Sulla proposta di Berlinguer
di riordino dei cicli scolastici
Una riforma poco gentile
Il riordino dei cicli scolastici, come neutramente recita il titolo, è un progetto in grande,
un radicale smantellamento dell'attuale assetto scolastico, dopo il quale nulla sarà più uguale, né
per chi insegna né per chi studia : masse di docenti, già sottoposte negli anni '90 a stressanti
riforme (v. quella delle elementari ma anche quella degli istituti professionali, che il documento si dimentica di citare)
saranno spostate da un ciclo all'altro, con la prospettiva dell'esubero e della riconversione, masse di studenti sperimenteranno
un sistema del tutto nuovo nelle sue scansioni temporali ed organizzative, che li porterà ad affrontare un anno prima
l'università o il mercato del lavoro.
La stessa autorappresentazione, che traspare dalle pagine del documento, enfatizza questa chiave
di lettura, questa svolta che si colora addirittura di accenti millenaristici ("il nuovo ordinamento potrebbe essere completato
entro l'anno scolastico 2000/1, proprio all'inizio del nuovo millennio").
In tanta radicalità si avverte il proposito tutto condivisibile di ripensare globalmente, e non a
spezzoni come fino ad ora, il sistema scolastico italiano ; ma proprio qui si incontra anche un primo limite del
documento : un intento di ingegneria sociale, molto astratta e modellizzante, che fa violenza alla realtà
della scuola, ovvero che edifica senza fare i conti con quel complesso "equilibrio squilibrato" fatto di zone d'eccellenza,
conservatorismi, piccole miserie e grandi passioni che è il nostro mondo. Una riforma tutt'altro che gentile e attenta
all'esistente, insomma ; la volontà è di imprimere (maschilmente ?) il proprio sigillo sulla
realtà, pensata forse più plastica e inerte di quanto non sia, anziché di seguire la strada, certo
meno trionfante e spendibile sui media, di accompagnare e sostenere quanto di positivo c'è, individuando
quelle modifiche assolutamente necessarie in grado di liberare energia (che poi consistono soprattutto in un'opera
di "scultura"( 1), di
alleggerimento : meno alunne/i per classe, meno materie, vincoli orari ecc., per scardinare dall'interno la grande
macchina oppressiva e inerziale dell'istituzione).
Per la verità, il documento, nel richiamarsi a una necessaria "memoria del passato",
rivendica una continuità ideale con "ciò che di meglio" una "intensa attività di docenti, direttori
didattici, presidi, associazioni" ha prodotto negli ultimi anni precorrendo "per molti aspetti, l'opera del legislatore" -
immagine che ridà vita alla contrapposizione, oggi un po' demodè, tra società civile ricca
di fermenti e ceto politico (pre - ulivista) sordo e lontano -. Ma questo meglio è poi individuato nelle sperimentazioni
(già affossate da tempo quelle vere, nate dal "basso" ; le esistenti, tutte proposte come pacchetti rigidi e
vincolanti dal Ministero) e negli interventi per il recupero della dispersione, per lo sviluppo della salute, per l'attuazione di
iniziative integrative e complementari ecc. : cioè in quella miriade di progetti speciali, ascrivibili al mondo della
buropedagogia, che hanno frammentato e parcellizzato l'attività didattica.
La continuità c'è allora, senza dubbio, ma con un modello scolastico
d'impronta ministeriale, fondato sullo strano matrimonio fra cultura dello scientismo pedagogico, cultura d' impresa
e cultura burocratica (il che non esclude l'assenso anche entusiastico di alcune componenti della scuola, che trovano qui
un modo di riscattarsi dalla crisi di autorità e di senso che investe il sistema educativo). Non a caso nel documento
si raccoglie, e assume forma compiuta, tutto quanto era già prefigurato nel dibattito fra "gli esperti del settore" (e che
si era parzialmente concretizzato nelle varie miniriforme, nelle circolari ministeriali, negli accordi sindacali): dal sistema di
valutazione nazionale "per verificare la produttività scolastica" alla pedagogia del contratto formativo (v. Carta
dei servizi), dalla qualità totale al rapporto con le imprese, dalla moltiplicazione dei progetti alle figure di sistema,
fino alle modalità dell'aggiornamento in servizio.
