clero ortodosso. La Propaganda, analizzando il caso, considerò che non cerano motivi validi per non inviare Crisostomo e così rimase ferma sulla sua decisione, non tenendo conto del volere arbitrario di Nagni, che era riuscito a conquistarsi anche il principe. Ma a causa dell'opposizione dei boiari della corte e del metropolita, Di Giovanni sarà portato a Costantinopoli e qui carcerato all'inizio dell'anno 1768. Però, nel suo caso non si può dire che la sua carcerazione sia stata voluta dal principe giacché di fronte alla decisione del sultano di carcerare il prefetto, il principe non poteva far nulla.

Normalmente, per avere delle buone relazioni all'estero, essi evitavano qualsiasi conflitto con i "rappresentanti" di alte potenze, nel nostro caso con una persona cattolica di una certa importanza. Così accade nel 1735, quando il metropolita mise in carcere il prefetto Cardi e il missionario Manzi. Durante la notte, essi furono subito liberati per ordine del principe Ghica e il giorno seguente il principe ordinò al metropolita di chiedere perdono ai missionari.

Tornando al caso Di Giovanni, possiamo dire che è tipico ed sottolinea la volontà decisa della Propaganda di essere libera nella nomina dei suoi missionari, specialmente di quelli con incarichi importanti e di non seguire i criteri della politica laica, malgrado nel nostro caso non si trovasse altro che la volontà del segretario e del principe di rifiutare una determinata persona come prefetto. È molto probabile che essi si siano sentiti offesi nel senso del loro potere di decidere in tutto e per tutti e che abbiano avuto l'impressione che la loro autorità fosse stata compromessa con una decisione della Propaganda che non concordava con la loro. Anche nel passato si erano verificati episodi simili, quando le autorità locali volevano una persona e la Propaganda decideva per un'altra. Non si trattava quindi di un capriccio, ma di conservare la libertà della Chiesa nella nomina dei vescovi, prefetti ed altri ecclesiastici con incarichi importanti. Contrasti tra Roma e i principi moldavi si erano verificati nel caso di Bandulovi, nel secolo precedente, e Manzi, nel 1745.

Nella Moldavia, però, come abbiamo potuto osservare, le tensioni tra i principi ed i prefetti e la loro missione, rappresentano delle eccezioni assai rare. Verso la fine del secolo, il prefetto Rocchi era in buoni rapporti con le autorità moldave, come pure con il principe Ipsilanti, e dopo di lui, all'inizio del XIXo secolo, non si conoscono tensioni tra i principi e i prefetti; si verifica invece l'opposizione delle autorità ortodosse e delle autorità politiche filofanariote della capitale, e il principe personalmente non è estraneo a questo orientamento politico-religioso, di accettare nel paese un nuovo vescovo di Bacau; così successe con i vescovi Carenzi e poi con Berardi, nel periodo tra il 1808 e il 1818.

 

4.5 I rapporti con gli ortodossi

 

Pensiamo che sia più conveniente ed ecumenico allo stesso tempo non insistere troppo su questargomento. Ciò non significa che ignoreremo i principali aspetti di questo tema riscontrati nei documenti. Iniziamo questargomento delicato presentando prima alcuni aspetti riguardanti i rapporti dei missionari con il clero ortodosso, come anche le idee che i conventuali avevano su questo clero, sul suo comportamento e sulla sua preparazione teologica. In secondo luogo verranno presentati i rapporti tra i fedeli delle due confessioni.

 

4.5.1 Le relazioni tra i missionari e il clero ortodosso

Per quanto riguarda la libertà di culto, già lo abbiamo affermato prima il fatto che la politica della Sublime Porta e quella dei prìncipi moldavi era impostata sulla tolleranza religiosa, in base a dei trattati e accordi firmati tra le varie potenze europee e la stessa Sublime Porta. È anche nostro dovere aggiungere che i missionari conventuali, pochi e indifesi, pastori di una minoranza cattolica "sperduta in mezzo al più saldo e ben radicato ortodossismo", stavano ben attenti a non offendere in alcun modo nè i fedeli, nè il clero ortodosso, malgrado nei documenti si sfogassero e mostrassero i loro sentimenti verso i "popi", i loro vescovi e verso il metropolita, sentimenti che non possiamo chiamare di ripulsione, oppure di odio religioso, ma piuttosto di intolleranza religiosa propria del tempo e di camuffato disprezzo per quanto riguarda il bassissimo livello di preparazione teologica dei clerici ortodossi, sia di quelli che stavano nelle parrocchie, come anche dei monaci.

