Convegno
organizzato dal XXX Distretto sul riordino dei cicli
IL PUNTO
DI VISTA DI UNO STUDENTE
L’inadeguatezza dell’attuale scuola italiana
alla società in cui vive ed opera, così come la sua diffusa incapacità di
trasmettere allo studente una formazione reale, che gli consenta cioè di
divenire a pieno titolo cittadino, è ormai manifesta. Troppo spesso infatti, il
sistema scolastico italiano ha preferito demandare ad altri, chissà poi chi, il
compito di dare ai suoi allievi una significativa capacità critica. A scuola si
critica poco, si impara il più delle volte a ripetere a memoria quello che c’è
scritto sul libro, e ciò è sufficiente a passare l’anno con un buon voto. Ma è
evidente che anche quello che si impara a memoria sui libri non può essere sufficiente. Qualcuno di voi si è
mai chiesto perché alla domanda Chi è
Aldo Moro? la stragrande
maggioranza degli studenti (e degli ex- studenti) non è in grado di rispondere?
Il riordino dei cicli, però, è solo la forma
giuridica ed organizzativa che la scuola prende quando essa si concretizza in
legge, è un contenitore giuridico ed organizzativo, ben lontano dalla riforma globale della scuola che noi studenti ci
aspettavamo dal nuovo ministro. Certo, cambierà il modo di andarci e di fare le
cose, ma davvero sarà poi in grado di formare appieno la nostra coscienza
critica? Se il tutto si risolve in un enorme cambio di contenitore e di
semplici programmi scolastici, chiedo scusa ma abbiamo tutti gli elementi per
dubitarne.
Non potendo tuttavia entrare nelle questioni
fondamentali della materia (ufficialmente il lavoro di riordino dei programmi e
delle metodologie non è stato ancora terminato) dobbiamo purtroppo concentrarci
sul contenitore delle riforme, cioè sul riordino dei cicli.
La prima grande questione da affrontare
riguarda l’obbligatorietà dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia,
comunemente chiamata scuola materna: questa proposta, che vedrebbe quindi
l’ultimo anno delle materne obliligatorio per tutti, pone non pochi
problemi,sia metodologici che
strutturali. Innanzi tutto occorre chiedersi se sia veramente opportuno, e
soprattuttto necessario, che i bambini subiscano un anno prima l’impatto col
sistema scolastico e, cosa molto importante, se questo sia più proficuo o no
(dicendo questo penso in particolar modo ai sistemi scolastici scandinavi, che
fino a poco tempo fa fissavano l’ingresso obbligatorio nella scuola all’età di
sette anni). Su questo punto il dibattito, tra gli studenti così come tra le
altre categorie, non è giunto ad una conclusione vera e propria, giacché il
documento presentato non è sufficientemente chiaro: personalmente sono
d’accordo con l’anticipazione di un anno, purché questa venga utilizzata per
risolvere esclusivamente i problemi di primo impatto; la socializzazione,
l’innesto di esperienze di relazione e la conduzione dei bambini verso un mondo
linguistico più differenziato rispetto a quello familiare; l’ultimo anno
obbligatorio sarebbe così un buon intervento teso a risolvere questa
situazione.
D’altro canto però, i problemi strutturali
sono tanti; le attuali scuole materne statali non sono infatti in grado di
coprire tutta l’affluenza di iscrizioni derivante dall’obbligatorietà
dell’ultimo anno. A questa carenza dovrebbe supplire lo Stato, che sarebbe
obbligato dall’articolo 33 della Costituzione ad “istituire scuole statali per
tutti gli ordini e gradi”.
Tuttavia le ingenti spese per le nuove
strutture costringeranno il governo a “dare in appalto” alle scuole private
l’istruzione dei bambini di cinque anni, e la strada per questo, seppur non
costituzionalmente corretta, è già stata preparata; mi riferisco in particolar
modo al DDL 2741 del Senato, ed alla più vecchia vicenda dei bambini bolognesi.
Col disegno di legge 2741, infatti, la
Repubblica riconosce il valore ed il
carattere di servizio pubblico delle iniziative di istruzione e formazione,
promosse da enti e privati, che corrispondono agli ordinamenti generali
dell’istruzione e della formazione e sono coerenti con la domanda formativa. Inoltre,
lo Stato predispone, per gli allievi delle scuole private, appositi sussidi
atti ad alleggerire le rette di
questi istituti.
