Il Bambino e l'Acqua Sporca. Coordinamento Genitori-Insegnanti

Parliamo di Educazione

Su un altro treno








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Prima stazione: il vissuto del bambino

Terza stazione: il bambino della scuola dell’infanzia

 

Nel numero precedente il nostro bambino ha iniziato a crescere ed a separarsi dalla madre. Tutto ciò è accaduto gradatamente, più o meno nei primi diciotto mesi di vita.

Come già dicemmo un bambino che a tre anni si trova a frequentare la scuola dell'infanzia, dovrebbe avere già superato le tappe evolutive che si connotano come fase orale e fase anale ed essere alle prese con le dinamiche interiori e relazionali scatenate dalla fase edipica.

Mi configuro una scuola dell'infanzia adeguata alle esigenze evolutive del bambino quale elemento basilare per la sanità psichica del futuro cittadino. In tale configurazione, penso che ogni insegnante dovrebbe avere una preparazione psicodinamica accurata per poter individuare eventuali intoppi evolutivi. All'interno di ogni scuola dovrebbero essere presenti psicoterapeuti capaci di intervenire tempestivamente nello sciogliere gli ingorghi derivati dal vissuto del bambino relativo alla fase orale ed anale nonché nell'offrire un valido "sostegno" a chi, nel tumulto della fase edipica non riuscisse per esempio, ad identificarsi con il genitore del proprio sesso.

Non mi pongo, in questa sede, la finalità di elencare tutti i casi in cui l'intervento dello psicoterapeuta sarebbe salutare; voglio solo dissociarlo come già feci in un precedente numero dal concetto di "malattia", proprio in quanto egli dovrebbe esistere a "sostegno" del percorso evolutivo del bambino.

Il ruolo svolto dall'insegnante di sostegno dall'attuale organizzazione scolastica è troppo legato all'idea di "handicap"; egli interviene solo su casi riconosciuti dall'amministrazione sanitaria e prima ancora, dalla famiglia di appartenenza del bambino. Ma quanti bambini finiscono per "costruire" un loro handicap che a volte sfiora la follia per le ricadute sociali di un comportamento esplosivo rispetto alle norme della convivenza!

Questo tipo di handicap è causato da un condizionamento massivo familiare che si intreccia con la rigidità di una scuola che non è in grado di arginarlo, dipanarlo e dissolverlo, ma che lo riconosce, lo etichetta, lo incrementa.

Nella scuola di oggi fruiscono del sostegno solo quei bambini i cui genitori sono "disposti a fare le pratiche di riconoscimento" mentre un consistente numero di non "riconosciuti" si trova nella triste condizione di vivere con genitori che per piccole o grandi patologie della coppia o dell'individuo, lo "ammalano" nella profonda serenità del suo essere, condizionandolo, più o meno pesantemente, nelle sue dinamiche relazionali. Questi genitori, avendo bisogno di ammalarlo a causa della profonda necessità di non sentire come propria l'angoscia della patologia individuale o di coppia, non potrebbero mai offrire spontaneamente al figlio la concreta opportunità di "guarire" proprio perché la sanità del figlio li costringerebbe a fare i conti con i propri "intoppi".

Una scuola che ha bisogno del "riconoscimento" per intervenire a sostegno dello sviluppo del bambino parte già quindi, con il piede sbagliato.

Se poi a ciò aggiungiamo che l'attuale sostegno mira al recupero delle capacità cognitive senza rimuovere i vari ostacoli che sottostanno ai ritardi ed alle varie difficoltà, dato che, secondo la vigente normativa, gli insegnanti a ciò preposti non sono psicoterapeuti dell'età evolutiva, allora possiamo renderci conto di come l'attività di recupero delle capacità in questione, svolta attraverso un simile sostegno, sia semplicemente illusoria.

E poi, in nome di quali dei principi enunciati sulle numerose Carte dei Diritti, risulta opportuno dividere i bambini, fin dalla scuola dell'infanzia in "riconosciuti", "non riconosciuti" e "normali"?

In nome di che cosa gli adulti si arrogano questo potere?

Definire, va sicuramente a discapito dell'accogliere.

Quindi una scuola dell'infanzia dovrebbe innanzitutto accogliere ogni bambino, anche garantendo a ciascuno la possibilità di fruire tempestivamente del sostegno di uno psicoterapeuta, al fine di prevenire, sciogliere, dissolvere, sanare e consentire uno sviluppo fluido.

Winnicott stesso, nella sua opera "Colloqui terapeutici con i bambini" ci dimostra che tutto ciò è concretamente possibile. Basterebbe concepire la scuola per l'infanzia prevedendo uno spazio, un tempo ed una persona competente assunta per assolvere solo a tale funzione.