Nonostante la cura pastorale dei missionari fosse rivolta solo ai loro fedeli cattolici (almeno per quanto riguarda la Moldavia), il clero ortodosso aveva paura che i missionari cattolici convertissero alla loro fede delle pecorelle appartenenti alla grande ortodossia. In questo senso, nel settembre 1722 la Porta ottomana aveva emanato un "firman" con il quale, dando via libera alle lagnanze del clero ortodosso, veniva proibito ai cristiani dell'Impero ottomano di convertirsi al cattolicesimo; ai religiosi, lo stesso fermano vietava di avere alcuna relazione con tutti i cristiani non cattolici. Siccome sotto la prefettura di Cardi, le sue relazioni con le alte autorità ortodosse della capitale non erano del tutto positive, nel 1733 questi aveva chiesto allambasciatore francese a Costantinopoli che gli facesse avere dalla Sublime Porta un "berat" (decreto di autorizzazione alle missioni) che gli garantisse la libertà nellattività pastorale e lintegrità della sua persona e della missione di Iasi.

La richiesta di Cardi trova una spiegazione nei suoi rapporti tesi con il metropolita della capitale, Antonio, "un giovanestro quasi senza raggione ed ignorante", come lo presenta Cardi, che nel 1733 pensava di scacciare i religiosi e di convertire la gente cattolica all'ortodossia. Però, il prefetto intervenne presso il principe, e non se ne fece nulla. Due anni dopo, prima della Pasqua, Cardi mandò a Galati il missionario Francesco Antonio Manzi, che doveva tornare nella capitale durante la settimana santa per liberare Cardi; dopo che fu "barbaramente batuto" per ordine del metropolita, fu messo in carcere. Ma pure Manzi e rinchiuso in carcere e legato insieme col suo compagno "per il collo ad una cattena grossissima, della q-le poi venissimo liberati nella notte susseguente dal Pn-pe", principe che poi obbliga il metropolita a chiedere perdono ai missionari. Nell'avvenire, decide il principe, se ci saranno ancora conflitti tra i cattolici ed ortodossi, questi devono essere risolti davanti a lui. Siccome Cardi era in conflitto aperto con i gesuiti polacchi di Iasi, pensò che questi fossero colpevoli dell'accaduto. Se loro non avessero ostacolato i suoi sforzi per conquistare il protettorato francese, il metropolita non avrebbe osato di molestare così gravemente i missionari.

Unaltro caso di conflitto aperto tra i missionari ed il clero della capitale (questa volta entra in gioco anche il divano, cioè i boiari della corte) si ripete solo allinizio del 1768, quando il prefetto Di Giovanni, a causa degli intrighi di quelli sopra nominati, è catturato e poi portato a Costantinopoli dove per ordine del sultano venne carcerato.

Nei documenti, più spesso viene menzionato però il conflitto, possiamo chiamarlo secolare, tra la missione dei conventuali e i loro vicini, i monaci di "Trei Ierarhi". Questi non potevano sopportare che i padri tenessero le loro due botteghe sulla strada che era sul loro terreno (cioè dei francescani), però confinava con il muro del loro monastero. I monaci avrebbero voluto impossesarsi della strada, ma siccome era sempre stata della missione cattolica, non ne avevano i documenti necessari. Questo non impediva loro di rivolgersi al principe e al divano, nella speranza di un possibile successo.

In una lettera del 1775, il missionario Minotto parla dell'"iniquità di questi Greci, e l'odio insieme verso di noi" e racconta come in disprezzo verso i cattolici, un monaco "aveva fato la betola vicino alla Chiesa", ma il missionario con parole alquanto dure la fece demolire e ricostruire lontano dalla chiesa. Tre anni più tardi, sotto la prefettura di Martinotti, i monaci continuano ad avanzare pretese di proprietà sul terreno. Martinotti tiene duro, ma siccome la sua resistenza è vana, decide "di ceder la piazza, e lasciarli agir a loro piacimento".

Ma dopo di lui, nel 1793, il prefetto Rocchi pensa che non è giusto darsi per vinto e nellagosto di questanno, per una settimana intera "gira la città, dal Divano al Prencipe, al Sig. Secretario" per difendere la sua causa

APF, Fondo di Vienna, v 31, f 313.. All'inizio dell'anno seguente, Rocchi parlerà di nuovo del conflitto con i monaci. Volendo rinnovare le botteghe, trova la stessa ostinata opposizione dei monaci, i quali, come al solito, chiedono l'aiuto del principe e dei boiari. Il principe, abbastanza neutrale in questa faccenda, cercò di accontentare le parti, ma siccome i monaci insistevano per vincere la causa, egli perse un po la pazienza e promise al prefetto che avrebbe cercato di chiudere una volta per sempre questa faccenda. Poco dopo, il prefetto riuscì a "vincere la partita" con i suoi vicini e poté rifare in santa pace la strada e le sue botteghe, dalle quali ricavava qualche soldino con la vendita del vino. Ma tutto questo fino ad un nuovo conflitto aperto con i monaci.

