Il Bambino e l'Acqua Sporca. Coordinamento Genitori-Insegnanti

Parliamo di Educazione


Critica della pedagogia





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Le cose importanti

GIOCARE

Sono cresciuta in una città industriale del Nord, nella periferia raccolta attorno ad una grande fabbrica. Dopo la scuola, il gioco per strada, nel cortile, negli squallidi prati sottratti all’edilizia popolare, ha costituito per me, e per molti miei coetanei, una fonte di gioia e di meraviglia inesauribili. Il gioco, e le relazioni che lo rendevano possibile e che esso stesso alimentava, ci servivano a sopportare la scuola, la noia e l’ansia determinate da una sventurata persecuzione adulta sull’imparare come simulazione della durezza del lavoro futuro. Non siamo stati più felici, e forse non siamo cresciuti più equilibrati di quanto accada e accadrà ai nostri figli, ma abbiamo imparato che la cooperazione e la fantasia sono un antidoto alla durezza del vivere.

Questo ricordo personale mi serve per introdurre alcuni nodi che mi pare facciano del gioco ancora una questione centrale, anche in questa nostra epoca di cambiamenti sociali tanto radicali sulle diverse età della vita e sugli stili e i modelli con cui attraversarle, da diventare antropologici. Mi serve per dire che il gioco lo considero essenziale, tanto più essenziale proprio perché stiamo attraversando un momento oscuro, povero di sogni e di utopie, e non so se potremo essere buoni traghettatori per i nostri figli, aldilà di esso.

I nodi sono:

1-gioco e disinteresse

2-gioco e tempo

3-gioco e età della vita: bambini, adolescenti, adulti

4-gioco e relazioni

 

1- Il disinteresse

Il gioco è un’attività disinteressata. Questo non significa che esso e’ inutile e consegnato irrimediabilmente alla irrealtà, ma semmai che ha degli scopi che sono tutt’uno con l’attività stessa del giocare. I buoni esiti della attività ludica non si progettano prima, ma si valutano come effetti positivi a posteriori, che rimotivano a ricominciare il gioco. Questo lo dico perché mi preme che non venga tolto valore a tutto ciò che si muove al di fuori dell’utilitarismo produttivo. La scuola, addirittura nel suo primo percorso formativo - lo leggiamo nel documento del Ministro Berlinguer - orienta le sue scelte guardando esclusivamente al mondo adulto della produzione, con il tragico paradosso di pensare all’educazione dei nostri figli come una lunga preparazione ad un lavoro che non c’è e, se c’è , è sempre meno controllabile in uno spazio politico, pubblico . In questo scenario di adultismo feroce, anche il gioco diventa irrealtà, diventa tempo sottratto ai ritmi della vita organizzata intorno ai tempi sociali, essendo la produzione e il consumo di beni l’unica presa sulla realtà e l’unica immagine della sua razionalità. Il gioco, e meglio di me da altri e’ stato detto, lavora su un diverso piano della realtà umana, esso, come del resto lo sono le prime esplorazioni nel mondo fatte dai bambini, offre continuamente occasioni di dislocazioni simboliche, di sostituzioni, come metafore dei ruoli e degli scambi sociali, che costituiscono un serbatoio di elaborazioni necessarie, emotivamente e cognitivamente. Ma, insisto, se per i bambini giocare e imparare è tutt’uno, diffido delle operazioni adulte di strumentalizzazione del gioco, anche in funzione didattica. Così come imparare è imparare intanto per sé, per la propria comunità di appartenenza e per la propria vita, giocare è vivere un’esperienza che non deve ricevere senso dall’esterno, avendolo intrinsecamente. Basta, allora, con il gioco consegnato esclusivamente alla lettura e allo sforzo pedagogico degli insegnanti e alla smania di raccolte indiziarie degli psicologi. Facciamo semplicemente giocare i bambini. Nelle periferie delle città americane la voce infantile del rap giovanile, si chiama "dozens", acrobazie verbali. Sono giochi linguistici fatti per ingannare il tempo e la tristezza, per stare insieme, per darsi dei codici segreti dai quali tenere alla larga gli adulti. Tutti gli insegnanti di lingua oggi giocano ai giochi linguistici con i loro alunni, e fanno bene, purché ricordino che non stanno giocando i bambini, se non quando, lasciata l’aula, lanciano la palla al muro reiterando filastrocche e rimando sul ritmo imposto dai rimbalzi del pallone. Si potrebbe, forse, per intenderci meglio sulla radicalità e sull’assolutezza dell’esperienza di gioco, parafrasare quel che FOUCAULT dice del sogno, altra attività umana priva di scopo apparente ".....esso è portatore di profondi significati umani, non perché denunci i meccanismi nascosti o ne sveli i congegni disumani, non ancora umani, ma al contrario, perché mette in luce la più originaria libertà dell’uomo".