La "tradizione" cui riallacciarsi è dunque accuratamente scelta : è la scuola
disegnata altrove (nelle Direzioni di viale Trastevere, di concerto con i maitre à penser dell'Università
romana e le cosiddette forze sociali) che già si è sovrapposta, con effetti distorcenti, sulla scuola reale, non
certo esaltandone le esperienze migliori ma anzi producendo effetti di disorientamento, adeguamento passivo,
deresponsabilizzazione, "carrierismo" ( !).
Occultando questa origine ministeriale, collocando la fonte della neonata tradizione nel pullulare di
iniziative spontanee ("di migliaia di operatori della scuola"), il documento costruisce una rappresentazione semplificata e
distorta (ma non ingenua) che esime dall'analisi e dal confronto con la scuola nel suo complesso. Invisibile nel documento,
è però questo corpo in sofferenza eppure traversato da correnti di grande vitalità ad essere chiamato
in blocco alle grandi manovre, col prevedibile seguito di resistenze, scetticismi, arroccamenti nostalgici (ma io spero anche
conflitti chiari e aperti).
Buone domande, risposte di "qualità"
Nel ripensare dalle fondamenta l'edificio scolastico, il progetto parte comunque da alcune
buone domande sul rapporto fra scuola, saperi e società. In questo, e nel rispondervi senza ambiguità,
c'è un'intenzione di fare chiarezza, assumendosi responsabilità e uscendo dall'episodico, che (oltre a essere
insolita nei vertici del ministero) va raccolta come sfida da parte di chiunque si occupi di scuola e voglia intervenire nel
dibattito.
E se si guarda ad alcuni pezzi di risposta, avulsi dall'insieme, si può anche essere
d'accordo : la continuità nella scuola primaria, "la riduzione quantitativa dei contenuti in favore di un maggiore
approfondimento dei nuclei fondanti", la non ripetizione ciclica dei programmi, la maggiore flessibilità nelle scelte,
sono fra gli spunti più condivisibili. Ma non siamo in un supermercato di idee eterogenee nel quale fare le proprie
scelte ; tutte le proposte stanno in un sistema compatto e coerente, da cui ricevono senso, ed è proprio a
questo livello complessivo che ci si deve porre. Si vede così come la stella polare che orienta tutto il progetto
sia una e una sola : il superamento della dicotomia cultura disinteressata - cultura professionale è declinato
nel senso di una professionalizzazione di tutto il sistema scolastico, anticipata nel tempo (v., dopo i primi sei anni
comuni, i moduli professionali negli ultimi due anni dell'obbligo) e estesa nello spazio (a tutti gli "indirizzi" del triennio finale).
Infatti, recita il documento, "la qualità delle risorse umane disponibili è stata riconosciuta come fattore
strategico" per "sostenere la crescita economica e la competizione" e dunque i livelli occupazionali.
Sulla base di questa discutibile analisi, la scuola diventa un lungo tirocinio preparatorio al mondo
del lavoro e alle sue leggi, una sorta di "prova generale" del lavoro che non c'è - o se c'è, è
precario e dequalificato -. Non sono idee del tutto nuove (l'origine è nel pensiero della qualità totale) né
questo è il primo atto del governo in materia : l'immediato antecedente, cui forse non s'è prestata la
giusta attenzione, è nell'accordo del settembre 1996 fra governo e parti sociali sulla formazione professionale
(leggerli insieme è illuminante : l'accordo è un controcanto del documento Berlinguer, scritto da altra
mano, in una bruttissima lingua aziendalistica, che ancor più brutalmente rivela l'intento di subordinare il sistema
scolastico al sistema produttivo, financo nelle metodologie didattiche : le quali devono essere "idonee ad attivare
abilità e a valorizzare propensioni in un rapporto costruttivo e dinamico con il mondo del lavoro").