Nelle loro relazioni alla Propaganda, oppure in qualche lettera, i conventuali ci informano anche sullorganizzazione ecclesiastica ortodossa locale, sulla vita del clero regolare e dei monaci, sui loro costumi e sulla loro preparazione teologica.

Nella sua relazione sullo stato della missione del 1745, il missionario Ausilia vorrebbe che i missionari ricevessero dal sultano un fermano che permettesse loro di predicare anche agli ortodossi, questo anche perché i loro sacerdoti ("diabolici Parochi") sono di una "crassa ignoranza, e mai è solito per lor di predicare nelle sue chiese, per mancanza della quale q-ti Popoli scismatici non sanno altre devozioni, che solamente segnarsi allo sproposito con longa differenza di quelli degli Cattolici il segno della S-a Croce". Per questi sacerdoti ("Popi"), Ausilia ha ancora da dire un altra cosa che ci risulta difficile da credere: "Havendo in q-to anno per la loro ignoranza perche nulla ci spiegano, per la grandissima infirmità che hanno havute li bovi, e vache &e dato a mangiare il Ss-mo Sagramento dell'Altare alle med-me"( ff 351-352). Dalle sue parole abbastanza dure sul clero ortodosso, si può dedurre con facilità che tra i missionari ed il clero locale ortodosso non esisteva alcun contatto positivo; in più, il clero ortodosso, nella visione di Ausilia, è colpevole per la "crassa ignoranza" religiosa dei suoi fedeli, perché non istruisce il popolo con delle prediche e con l'insegnamento catechistico.

Nelle lettere dei missionari possiamo trovare altri dettagli su questargomento, ma pensiamo che questi non portano niente di nuovo ed importante, per cui passiamo alle relazioni scritte da Di Giovanni e Frontali. Oltre a nominare le differenze di fede tra cattolici e ortodossi, il prefetto Di Giovanni, nel 1762, e lex missionario Frontali, due anni dopo, ci forniscono dettagli sulla gerarchia locale, sulle modalità di salire i gradini ecclesiastici, sul modo di vivere la loro fede, ecc.

Le autorità ortodosse principali, afferma Di Giovanni, sono il metropolita di Iasi e i vescovi di Roman, Husi e Radauti e due vescovi "in partibus". Rispetto al numero dei sacerdoti ortodossi, che vivono in "un'ignoranza inesplicabile" e alle loro chiese e monasteri, questi "sono quasi innumerabili, p-che non vi e angolo in Moldavia, in cui non si veda Chiesa, abbazia, ò monastero, e ciò p-che vivono impressionati che chi copre una Chiesa certam-te si salverà, chi poi ne fabrichera una intieram-te sarà infallibil-te assoluto e dalla pena, e dalla colpa, onde alla giornata da p. tutto fabricano Chiese e fanno Preti".

Frontali ci fornisce altri dettagli sul clero ortodosso. Per la sua nomina, il metropolita deve pagare al principe 60 borse e una borsa consisteva in una cifra fino a 280 scudi. Per avere questi soldi, i metropoliti li prendono in prestito, oppure hanno già raccolto il denaro in qualità di abate di qualche monastero. I tre vescovi di Roman, Radauti e Husi pagano (al principe) per la loro consacrazione, così come pagano anche i diaconi e i preti (ai vescovi). Poi, tutti hanno le loro entrate, i vescovi di più, i sacerdoti di meno.

Ci sono poi i monaci e i loro monasteri, quasi tutti in montagna. Le nomine per gli abati spettano ai patriarchi di Costantinopoli o di Gerusalemme, oppure al Santo Monte Athos; altri dipendono direttamente dai loro fondatori in Moldavia. Però, nessuno non può salire su un tale gradino, se non è gradito al principe e ogni anno deve pagare al estero, come anche al principe, in proporzione alle entrate. I monasteri hanno i loro villaggi, terreni e altri beni (bestiami, apiari, laghi, vigne, ecc.), nei quali lavorano i monaci, che "si fanno Monaci per non pagare il tributo". Qui celebrano di solito i preti sposati, perché sono pochi i monaci che ricevono il sacerdozio e quando un monaco cade in "qualche misfatto", gli radono la barba e lo espellano dal monastero, così che deve pagare il tributo.

Hanno molti tempi di digiuno, con astinenza della carne, e molti li rispettano con scrupolosità, in tal modo che se qualcuno "si trova amalato, più tosto vol crepare che trasgredire alle sue Quaresime". Per quanto riguarda la preparazione teologica, moltissimi, monaci e preti, vivono in una ignoranza crassa, ma, per esempio i preti, non possono fare altrimenti a causa del lavoro che li prende totalmente per poter mantenere la famiglia, e dei tributi che devono pagare al vescovo.

