Seconda stazione: "Il rapporto insegnante - alunno".
Riflessioni sul concetto di normalità
Ci eravamo lasciati con una domanda di quelle scottanti: "Qual
è il confine tra la normalità di cui andiamo tanto
fieri e la malattia mentale"?
Non credo che ci sia, in proposito, una risposta precisa, ma potremmo
ricorrere a vari tentativi di risposta.
Ce ne sono alcune che nel corso del tempo mi hanno affascinato
più di altre perché le ho sentite più vicine
al mio modo di percepire e di pensare, vorrei quindi rivederle
con voi.
Lessi il primo libro di Freud a 12 anni: non capii quasi nulla,
ma rimasi colpita dal fatto che lui parlava di una stessa fondamentale
psicologia basata su leggi universali, uguali per l'individuo
sano e per l'individuo malato, quella delle dinamiche dell'inconscio.
Quando, nell'ultimo anno delle magistrali, conobbi l'Enrico IV
di Pirandello, mi sembrò di ritrovare quello stesso concetto...
Vedete se pare anche a voi.
Enrico IV. L'elogio della pazzia (Atto secondo).
Enrico IV: (...) Loro sì, tutti i giorni, ogni momento
pretendono che gli altri siano come li vogliono loro (...) E'
il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire (...)
vi fanno subire ed accettare il loro, per modo che voi sentiate
e vediate come loro! O almeno si illudono! Perché poi che
riescono a imporre? Parole! Parole che ciascuno intende e ripete
a suo modo. Eh, ma si fanno pur così le cosiddette opinioni
correnti! E guai a chi si trovi bollato da una di queste parole
che tutti ripetono! Per esempio: "pazzo!" Per esempio,
che so? "imbecille!" (...) Schiacciare uno col peso
di una parola? Ma è niente!
Enrico IV. La catastrofe (Atto terzo).
Enrico IV: (...) Sono guarito signori: perché so perfettamente
di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! Il guaio è
per voi che la vivete agitatamen-te, senza saperla e senza vederla,
la vostra pazzia.
Belcredi: Siamo arrivati guarda, alla conclusione che i pazzi
adesso siamo noi!
Contribuendo al mio orientamento culturale, sia Freud che Pirandello
mi hanno dato la possibilità di cogliere l'impercettibilità
e labilità del confine tra normalità e devianza.
Ma un ulteriore contributo mi è stato offerto, qualche
anno dopo, dalla lettura del Manuale critico di psichiatria
di Giovanni Jervis (psichiatra).
"La follia, più che essere una caratteristica intrinseca
ad una persona, un aspetto evidente di un dato individuo come
persona fisica, è un giudizio che viene espresso sul suo
comportamento. La follia è anzitutto un giudizio
di devianza; in pratica, è il nome che si dà a certe
violazioni delle regole del vivere sociale. Assai meno chiaro
è l'aspetto psicologico personale della follia: cioè
che cosa è la follia per l'interessato. Quale è
la sua condizione psicologica reale, vissuta, che cosa
gli funziona o non gli funziona, e perché, e come, nella
testa?"
"Che ci sia qualcosa di "diverso" dentro di
lui, dentro il suo modo di sentire e ragionare, rimane sempre
un'ipotesi. Questa ipotesi, proprio per la sua fragilità,
rinvia sempre e ancora a una valutazione della persona e della
persona globale, non soltanto del suo comportamento più
o meno occasionale". Ed ancora: "(...) in realtà
non esiste alcun modo per distinguere con chiarezza ed obiettività
chi è folle da chi non lo è. Gli esperimenti condotti
da Rosenhan sono noti. Se un tale equilibrato e tranquillo si
presenta in un ospedale psichiatrico dicendo - falsamente - di
aver "sentito delle voci" e chiedendo il ricovero, ma
comportandosi in modo normalissimo e non nascondendo né
inventando nulla della propria vita, il suo destino è di
ricevere l'etichetta di schizofrenico, di subire le cure più
varie e poi di essere dimesso come "migliorato" dopo
alcune settimane: il suo comportamento (come quello di prendere
appunti sulla vita interna manicomiale) è stato interpretato
regolarmente come "malato". Non solo nessuno dei falsi
pazienti di Rosenhan fu scoperto: quando egli avvertì un
ospedale psichiatrico che avrebbe mandato altri falsi pazienti,
questo ospedale giudicò come simulatori inviati appositamente
ben 41 su 193 pazienti entrati, quando in realtà non ne
era stato inviato nessuno".