Ultima considerazione su questo nodo: il lavoro oltre ad essere orientato a scopi produttivi, è vincolato dalle tecnologie e dalle procedure d’uso degli strumenti di cui si serve. I giochi che i bambini dovrebbero fare con macchine e oggetti ad alta tecnologia non assomigliano, per vincoli di regole, ad un lavoro? Ci domandiamo perché molto spesso i bambini circondati da oggetti strani e sofisticati non sanno che farsene e si limitano - tristissimo -a collezionarli?

 

2 - Il TEMPO

Se si mantiene allertata l’attenzione al gioco come attività disinteressata, l’altro problema è quando far giocare i bambini. Il tempo segmentato e incalzante degli adulti, ha colonizzato la vita dei bambini. Un tempo "regolativo" , come mai è stato nel passato.

Anche i bambini delle classi meno abbienti hanno poco tempo da dedicare al gioco.

La scuola, la televisione, gli impegni legati alla sport, a cui farò cenno più avanti, drenano il tempo del non far nulla, quello cioè più propizio all’invenzione dei giochi. Quando e con chi fare le discussioni iniziali per negoziare un gioco, per stabilirne le regole, per farne infinite variazioni? E qui rientra in campo la scuola. La scuola a tempo pieno, lo riguardavo proprio di recente in alcuni testi storici, tipo un DE BARTOLOMEIS del 1972, ormai resi obsoleti dal silenzio istituzionale, considerava lo spazio-tempo per il gioco "libero", sacrosanto. "Libero", insisto, cioè porzioni di tempo svuotate dalla presenza adulta, gli insegnanti discretamente a vigilare e ...a imparare guardando giocare i bambini. Nella scuola iper-organizzata dei moduli, dove un insegnante entra e l’altro esce, anche il gioco è finalizzato a qualcosa. Estremizzo, ma sono abbastanza a ridosso della realtà, si concorda nel team a chi, a quale attività, quel breve tempo di intervallo fra l’incalzare delle lezioni, va sottratto. Il tempo pieno invece, lo riscontro osservando i bambini dai vetri del mio ufficio e dai racconti di mia figlia, ha mantenuto un serbatoio di gioco all’aperto, "di strada" , enorme. Giochi antichi e qui si potrebbe fare qualche considerazione fra etologia e antropologia, diffusi, con poche varianti in tutto il mondo: le mille attività con la palla, quando non è interamente fagocitata dal football, la corda, l’elastico, i giochi di abilità motoria, quelli di ruolo...quelli verbali di cui parlavo prima.

Il conformismo interpretativo sui cambiamenti in atto, ci dice che non c’è più spazio per giocare: la strada è infida, i cortili sono condannati al deserto dai regolamenti condominiali, il verde è fruibile solo occasionalmente, le strutture esterne delle scuole sono poco invitanti. C’è tutta una retorica sullo spazio, sul "verde", ma il problema non credo sia questo.

Il problema è quel che ho detto: il tempo e il suo impiego. Penso ai terribili spazi verdi e attrezzati che fanno da sfondo alle vicende dei film "Clockers" e "L’odio", nelle periferie razionali di Parigi e di alcune città americane. Pochi bambini perduti nei loro occhiali virtuali, molti spacciatori poco più che bambini. Un mondo tetro e terribilmente serio, orientato a scopi adulti ha soppresso il gioco.

 

3 - SOLO BAMBINI?.