In breve, queste sono le principali idee che i documenti ci forniscono sui rapporti tra i missionari conventuali e il clero ortodosso, su come veniva visto e considerato un chierico ortodosso da un cattolico, cioè in una luce non troppo positiva. Non spetta a noi di dire se quello che pensavano i missionari sulla vita e sulla preparazione teologica del clero ortodosso era vero o no. Ci limitiamo solo ad affermare che comunque sia stata la situazione dei clerici ortodossi, le affermazioni dei cattolici soffrono un po di quella intolleranza religiosa caratteristica del tempo. Dal punto di vista politico e in pubblico, come abbiamo potuto osservare facilmente, in Moldavia regnava la tolleranza religiosa, voluta dalla Porta e dai prìncipi locali (tutti essendo costretti dalle potenze occidentali a rispettare vari patti ed accordi internazionali), malgrado di nascosto un cattolico non vedesse di buon occhio un ortodosso e viceversa.

 

4.5.2 Le relazioni tra i fedeli cattolici e quelli ortodossi

Come lo abbiamo fatto per i clerici, così anche per quanto riguardano i rapporti tra i fedeli delle due confessioni, la nostra esposizione si limiterà a quello che ci dicono i documenti e non abbiamo lintenzione di andare oltre questi limiti.

Come le afferma Di Giovanni nella sua relazione del 1762, già dai tempi del principe Basilio Lupu (1634-1653), molti villaggi dei cattolici furono affidati ai monasteri ortodossi. Però, siccome i cattolici sopportavano difficilmente il giogo di questi monasteri, col tempo sono andati altrove, in cerca di padroni che abbiano la loro stessa fede. Si intravede così che sotto laspetto puramente religioso, i rapporti tra la gente cattolica ed il clero ortodosso non furono facili, come non lo erano neanche nel periodo di cui ci occupiamo adesso.

Le autorità ortodosse erano molto intransigenti e non permettevano che un ortodosso cambiasse fede, cioè che diventasse cattolico e vietavano severamente ai missionari di fare proselitismo tra i loro fedeli. Ma da parte loro, in quanto religione maggioritaria, accettavano la conversione di un cattolico, casi che succedevano soprattutto con i matrimoni tra le persone delle due religioni. Nel 1745, Ausilia afferma di aver protestato davanti al metropolita per questo fatto, ma senza alcun risultato. Anzi, al missionario viene ricordato che siccome nei paesi cattolici, non viene permesso ad un cattolico di diventare ortodosso, nello stesso modo fanno anche le autorità religiose ortodosse, cioè non permettono ai loro fedeli di diventare cattolici e se una persona cattolica sposa una ortodossa, allora deve diventare per forza ortodossa. In breve, le autorità ortodosse seguono lesempio di quello che fanno i cattolici nei loro territori.

Le autorità del paese: principe, metropolita, vescovi ed altri ministri, permettono il libero esercizio della religione, "ma solamente ai Cattolici, Calvini, e Luterani, non già a Pagani e Greci Schismatici". Se un ortodosso avesse accettato il cattolicesimo, avrebbe dovuto lasciare la Moldavia e cercare rifugio in Ungheria, oppure in Polonia, "perche appena sarà scoperto [le autorità religiose soprattutto, n.n.] gli fanno mille strapazzi, si carcera, si batte, si da pena pecuniaria, se pure finamente non lo somergon in Fiume". E anche il missionario che ha osato di convertire un ortodosso viene perseguitato: "l'aggravano di soluz-ne di dennaro, lo catturano publicamente, lo percuotono lo pongon in cattena nelle publiche carceri". Si osserva facilmente che la libertà di coscienza, la libertà religiosa, sono cose del tutto estranee al clero ortodosso ed anche ai grandi del paese. Ma, dallaltra parte, come abbiamo notato, anche il metropolita di Iasi aveva le sue ragioni parlando dei cattolici.

Siccome le autorità ortodosse sono ostili ai cattolici e prendono delle misure molto dure contro gli ortodossi che volessero passare al cattolicesimo, il missionario avrebbe voluto che la Propaganda fosse intervenuta presso la Sublime Porta per un fermano che avesse decretato la libertà di un credente di passare alla fede cattolica. In segreto, i missionari hanno già acetato alcuni ortodossi nella fede cattolica. Per il progresso della fede e perché i cattolici non rimanessero "come le pecore in bocha de Lupi", Ausilia chiede che siano mandati altri due missionari, e che a tutti i missionari siano concessi quei poteri che permettessero loro di "castigar le sudete [anime n.n.] nelle sole trasgressioni di coscienza, perche le cause del Foro non spettano a noi", ma al vescovo di Bacau.