In questa ottica l'idea di sapere cambia profondamente, non solo rispetto
alla tradizione gentiliana - per la quale non credo che si debbano nutrire troppe nostalgie - ma soprattutto rispetto a ciò
che di (vero) meglio la scuola ha pensato e sperimentato in questi anni, dando centralità a una dimensione relazionale
e sensata dell'apprendere/insegnare.
Il nuovo sapere è strumentale, in vista esclusiva del possesso di abilità e
strumenti spendibili sul mercato del lavoro. Questo è detto chiaramente e appare ancora più chiaro se si fa
attenzione a ciò che nel documento non c'è, ai silenzi, ai vuoti. Facciamo un'analisi delle ricorrenze
lessicali : i termini pur in sé positivi di autonomia, responsabilità, flessibilità,
intesi quali capacità da sviluppare nella nuova scuola, compaiono molte volte (11 il primo, 6 gli altri) ; di fronte
a ciò, a parte qualche riconoscimento di rito della natura critica del sapere (2 volte) e al valore delle differenze (di nuovo 2),
non si accenna mai a cultura come fondazione del senso di sé, interrogazione continua, non adeguamento a
stereotipi, apertura verso altri mondi, piacere e gioco, ricerca di forma : cioè a quella dimensione gratuita
delle conoscenze che è l'unica molla dell'apprendere, oltre le quali c'è il vuoto addestramento, che genera
disaffezione e analfabetismo di ritorno. La somma di ciò che c'è e di ciò che manca dà come
risultato una risignificazione, in senso sinistramente coerente, di tutto il lessico del documento, dove responsabilità e
autonomia rischiano di equivalere ad "adattamento corresponsabile"(2
), ad autoassoggettamento e autosfruttamento", secondo quel "paradosso
centrale del soggetto postfordista" per cui "in una condizione di estrema dipendenza, è richiesto [al singolo] un
massimo di iniziativa personale. Attraverso la propria autonomia deve acquistarsi i vantaggi della dipendenza"
(3).
Rafforzata l'ottica finalistica del sistema d'istruzione, il nuovo sapere risulta perciò
orientato esclusivamente verso il futuro. Eppure l'apprendimento sensato vive di presente : è
nell'oggi che do valore a quello che sto facendo, in quel luogo, con quelle persone, per me. Insistere sul presente significa
capire ciò di cui la scuola ha davvero bisogno; ad esempio, che il numero di allieve/i per classe va diminuito non
tanto per salvaguardare livelli occupazionali, ma perché solo così si può sperare di stare bene, di
sviluppare un clima conversazionale - come lo chiamano alcuni pedagogisti, e che è poi la possibilità di
avere relazioni più ravvicinate, di mettersi meglio in gioco, non sprofondando nel quasi anonimato del gruppo -.
"Colmare il presente e esserne colmati" : è con questa serietà che imparano le e i bambini, maestri
nella "celebrazione del dettaglio"(4)
; a loro invece la riforma parla sempre di orientamento, disegnando una scuola che non ha mai valore in sé
ma solo come tappa per un segmento successivo. Fin da piccoli, già a dodici anni, è un continuo
proiettarsi oltre il proprio tempo, per scegliere (sia pure in modo reversibile) il proprio futuro professionale.
Così anche il discorso, interessante, sui percorsi non rigidi e "personalizzati" si trasforma :
la scelta non è pensata in base a interessi e curiosità attuali (che so, fra musica e disegno), ma è
tutta in vista di ciò che si farà dopo, fuori della scuola o nel suo successivo "modulo". Questo sistema
può andar bene per gli ultimi anni della secondaria ; previsto invece in età molto giovane (dai 12 ai
15 anni, quando è più forte l'esigenza di unitarietà delle conoscenze), porta a una frammentazione
degli itinerari individuali e ad una canalizzazione precoce, subalterna per coloro che si indirizzano verso la formazione
professionale. Anche per quel 5% che odia la scuola(5
) si dà una risposta che è in sostanza descolarizzante,
abdicando di fatto ad ogni responsabilità educativa nei loro confronti. Perché è verissimo che
l'educazione tradizionale trascura la manualità, il corpo, forme di intelligenza diverse : ma già
esistono, e si potrebbero allargare e ripensare, esperienze didattiche di laboratori che potenziano l'operatività
e il saper fare, progetti nei quali la scuola mantiene piena titolarità(6
) anziché rinunciare al suo primato e avviare semplicemente ragazzi e
ragazze "difficili" al mondo del lavoro o a un suo fittizio simulacro.