Questo disegno, comunque, non è altro se non
la giustificazione legale di episodi che, in città come Bologna si ripetono da
anni. Così spiega il problema Corrado Mauceri, giurista del PDS (stesso partito
del Ministro): il problema è che ad una scuola che nasce per un’esigenza
privatistica di tendenza si attribuisce
una funzione pubblica che non ha. Il risultato si vede già a Bologna:
tantissimi bambini costretti a frequentare la materna cattolica. E il comune
non istituisce le sue materne perché ci sono scuole cattoliche convenzionate.
Noi studenti crediamo che non si possa
affatto riconoscere agli istituti privati carattere di servizio pubblico, per
quattro semplici motivi:
1. Come
può, un istituto privato, che nasce per le esigenze di una parte della
popolazione, diventare servizio pubblico, cioè destinato a TUTTA la
popolazione?
2. Negli
istituti privati non c’è libertà di insegnamento, tutti i docenti sono
costretti ad uniformarsi alla visione delle cose, alla tendenza della loro scuola: chi non si
uniforma al pensiero unico viene
immediatamente licenziato. Come studenti, siamo i primi a sostenere la libertà
di pensiero, e quindi di insegnamento, che è necessaria allo sviluppo delle
coscienze critiche e fondamentale per la formazione dell’individuo, che può
avvenire soltanto in un ambiente di diffusa pluralità culturale.
3. Siamo
perfettamente coscienti che negli istituti privati la pluralità culturale non
esiste, o quantomeno viene ridotta al minimo: l’atto stesso di iscriversi ad
una Scuola di “tendenza” obbliga lo studente ad accettare una particolare
visione del mondo, lo obbliga a crescere con essa; l’attività critica, e quindi
formativa, della scuola privata, esistendo in essa un solo ed unico modo di
vedere ed analizzare le cose, è perciò molto discutibile. Nella scuola privata
si subisce un forte processo di indottrinamento, di costrizione mentale, in
quella pubblica si cresce invece a contatto con diverse realtà culturali, ci si
forma.
4. Gli
istituti privati non tengono alcun conto della partecipazione studentesca alla
gestione dell’istituto: gli studenti non hanno propri rappresentanti a nessun
livello, non sono e non possono essere tutelati; questo, non solo è ingiusto ed
affatto democratico, ma contrasta anche con lo Statuto
delle Studentesse e degli Studenti che il Ministro stesso ha scritto, di suo pugno, il dicembre
scorso.
Con quale coraggio si riconosce a questi diplomifici il valore ed il carattere di
servizio pubblico?!?
Risposta: col coraggio della convenienza
politica, perché il ministro sa bene che se è lì, su quella poltrona, è lì
anche ed in particolar modo col contributo del mondo cattolico, che, in cambio,
si è preso i propri regalini di Natale, il DDL 2741 del senato e 110 miliardi
della finanziaria per le sue scuole.
Altro nodo problematico del riordino dei
cicli è rappresentato dai primi tre anni della scuola secondaria (ultimi tre
anni dell’obbligo). Dopo un primo anno di orientamento generale, infatti, gli
studenti vengono chiamati a scegliere una delle cinque grandi aree nella quale
proseguire i loro studi (indirizzo classico, scientifico, artistico, tecnico e
professionale): il momento della scelta, che nell’attuale scuola è posto alla
fine dell’obbligo, cioè a 14 anni, nella nuova scuola sarà un anno prima, a 13.
Ora, far scegliere un ragazzo a 13 anni significa praticamente far scegliere i
suoi genitori: già a 14 anni l’influenza della famiglia sulle scelte individuali è fortissima,
figuriamoci a 13. Pur essendo previsti i passaggi tra i vari indirizzi, siamo
tuttavia convinti che, operando in questa direzione, non si faccia altro che
legare il destino culturale e sociale dell’individuo alla condizione economica
del nucleo familiare che lo sostenta; ci pare infatti ovvio che, a grandi
linee, i figli degli avvocati prenderanno l’indirizzo classico e non quello
professionale, che sarà invece obbligatoriamente
scelto dal figlio del netturbino. Vorremmo ricordarvi che, nei primi
anni ’60, si è giunti all’istituzione della Nuova
Scuola Media Unificata in quanto quella precedente presentava queste
caratteristiche di scuola di classe.