Nel 1764, Frontali ci da altre informazioni su questargomento, che confermano quelle di Ausilia e in più ci offre altri dettagli di non poca importanza. Per quanto riguarda la loro fede, i cattolici latini si tengono lontani dagli ortodossi, e reciprocamente si considerano scismatici. I missionari non possono convertire degli ortodossi, perché questi hanno la religione dominante e spesso non solo che non lasciano in pace i cattolici, ma li combattono o li costringono a cercare altri posti, come è successo da poco tempo in Valacchia, dove i cattolici di Craiova sono stati costretti ad immigrare in Moldavia. Se una ragazza cattolica vuole sposare un ortodosso, deve cambiare fede. E se un ortodosso vuol farsi cattolico, deve andare in un paese cattolico, in Polonia oppure in Transilvania; oppure la cosa deve restare nel segreto più assoluto finchè non muoiono i suoi genitori.

Più tardi, nel 1795, ci viene presentato un caso di matrimonio tra una cattolica e un ortodosso, che, col matrimonio, ha accettato la fede cattolica. A Cleja, il padre Castellani ha sposato una sua parrocchiana con un ortodosso. Ma il caso suscita tanto scandalo tra gli ortodossi che arriva alle orecchie del vescovo di Roman, che ordina immediatamente lo scioglimento del matrimonio. Il prefetto Rocchi, assieme al missionario Castellani devono comparire davanti al tribunale del vescovo, dove viene pronunciata la sentenza: un tale matrimonio è contro tutte le leggi dell'ortodossia, per cui è invalido. Per non mettersi contro le autorità ortodosse indignate a causa di un tale gravissimo caso, il prefetto "accomoda l'affare", cioè un po tremante implora la pace e il perdono per l'imprudenza del suo missionario.

Nel 1799, Sassano ci dice che "ai cattolici è libero l'esercizione della Religione, non vien permesso però di accettar i Greci al nostro rito e fede". A Grozesti, prima della prefettura di Rocchi (1784-1795), arrivò dalle zone sicule transilvane un cattolico, la cui moglie egli non può dimostrare se è ancora viva o morta. Siccome egli vuole sposare un'altra donna e non può portare l'attestato di libero stato, il missionario rifiuta di unirli in matrimonio. Allora il cattolico si rivolge al pope, che lo ribattezza e poi lo ricongiunge in matrimonio. Adesso (siamo all'inizio del 1795), saputo il caso, il prefetto si rivolge sdegnato al principe, non potendo accettare in nessun modo la mentalità ortodossa secondo la quale il battesimo dei cattolici non è un vero battesimo; insomma, pensa il missionario, per gli ortodossi i cattolici non sono forse neanche dei cristiani, in quanto non viene riconosciuto il loro battesimo. Il principe è dalla parte del prefetto e da ordine in tutta la Moldavia "che nessuno ardisse di battezzare Cattolici in avvenire sotto pena di raderci la Barba". Per questa sua decisione, Rocchi lo ringrazia personalmente.

Come si è potuto facilmente osservare, tra cattolici e ortodossi nascevano contrasti nella maggioranza dei casi a causa dei matrimoni, quando lautorità ortodossa poneva la condizione alla parte cattolica di convertirsi allortodossia. Oltre a questo aspetto, i missionari mettono in guardia i loro fedeli a stare attenti a non "contaminarsi" con le superstizioni, le usanze e le credenze poco cristiane dei loro vicini ortodossi. Di aspetti del genere ne abbiamo già presentati, parlando della vita di fede della gente cattolica.

Se è vero che i cattolici, rappresentando una minoranza in mezzo ad una massa ortodossa, ammoniti spesso dai loro pastori, conservavano delle distanze ragguardevoli verso i loro confratelli ortodossi (però, allora, lunico termine usato dai missionari per nominare un ortodosso era "scismatico"), le comuni condizioni di vita, come per esempio essere sotto il dominio dello stesso boiaro e lavorare gli stessi pezzi di terra, gli scambi commerciali, abitare negli stessi villaggi, i matrimoni tra cattolici e ortodossi, ecc. influivano sulla loro fede e sui loro costumi. Questo non vuol dire tuttavia che tutte le superstizioni, la mentalità, le usanze e le abitudini dei cattolici provenissero solo dagli ortodossi; più concretamente, non dobbiamo considerare i cattolici moldavi come delle vittime innocenti degli ortodossi, o almeno non dobbiamo considerare largomento solo sotto il punto di vista religioso.

Nella vita quotidiana di tutti e due i gruppi religiosi cerano tante mentalità ed abitudini ancestrali (il folclore) dove la religione non centrava per niente. Poi, lanalfabetismo, la vita dura di tutti, cattolici e ortodossi, la mancanza di qualsiasi mezzo di formazione culturale, le guerre e le frequenti scorrerie, soprattutto dei tartari, la terra che produceva poco, le pesanti tasse ed imposte che si dovevano pagare, ecco altri fattori che devono essere presi in considerazione quando si parla della vita dei cattolici e dei loro rapporti con gli ortodossi.