Il rapporto con il sapere cambia anche nel senso di una sua accelerazione e compressione
nel tempo. Intanto a scuola si sta un anno di meno. C'è poi una riduzione del ciclo unitario di base, quello
uguale per tutti/e, a soli sei anni invece degli otto attuali (l'anno obbligatorio di materna, se non diventa una prescuola, come
pure è malauguratamente possibile, non va messo nel conto) ; e questo è un ritorno indietro persino
rispetto alla miniriforma degli istituti professionali, che aveva se non altro il merito di ampliare nel biennio iniziale l'area delle
materie comuni. Di necessità, si dovrà procedere fin dall'inizio a ritmi serrati per fornire un alfabeto di base,
che orienti nel mondo dei contenuti e dei linguaggi disciplinari, con un'accentuazione di quel cognitivismo, già presente
nella riforma "modulare" delle elementari, che non rispetta i modi naturali dell'apprendere infantile : con tempi lenti,
differenziati, muovendosi senza ansie da prestazione verso la scoperta delle proprie possibilità, in un contatto con
il corpo e le sue percezioni (solo quando, nel ciclo seguente, si tratta i separare i destini professionali di adolescenti
finalmente maturi per il pensiero astratto, ecco che spunta fuori l'importanza del conoscere col corpo, sia pure nella riduttiva
versione dell'esercizio manuale!).
Un'ulteriore accelerazione dovrebbero poi imprimerla, nella scuola secondaria, la presenza di moduli
professionali e di corsi mensili, trimestrali e quadrimestrali in sé autonomi e compiuti, così come "l'organizzazione
in segmenti di durata quadrimestrale (o inferiore), prevedendo" anche la possibilità "di ripetere un solo segmento invece
che l'intero anno scolastico" ; il tutto con l'inevitabile seguito di valutazioni formali ancor più ravvicinate e costanti,
e con poco spazio per un lavoro disteso nell'arco dell'anno (eppure "stare molto su una cosa crea comunità"
(7) ). Per la verità il documento
in proposito non dice molto ma se colleghiamo questi accenni all'idea, qui accolta, del contratto formativo, si può
ragionevolmente pensare che la scuola dovrà fornire pacchetti modulari strutturati per obiettivi, prevedibili e
predeterminati negli esiti. Con buona pace di una scuola fondata sulle relazioni, sulla costruzione cooperativa del sapere
e sull'apertura all'imprevisto.
Il silenzio della politica
Un sistema scolastico tanto orientato verso la formazione professionale sarebbe comprensibile,
sebbene mai accettabile, in una fase di crescita dell'occupazione, con un mercato del lavoro che soffre per la carenza di
personale qualificato. Essendo tutt'altro che così, appare contraddittorio piegare la scuola a esigenze che
non le sono proprie e si dovrebbe pensare piuttosto al processo inverso, di "licealizzazione" di tutti gli istituti, nel senso di
fondare sulla gratuità, sull' "interesse disinteressato", la scommessa di una scuola per tutti e tutte. A meno che
l'intento non sia di trasmettere soltanto "una corretta filosofia e etica del lavoro", come nelle citate esperienze giapponese
e statunitense, usando come veicolo e strumento di consenso il tema delle competenze tecnico - professionali spendibili
sul mercato del lavoro.