Oltre alla presenza rassicurante di uno psicoterapeuta, una programmazione attenta alla psicodinamica evolutiva e relazionale, di sicuro potrebbe inserirsi positivamente in un contesto di adeguatezza della scuola dell'infanzia.

L'obbligatorietà della frequenza nell'ultimo anno, potrebbe facilitare tutto ciò, sempre che ci si intenda sul significato del termine "programmazione" che ho appena utilizzato, la stessa obbligatorietà potrebbe dare legittimi spazi di azione a quanti cercano di privilegiare la formulazione di obiettivi riguardanti l'area cognitiva della scrittura e della lettura a discapito dei prerequisiti usurpando così i tempi e i luoghi del "gioco".

 

Il gioco.

Il gioco… troppo spesso ci dimentichiamo del suo profondo valore nel percorso evolutivo di ciascuno, delle possibilità formative, salutari e addirittura terapeutiche insite nella semplice essenza della sua stessa natura.

Ma non dico niente di nuovo!

Cito Winnicott: "la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace."

Ed ancora: " ... è il gioco che è l'universale e che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e pertanto la sanità e infine, la psicanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri. La cosa naturale è il gioco e il fenomeno altamente sofisticato del ventesimo secolo è la psicoanalisi."

Se quindi il gioco sta addirittura alla base del rapporto psicoanalitico, immaginiamo quale gravosa responsabilità dovrebbe assumersi un docente che, in un'età precoce ne usurpasse i tempi a vantaggio di una inadeguata scolarizzazione.

L'irrequietezza di tanti bambini del nostro tempo è forse dovuta anche al fatto che troppo spesso, e fin dalla scuola dell'infanzia sono costretti a smettere di giocare in nome di un fantomatico impegno. I moderni quaderni operativi che i bambini dai tre ai sei anni sono costretti ad usare per soddisfare le ansie dei genitori e dei docenti, sicuramente tutelano l'interesse delle case editrici, ma sono molto lontani dall'inserirsi nel percorso evolutivo del bambino.

"Oggi Robertino non ha fatto la scheda: vostro figlio perde tempo a giocare e non si impegna"

Figuratevi un po' un bambino che a tre anni pensa solo a giocare: quale assurdità!

Il gioco è diventato una concessione dell'adulto, premio riservato a chi si è saputo impegnare in un lavoro visibile e produttivo.

E i bambini giocherelloni, quelli perditempo, che cercano nella lentezza e nel gioco immaginario (visto che quello concreto gli viene negato) di salvare la loro creatività e la loro sanità mentale, vengono subito etichettati. Nella scuola non faranno strada. Pensate che quel Robertino è capace di giocare proprio con tutto: mentre gli altri bambini fanno la scheda per fare contenta la maestra e i genitori, lui sta con la testa per aria. Con la matita invece di rappresentare il gatto sotto al tavolo ed il vaso sopra al tavolo, si mette a fare l'aeroplano. Ed è capace perfino, di passare un'ora, dico un'ora, a strofinare gli angoli della scheda pensando chissà a che cosa! Ma la vera preoccupazione è che, se non si impegna un minimo nella scuola dell'infanzia , alle elementari avrà sicuramente dei problemi.

E' probabile che i bambini che si adeguano a richieste lontane dalle necessità delle loro tappe evolutive, compiano le loro prime rinunce nella ricerca del Sé (quel vero Sé di cui abbiamo parlato tante volte) gratificati dall'approvazione dell'ambiente, mentre il simbolico Robertino riesce a difendersi da ciò tentando di fare qualcosa di piacevole e creativo per sé, anche se banale ed improduttivo per l'osservatore.

Ma il vero guaio sta nel fatto che, in una situazione simile, neppure lui potrà fruire in modo completamente positivo della sua esperienza, poiché è costretto a fare i conti con il continuo senso di fallimento causato dalla disapprovazione e dalla mancata gratificazione derivata dagli adulti.

Le parole di Winnicott a riguardo, dovrebbero farci riflettere: "E' nel giocare e soltanto mentre gioca che l'individuo bambino o adulto è in grado di essere creativo e di fare uso dell'intera personalità ed è solo nell'essere creativo che l'individuo scopre il Sé"

Garantire spazi e tempi per giocare nell'ambito della sua prima infanzia significa quindi permettere al bambino di affrontare le successive esperienze scolastiche portandosi dietro il suo vero Sè, il suo senso di sé, la fiducia in se stesso.

Ritengo utile tornare sull'argomento nel prossimo numero per riflettere insieme sia sull'idea di gioco sia sugli attuali orientamenti per verificare come e quanto essi tutelino il diritto al gioco.

A presto

Laila Scorcelletti
Insegnante elementare - Velletri

Articolo pubblicato su Il Bambino e l'Acqua Sporca num.23, novembre 1997.

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