Se è vero poi che il clero ortodosso non godeva di una sufficiente preparazione teologica, per cui non era in grado di offrire al suo gregge un nutrimento spirituale tale da far sparire certe superstizioni ed altre cose del genere, è altrettanto vero che ai pochi missionari cattolici mancavano il tempo sufficiente ed anche i mezzi assolutamente necessari (pensiamo ai catechismi, le missioni popolari, ecc.) per una pastorale organizzata e sistematica in grado di corrispondere alle esigenze dei fedeli.

E ci permettiamo unultima osservazione: Se i cattolici hanno ereditato tante cose dagli ortodossi, questo significa anche che non vivevano come chiusi in un ghetto, ma che dal punto di vista umano, sociale, malgrado dagli ortodossi venissero chiamati "ungari", cioè cattolici arrivati dalla Transilvania, in fin dei conti vivevano insieme in modo pacifico, senza essere troppo intransigenti gli uni con gli altri, come succedeva qualche volta nellambito clericale.

 

CONCLUSIONE

 

Siccome nel quarto capitolo oltre le condizioni interne ed esterne della missione, abiamo presentato anche alcune considerazioni sintetiche su queste condizioni della missione cattolica moldava nel XVIIIo secolo, adesso non ci rimane altro che concludere brevemente il nostro argomento con un quadro conciso e sintetico.

A causa delle guerre tra le grandi potenze (la Turchia, la Russia, la Polonia e lAustria) e specialmente le frequenti scorrerie dei tartari, dellinstabilità politica moldava e della mancanza di una organizzazione almeno sufficiente della missione cattolica e del lavoro apostolico dei francescani minori conventuali italiani, alla fine del XVIIo secolo nella Moldavia sopravvivevano circa 300 cattolici soprattutto nelle principali comunità che più tardi, verso la metà del secolo seguente, si costituiranno come centri missionari (otto, poi undici parrocchie) intorno ai quali nasceranno altre piccole comunità che, a loro volta, diventeranno parrocchie nel XIXo secolo, cioè in un periodo che cronologicamente non rientra nel nostro tema. Questi cattolici erano in gran parte i discendenti degli immigrati ungheresi che secoli prima erano stati stanziati dai loro re vicino ai passi dei Carpazi che portavano nei territori della corona magiara con lo scopo preciso di proteggere questi territori dagli attacchi di vari invasori; oppure si erano stabiliti in Moldavia come semplici coloni.

Inoltre, sopravvivevano nel nord della Moldavia piccole comunità di polacchi e sassoni, guidati una volta dai vescovati di Siret e Baia, ma queste comunità non ebbero vita lunga, e nel XVIIIo secolo non esistevano più, anche perché nel 1775 il nord della Moldavia, la Bucovina fu annessa allAustria e così queste parti non facevano più parte dello stato della Moldavia e i cattolici ivi presenti non erano più sotto la giurisdizione dei vescovi di Bacau, residenti in Polonia e rappresentati in Moldavia dai vicari generali, cioè dai prefetti della missione.

Se verso la metà del XVIIIo secolo, la relazione del missionario Ausilia ci presenta 21 comunità con allincirca 750 famiglie, e per la povera e piccola missione moldava il missionario Manzi aveva costruito 7 chiese, dopo pochi anni i cattolici in Moldavia cominciarono ad aumentare numericamente, tanto per le nascite, quanto anche a causa dellarrivo dalla Transilvania dei siculi (csángók=meticci) in cerca di una vita migliore sui poderi dei boiari, dei monaci e dei principi moldavi. In gran parte, questi immigrati si stabilirono nelle comunità cattoliche vicino ai Carpazi, oppure in quelle presenti nelle zone dei fiumi Siret, Moldova e Bistrita, comunità menzionate già nel periodo dei vescovati nordici di Baia e Siret (nei secoli XIV-XV) e allepoca del nostro studio appartenenti al vescovato di Bacau, fondato nel 1607 sotto linfluenza della corona polacca.

Nel XVIIIo secolo, in Moldavia esistevano cattolici di remote origini transilvane o ungheresi, pochi autoctoni convertiti al cattolicesimo, i siculi da poco arrivati, come anche dei polacchi, armeni, ucraini e romeni transilvani, questi ultimi tre gruppi però di rito orientale. I romeni transilvani di rito orientale, arrivati in Moldavia, non avendo sacerdoti del loro rito, passarono allortodossia. Inoltre, nella cosmopolita comunità di Iasi, verso la fine del secolo comparirono anche cattolici di altre nazionalità, come tedeschi e francesi, ora con incarichi politici, oppure militari, commercianti, ecc. In tutto, alla fine di questo secolo, il numero dei cattolici in Moldavia saliva a circa 13.000.