Allora, si tratta di un progetto per mettere la scuola al servizio delle imprese ? E' bene diffidare
delle interpretazioni semplificate e unicausali. Questa occulta la varietà dei soggetti che si occupano
istituzionalmente di scuola e perseguono vari fini, pensando magari in tutta onestà, come in questo caso la sinistra
di governo, che una scuola della qualità totale sia migliore, più seria, più democratica. Il problema
è che, essendo ormai la "politica seconda" priva di ogni rapporto con la passione di trasformare la realtà e
ridotta a governo dei cittadini (o meglio della "gente") da parte di un ceto di professionisti, la democrazia si ritrova ad
equivalere alla buona amministrazione : dunque all'offerta di servizi efficienti e efficaci, valutabili, che agiscono
secondo i criteri della pubblicità degli atti e della garanzia dei diritti.
Quando poi questa classe politica va a ridisegnare la scuola nei suoi rapporti con la società
e con il mondo del lavoro, si appoggia ad altri modelli forti, fuori dalla politica che è muta, e li trova nelle
due grandi forme della modernità, ovvero l'impresa e la scienza.(nella forma degli
scientismi pedagogici). Questi modelli forti, che si fondano sul primato della razionalità strumentale, hanno
fornito negli ultimi anni materiali alla costruzione di una sorta di pensiero dominante sulla scuola. Se ne riconoscono i segni
nella centralità della divisione del lavoro (altro non è la segmentazione dei compiti introdotta dalle
"figure di sistema") e nella mobilitazione della tecnologia , attraverso didattiche che esaltano il
tecnicismo e la professionalità. Ma anche nel riconoscimento della competenza come sola fonte di
autorità e, quindi, nella sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale o politica ;
con conseguente deresponsabilizzazione, anche quando si enfatizzano responsabilità e autonomia, poiché
esse si esercitano sulla qualità dell'esecuzione, non sugli scopi(
8). Avviene così quando ci si affida alle valutazioni "oggettive",
basate su test e prove strutturate, invece che alla propria misura ; ed è così che si smarrisce
ogni differenza fra scuola pubblica e privata : si equivalgono, a patto di rientrare in certi standard di efficienza
e produttività.
Da qui a pensare che l'unico orizzonte sia quello della razionalità economica e della
tecnocrazia il passo è breve.
Questo è l'humus da cui nasce il progetto. Ma.con una novità,
da prendere sul serio, rispetto alle passate gestioni : ovvero l'intento di avviare processi di de-burocratizzazione,
in nome dell'autonomia e della collaborazione con altre agenzie formative. La burocrazia ha grandi capacità
di adattamento e di sopravvivenza, sapendo accogliere in sé forme anche diverse (non si deve dimenticare che
negli ultimi anni sullo scenario della scuola pubblica abbiamo assistito a strani matrimoni fra cultura d'impresa, "scienza"
pedagogica e burocrazia, da cui sono nate, ad esempio, la Carta dei servizi o la riforma dei professionali; e la cosa
non deve troppo stupire visto che pur non trattandosi di sistemi omologhi sono però basati su un paradigma comune
e parimenti dediti al controllo razionale del vivente). Quindi è difficile dire se davvero si affermerà un
modello non centralistico e non gerarchico o se si verrà stabilizzando una forma di "convivenza impossibile" fra la
burocrazia onnivora e questi nuovi modelli ; è probabile che, a medio termine, la gestione del trapasso dal
sistema attuale a quello prefigurato da Berlinguer., con la necessità di spostare masse di docenti dall'uno all'altro
ordine di scuola, accrescerà, anche contro le intenzioni del ministro, il potere dell'amministrazione centrale. In ogni
caso, pur essendo condivisibile questa volontà di sburocratizzare l'istituzione, non ci si deve fare illusioni sul significato
che attribuisce il documento all'autonomia e alla responsabilità delle scuole nell'ottica della qualità totale.
Le parole della politica
Sulla scuola come luogo di incontro fra le generazioni, come funzione vitale della società,
la politica dunque non ha molto da dire.
Ritrova spazio e parola, invece, nell'offrire una semplificazione a uso mediatico dei problemi.