Ma allora se il gioco è tutto questo, se dispone di una potenza tale da mettere in moto tanti aspetti tipici dei processi di umanizzazione, l’affettività, la socievolezza, la costruzione comune di conoscenza, è chiaro che esso non è solo trasversale rispetto alle attività infantili, ma, in maniera longitudinale, può attraversare tutte le età della vita. Giocano gli adolescenti? Giocano, davvero, con le modalità di cui sopra, gli adulti ? Nell’adolescenza il gioco sembra subire un processo di estinzione. almeno questo vedono gli insegnanti e i genitori, di questo sono responsabili insegnanti e adulti. I ragazzi non giocano più, ma provocano e scherzano, forzando i limiti delle imposizioni sociali. Non solo gli adolescenti fanno sport o vivono ai margini dello sport - lavoro. In quel che dico sono ampiamente in debito con due bellissimi libri, quelli di SIGRID LOOS e di DANIELE NOVARA , sui giochi cooperativi . A proposito della retorica sullo sport, gli autori ricordano come si sia spesso detto che esso è promotore di pace e fratellanza, di come l’agonismo canalizzi l’aggressività, favorisca i processi di differenziazione e di crescita. Nessuna base scientifica su tutto ciò, anzi molte spie del fatto che lo sport sia sempre stato assai poco apparentato con il gioco, con quel disinteresse e quella meraviglia di cui parlavo.

La prima spia ci viene dalla lettura dei resoconti giornalistici, dove le metafore guerriere abbondano, e dalle caratteristiche del tifo. Cito dal libro di Loos: "se il rito sportivo appare rigidamente codificato...i tifosi varcano continuamente il confine del simbolo ed è difficile farli retrocedere". La seconda spia è un puro indizio etimologico: la comune radice delle parole "agonismo", "agone" e "agonia". Sia l’uno che l’altro libro invitano gli adulti a favorire il gioco degli adolescenti, a non oscurarlo come un’espressione di infantilismo o di regressione, anzi, a reinventargli dei tempi in cui il bisogno di gruppo si faccia amicizia e la volontà dissacratoria, "humor". Giocare rende possibile anche conoscersi fra sessi. L’inutilità apparente del gioco rende analogamente inutili il machismo, la competizione, il bullismo, tutti quei comportamenti ritualizzati, privi cioè di rappresentazioni e di simbologie morbide, flessibili, creative, aperte al mutamento.

E vengo all’ultimo nodo. E se lo riduco alla fine e in poco spazio è solo perché da solo darebbe l’opportunità di farne una intera conferenza.

 

4 - Le relazioni.

BATESON sostiene che il gioco obbliga ad esplorare le relazioni. E’ quasi un’ovvietà ricordare che le relazioni fra esseri umani assomigliano, nei loro complessi protocolli di annodamento , di presa di distanza, di scambio e di conflitto, ad un sofisticato gioco di ruoli. Non penso tanto a BERNE, ma di più a GOFFMAN e a WATZLAWICK, che molto ci hanno svelato sui nostri comportamenti relazionali in pubblico e in privato, orientati da regole e da infinite variazioni.

Penso piuttosto a VYGOTSKIJ dove, non a caso, la passione scientifica era fortemente sostenuta dalla tensione morale. Penso al suo teorizzare un mondo infantile che in maniera cooperativistica apprende e gioca. Senza relazioni significative, non c’è vita sociale politicamente degna. La qualità delle relazioni costruisce saperi "moderatamente" e "provvisoriamente" dominanti, produce coscienze continuamente critiche verso di essi. Penso al lavoro delle donne sull’importanza dello scambio a partire da sé, al lavoro paziente di tessitura dei legami , nonostante e grazie la presenza creativa dello stesso conflitto. Nel gioco si litiga e si trovano compromessi, si accetta di essere contraddittori se la coerenza, come attaccamento alle proprie idee, rischia di inficiare la creazione comune di piacere, la parola e il gesto veicolano desideri e rappresentazioni collettive.

 

Concludendo, cosa può fare un consorzio civile e politico per contrastare l’utilitarismo dominante, la ferocia dei tempi di vita e di lavoro? Credo quello che si va facendo qui, a Velletri: aprire al dialogo in modo spregiudicato sulle questioni che ci riguardano, inquadrando sempre i problemi all’interno di linee di interpretazione più ampie, che non facciano sfuggire la vastità dei mutamenti in corso e la spietatezza delle ideologie economiche dominanti; aprire la città, dando spazio e tempo a tutte quelle attività umane che sembrano condannate da altri modelli di vita. Liberare il tempo di vita attraverso il gioco, che non è svago. Infatti non abbiamo bisogno di divagare, ma semmai di provare ad esserci , in modo più consapevole.

Renata Puleo

direttrice didattica - Roma

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