Rimane ancora in discussione il problema dellorigine etnica dei cattolici "csángók" e per loro, come anche nel XIXo secolo (di meno nel secolo XVIII), si scontrano tuttora interessi che non favoriscono una soluzione scientifica "pacifica" e utile per tutti, romeni e ungheresi. Nel nostro lavoro, sine ira et studio, abbiamo riportato tutto quello che i documenti del tempo ci dicono al riguardo. Senza indagare sulla loro origine etnica, che non è compito di un lavoro di storia ecclesiastica, ci permettiamo di affermare che al loro arrivo in Moldavia, molti di loro erano bilingui ed è possibile che prima di arrivare in Moldavia, questi possibili romeni avessero subìto un processo di magiarizzazione e fossero stati costretti ad abbracciare il cattolicesimo, nella speranza di una vita migliore. In questo senso, il miglioramento del loro stato di vita fu uno dei motivi per cui nel 1700 una parte dei romeni transilvani, seguendo la politica cattolica dellAustria, aderirono allunione con Roma, conservando però il rito orientale.

I cattolici, per la stragrande maggioranza contadini, vivevano come tutti gli altri del paese, cioè da un giorno allaltro, lavorando quei pezzi di terra che appartenevano ai grandi del paese e allevando qualche bestiame con cui poter sfamare le loro numerose famiglie. Il peggio succedeva quando il paese si trovava in guerra, oppure veniva devastato e saccheggiato dai tartari. Allora, con i loro figli e con le loro povere risorse, i contadini cercavano un rifugio nelle montagne o nei boschi. Dobbiamo dire però che nella secondo metà del secolo, la Moldavia godette una maggiore stabilità rispetto alla prima metà del secolo, e, di conseguenza, anche le comunità cattoliche e i loro missionari poterono fare qualche passo avanti tanto sotto laspetto spirituale, come anche dal punto di vista strutturale ed organizzativo.

Con gli ortodossi, i cattolici erano in buoni rapporti, malgrado come minoranza etnica e religiosa, conservassero un forte senso di solidarietà e unità interna che, dal punto di vista religioso, escludeva gli ortodossi, tranne i casi di matrimoni misti, casi nei quali la parte cattolica, secondo le leggi della gerarchia ortodossa e secondo la tradizione, doveva abiurare la propria fede. Oltre questi casi, la gente condivideva, come ancor oggi, la stessa vita con gli stessi problemi e difficoltà, anche se i fedeli delle due religioni si consideravano reciprocamente scismatici, malgrado col tempo, i cattolici avessero preso molte abitudini religiose e laiche autoctone, cioè degli ortodossi, conservando però anche alcune usanze con le quali erano venuti dalla Transilvania. Nellambito clericale, invece, soprattutto a Iasi spesso i missionari non erano ben visti dallalto clero ortodosso e dai monaci, soprattutto da quelli del monastero vicino di "Trei Ierarhi". Ma intolleranti erano, di nascosto, anche i conventuali, che sempre condannavano lignoranza religiosa e altre abitudini poco "ortodosse" del clero, dei monaci e della gente.

A causa dellincremento demografico della missione cattolica, nella seconda parte del secolo che stiamo studiando, i prefetti e i loro missionari, anche loro in maggior numero (alla fine del secolo erano 10 o 12 missionari), organizzarono meglio lattività pastorale, costruirono nuove chiese e case dove abitare, stabilirono tasse stolari e altri contributi che i fedeli dovevano dare per il sostentamento dei loro pastori. Alcuni degli italiani avevano imparato bene la lingua del paese (scrivendo in forme abbreviate catechismi ed omelie), integrandosi nellambiente locale e dando tutto di se stessi per il bene spirituale dei loro fedeli mentre altri si erano integrati un po di meno. Poi, per i pochi cattolici che comprendevano meno il romeno, i prefetti avevano provveduto con dei missionari di lingua ungherese venuti dalla Transilvania. Soprattutto nellattività catechistica e per animare le celebrazioni liturgiche, i missionari erano aiutati dai "dascali" (cantori e catechisti), che svolgevano un grande ruolo nelle loro comunità, spesso supplendo alla poca dimestichezza dei missionari con la lingua del posto, specialmente nelle comunità dove si parlava di più il dialetto della lingua ungherese chiamato "csángók", da cui anche il nome di "ceangai" dato a tutti quei cattolici che parlavano e parlano questo dialetto. Altre persone con un incarico pubblico e stabile nelle comunità comparvero allinizio del XIXo secolo, tranne la non generalizzata figura del figlio della chiesa "fecior de biserica", che incontreremo anche nel secolo XVIII.