Un esempio per tutti, il più clamoroso : la promessa che la scuola nuova, oltre ad "attenuare gli effetti della
disoccupazione", farà "emergere l'enorme quantità di lavoro sommerso che ancora esiste in Italia". Ma in
tutto il documento, e nelle operazioni giornalistiche che l'hanno accompagnato, si respira un'aria di new deal, poco
giustificata dai fatti, molto dall'esigenza di apparire, anche con frasi ad effetto che fanno da velo alla realtà.
Così "l'eccessivo allungamento dell'età scolare", dice il ministro in un'intervista "nuoce alla società
italiana. Un ragazzo che va a lavorare a 25 anni sposta le montagne. Uno che ci va a 33 sta pensando di portare a scuola
la mattina i figli"(9): dove
sembra che la scuola abbia finora trattenuto a forza scalpitanti e giovanili energie, attese a braccia aperte dal mercato, e
per fortuna presto liberate dalla riforma.
Ritrova spazio e parola, la politica, nel proporre un'impostazione dirigistica :
"al fine di pervenire rapidamente alla conclusione del processo riformatore", il ministero, dopo ampio dibattito
nella società, intende procedere per via amministrativa a modificare tutti i programmi scolastici, prima
che la riforma stessa sia approvata dal parlamento. E se non fosse mai approvata ? O non secondo le
linee fatte proprie dal governo ? Il corto circuito pubblica opinione - esecutivo rende evidentemente accessorio il
ruolo del parlamento.
Ancor più incisivamente, ritrova spazio e parola per proporre una visione armonicistica
della società (che costituisce poi il supporto ideologico per la riduzione della politica a tecnica), visione
fondata sulla naturale cooperazione fra società e impresa - nella quale cultura e professione sembrano
integrarsi senza residui e la nuova condizione di precarietà, intessuta di continue riconversioni e di uscite e rientri
nel mercato del lavoro, appare indolore (basta sapersi attrezzare). Conflitti, durezze, costi individuali e sociali, le stesse
oggettive difficoltà degli stati nazionali a governare processi di mondializzazione economica, si dissolvono in
questo pensiero pacificante. Ma non è poi lo stesso pensiero ad animare la rilettura del passato di cui s'è
fatta protagonista recentemente la sinistra di governo, in cerca di normalità anche a prezzo di smemoratezza
(si pensi ai " ragazzi di Salò" evocati da Violante) ? Pacificazione nel passato, nel presente, nel futuro
: perciò la politica, non più esperienza e prefigurazione di nuovi ordini, può ritirarsi
dallo spazio dell'azione. L'unica possibilità di azione rimane quella individuale, del singolo, "chiamato ad agire
come una sorta di 'ufficio di pianificazione' della sua propria 'trama biografica'" - il che vuol dire sapersi amministrare
scegliendo bene i propri strumenti, vagliando risorse e opportunità, accumulando crediti formativi e
professionali ecc. -. Ad accompagnarlo in questo percorso provvederà (anche) la nuova scuola.
Marina Di Bartolomeo
insegnante Istituto Professionale - Firenze
- Cfr . Franco Lorenzoni,
intervento al convegno Per un'autoriforma gentile ( Roma, 30 nov. - 1 dic.).
Franca Lopes e Loretta
Visin, La scuola eccellente ....
Marco Bascetta,
Oltre il bene comune, in AA.VV., Ai confini dello stato sociale, Roma, manifestolibri, 1995, p.41
Ian McEwan,
Bambini nel tempo, Torino, Einaudi, 1992, p.101
Cfr. Vita Cosentino,
La sapienza di chi è a scuola, "Noi donne", febbraio 1997, p.13
Cfr ., in proposito,
le osservazioni di Alba Sasso, Scuola al buio, "il manifesto", 23 gennaio 1997, p.4
Franco Lorenzoni,
ibidem
Per questa discorso,
mi è stata utile l'analisi di Zygmunt Bauman in Modernità e olocausto ( Bologna, Il Mulino, 1992).
Enrico Pedemonte,
A scuola da Berlinguer, "L'espresso", ............, p.43
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