Mi astengo dal commentare...
Non proseguo con citazioni di altri autori, che pure ci aiuterebbero
nel rispondere alla domanda da cui siamo partiti, e mi scuso per
avervi proposto un tipo di materiale che generalmente viene giudicato
"noioso" in un lavoro di riflessione. Dal canto mio
trovai queste opere vivaci e stimolanti, e lo sono realmente nella
misura in cui riescono a crinare e a scalfire le sovrastrutture
della nostra formazione.
Nel campo dell'insegnamento questi contenuti sono, a mio avviso,
dei pilastri, sia nel rapporto con l'alunno, sia nella formazione
del docente.
In relazione al rapporto con l'alunno vorrei dire che ogni qualvolta
leggo il pezzo in cui Enrico IV dice "E guai a chi..."
penso a quando noi, come insegnanti, facciamo così con
il bambino. Riflettiamoci insieme e vediamo come ciò si
collega anche alla formazione del docente.
Quando un bambino entra nella scuola portando il suo handicap,
il suo problema o un particolare condizionamento culturale o socio-famigliare,
raramente "schioda" da quella situazione: l'istituzione
scolastica, anziché porsi come un'organizzazione complessiva
capace di "decondizionare" (termine caro a tutta la
letteratura pedagogica degli anni 60 e 70), quasi sempre, non
essendo in grado di affrontare adeguatamente il problema, "ufficializza",
"etichetta" ed ingessa una situazione definendo come
"caratteriale", "asociale", "dislessico",
"paranoico", "border-line"... e via dicendo,
chiunque ponga problematiche che non trovano spazio di soluzione
nell'attuale pseudo-organizzazione scolastica.
Mettere il marchio, molto spesso, ha unicamente il fine di declinare
quasi ogni responsabilità circa il fallimento di un'azione
di reale decondizionamento. Uso il termine "reale" per
precisare che una scuola pubblica che si ponga come struttura
decondizionante, non sarebbe un'utopia, se solo si volesse investire
in tale settore, curando la preparazione psicodinamica degli insegnanti,
la costituzione, ed il mantenimento, di una équipe psico-
pedagogica composta da persone fatte di carne ed ossa, presenti
nell'edificio scolastico, concretamente reperibili e, non ultimi,
l'edilizia e l'orario scolastico, prevedendo spazi e tempi anche
terapeutici.
La scuola è l'unica istituzione pubblica che ha la possibilità
di vedere tutti i cittadini; rinunciare all'occasione di
restituire il proprio a chi è svantaggiato, solo perché
non ci si vuole organizzare per farlo, potrebbe significare perdere,
forse per sempre, l'occasione di recuperare "con un costo
ragionevole" un cittadino che un domani potrebbe ritrovarsi
nella necessità di essere "assistito", e non
più "recuperato", con un costo sicuramente maggiore.
Ma torniamo al docente: l'équipe "specializzata",
seppure necessaria, non dispensa l'insegnante dalla sua funzione
quotidiana di "vivere" il rapporto con ogni alunno e
con tutti gli alunni. Dicevamo, tempo fa, della necessità
di tratteggiare una nuova figura di docente e direi che, gradatamente,
ha iniziato a prendere forma: avere una buona preparazione psicodinamica;
rispondere ai bisogni dell'alunno; funzionare da ambiente supportivo...;
ma tutto questo, senza una valida esperienza d'analisi, non credo
possa concretizzarsi. Come potremmo rispondere al bisogno di un
bambino, senza aver preso coscienza del nostro bisogno?
Come funzionare da ambiente supportivo se non abbiamo fatto i
conti con il nostro "essere vacillanti"?
Come utilizzare una buona preparazione psicodinamica senza "avere
sentito" cosa significa ciò nella nostra persona?
Finiremmo per etichettare ancora una volta... Ci fermiamo qui;
non abbiamo ancora toccato il vivo della questione "analisi",
ma l'abbiamo nuovamente introdotta; prometto che la prossima volta
entrerò subito nell'argomento partendo da alcune esperienze
concrete. Del resto, ho ritenuto necessaria questa parentesi di
riflessione per poter condividere e gustare meglio il contenuto
del prossimo incontro. Per ora vi saluto cordialmente e vi auguro
un anno scolastico "buono" e "positivo", nonostante
tutto (a buon intenditor, poche parole...!).
Laila Scorcelletti
insegnante elementare - Velletri (RM)
Articolo pubblicato su Il Bambino e l'Acqua Sporca num.13, ottobre 1994.
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