Come succedeva anche in altri territori di missione, anche qui si può parlare di un certo "colonialismo missionario" difeso dai conventuali contro i loro pochi rivali presenti a Iasi, i gesuiti; un conflitto che cesso solo con la soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773 e con la loro partenza definitiva dalla Moldavia. Pensando che la missione spettasse solo al loro ordine e agli italiani, i missionari non hanno poi mai pensato a favorire delle vocazioni indigene e di un clero diocesano in Moldavia si potrà parlare solo negli ultimi anni del XIXo secolo.

La "sconfitta" dei gesuiti fu una perdita per il cattolicesimo locale, se pensiamo che dal loro arrivo in Moldavia nella seconda metà del XVIIo secolo fino allinizio di quello seguente, a Iasi avevano aperto una scuola frequentata dai figli dei boiari e dei principi, in cui linsegnamento si faceva in romeno e latino, una novità assoluta per la Moldavia immersa in unarretratezza culturale assai profonda e in cui la lingua romena non era gradita né dal clero, né dai principi e boiari; prevalevano invece le lingue e le "culture" slave e greche, in quanto slava era la lingua o almeno lalfabeto della liturgia ortodossa e greci erano i principi insediati sul trono moldavo dalla Sublime Porta; in più, anche la maggioranza delle famiglie dei boiari moldavi cercavano di imparentarsi con qualche ricca famiglia greca, per avere più voce in capitolo nel quartiere Fanar di Istanbul dove si decisero i destini della Moldavia dal 1716 fino al 1821.

I vescovi di Bacau, tutti polacchi fino al XIXo secolo, risiedevano in Polonia (dal 1752 la sede di Bacau era stata trasferita in terra polacca, a Sniatyn) e per il secolo che ci interessa, solo cinque volte sono stati in Moldavia per dei brevissimi periodi. Nella loro diocesi venivano suppliti dai prefetti, e nonostante la loro assenza, per cui molte persone arrivavano fino ad unetà adulta senza essere cresimate, mai vollero dare ai prefetti la facoltà di impartire la cresima.

Per quanto riguarda linteresse delle grandi potenze per la minoranza cattolica, si deve dire francamente che a loro interessavano poco i destini di questa minoranza. Dopo la pace di Karlowitz (1699) la Polonia si prese lincarico di proteggere i cattolici moldavi, ma il suo intervento si sentiva solo quando doveva nominare un nuovo vescovo per la sede di Bacau. Poi, con lascesa della Russia e con le spartizioni della Polonia, i prefetti consideravano che il protettorato della Russia sarebbe stato più utile e politicamente raccomandato per la loro missione. Però, quello che si fece a favore dei cattolici moldavi dipese solo dalle autorità russe sul posto, cioè a Iasi. In più, la Santa Sede era molto cauta nelle relazioni con la Russia, perché questa perseguitava la Chiesa Cattolica, specialmente quella di rito orientale, costringendola ad entrare nellortodossia. La Francia non fece nulla e lAustria si dava da fare, per quanto riguarda la Moldavia, soprattutto nella parte che aveva annesso al suo impero, cioè nella Bucovina. Per quanto riguarda la Sublime Porta, questa non perseguitava i cristiani e rispettava gli accordi internazionali firmati con le grandi potenze occidentali, accordi che cercavano di dare ai cattolici presenti nei suoi territori uno statuto giuridico duraturo e favorevole. Ai sultani bastava che venissero pagate le tasse e tutto quello che con un termine generico lo possiamo chiamare tributo. In questo contesto politico, la missione cattolica andò avanti con le proprie forze, sostenuta dallo zelo e dai sacrifici dei missionari e dei loro superiori, che però, non sempre erano pronti ad aiutare i loro confratelli mandati in una missione dove venivano aiutati spesso solo dalla solidarietà dei fedeli.

In breve, questi sarebbero i tratti fondamentali del cattolicesimo in Moldavia nel XVIIIo secolo. I cattolici rappresentavano una piccola oasi in un mare ortodosso e in una Moldavia provata da troppe guerre, scorrerie, siccità, ecc. e sottoposta duramente al giogo ottomano. In questo contesto la missione affidata alla cura pastorale dei francescani minori conventuali fece promettenti passi avanti specialmente nella seconda metà del secolo, grazie in primo luogo ai missionari, ma in questo progresso che assomiglia molto alla crescita silenziosa del granello di senape non si deve dimenticare lattaccamento ai loro pastori e alla Chiesa cattolica di quella gente semplice, qualche volta rude (perché la vita era dura), gente alla quale i conventuali conservano tuttora un vivo affetto ed un particolare amore spirituale.

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