Anche volendo accettare la divisione in
indirizzi, alla quale non siamo del tutto contrari, pur riconoscendo
l’importanza della cultura del “fare” e del “saper fare”, non riusciamo tuttavia a comprendere
l’utilità che ha l’indirizzo professionale, ovvero il vecchio avviamento al
lavoro, nella formazione del cittadino. Premesso che questo indirizzo non serve
a formare i futuri quadri dirigenti delle grandi aziende informatiche,
stentiamo a vederne anche l’utilità nel quadro sociale: in sostanza, non
riteniamo che mandare un ragazzo di 14 anni a lavorare nel mobilificio dietro
casa sia utile, né per il ragazzo stesso, né per la società tutta, e che vada
solo a vantaggio della singola impresa, la quale, per due anni, ha manodopera
praticamente a costo zero.
Paradossalmente, poi, chi scegìie l’indirizzo
professionale ha meno possibilità di trovare lavoro di chi ne sceglie un altro:
ai nuovi operai, infatti, non viene richiesto di saper usare un tornio, ma di
saper scomporre un brano in sequenze; questo perché la manodopera, prima che
specializzata, deve essere riconvertibile, e le aziende preferiscono fare
autonomamente i corsi di formazione professionale, che sono oltretutto di
durata minima (15/30 giorni).
Vorremmo, infine, che ci venisse spiegato
come mai, se per un corso di formazione professionale normale, fatto ad un
operaio normale, occorre un mese, per lo stesso corso, solo destinato ad un
quattordicenne, occorrono due anni. Ma che deve fare un ragazzo due anni in
fabbrica, si deve abituare all’ambiente? Non scherziamo, per cortesia, e
soprattutto non tentiamo di limitare ancora il già basso livello culturale
degli italiani proponendo cose dal sapore di dopoguerra, atte peraltro a
provocare più danni che vantaggi.
Per queste cose, o meglio, contro queste ed
altre cose, il movimento studentesco, anche quest’anno, si è mosso con forza ed
ha fatto sentire la propria protesta; ecco, queste sono alcune delle ragioni
per cui gli stessi istituti del nostro distretto sono stati occupati e/o
autogestiti. Comunque, in quest’epoca di grandi riforme e rinnovamenti vari,
sono dell’opinione che anche le proteste studentesche, concepite così come le
avete viste, non siano più efficaci, rendano poco rispetto al loro costo.
Da qualche anno a questa parte, infatti, gli
studenti rimangono costantemente a bocca asiciutta: le istituzioni sembrano
essersi ormai accorte che le nostre proteste, oltre ad essere di durata breve,
non vanno mai oltre la fine del 1° quadrimestre, ed hanno imparato ad
ignorarle, attendendo pazientemente la primavera per presentare, indisturbati,
progetti e disegni di legge vari.
Personalmente, pur condividendo nei punti
fondamentali le proteste del movimento studentesco, credo ci si debba rendere
conto della sua incapacità politica, della sua disorganizzazione, che non gli
consente di affermare con determinazione le proprie proposte; protestare
attraverso l’occupazione o I’autogestione degli istituti, oltre ad aver ormai
dimostrato di essere un inutile strumento di lotta, va persino a danno della
stessa scuola pubblica, che, proprio con queste azioni, si vorrebbe invece
difendere.
Noi studenti abbiamo, se non altro, un grande
merito, il merito di voler ancora lottare per un mondo, quello della scuola,
che non interessa più a nessuno, in cui non investe più nessuno, che di normale
ha solo - come dice Domenico Starnone - edifici
spesso fatiscenti, insegnanti spesso inadeguati, giovani spesso insofferenti,
un diffuso sentimento di invivibilità delle ore scolastiche.
In questo paese, come sempre, le riforme
dell’istruzione calano dall’alto, non sono mai espressione, o, comunque,
accordo tra il potere politico e la cittadinanza, le associazioni di categoria,
se così vogliamo chiamarle.
Stavolta sono in gioco interessi più grossi
di quanto comunemente si pensi, stavolta si tratta di modellare e plasmare la
scuola sulle esigenze di mercato, non sempre compatibili però con la formazione
culturale e, soprattutto, critica dell’individuo; è dovere dei docenti e degli
studenti tutti opporsi ad un modello di scuola fatto ad hoc per il mercato, e, soprattutto, opporsi ad un modello
di scuola nel quale la qualità dell’istruzione sia direttamente proporzionale
alla cifra necessaria per ottenerla.
Giampietro Casasanta
Studente - Bracciano
|