Il Bambino e l'Acqua Sporca. Coordinamento Genitori-Insegnanti

Su un altro treno








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Seconda stazione: la formazione psicodinamica del docente

Nel numero 9 della rivista ci eravamo lasciati con l'impegno di parlare della formazione psicodinamica pratica del docente, ma nel numero 10 non sono riuscita a trovare lo spazio per avviare tale riflessione; inizierei quindi subito da questo aspetto, riguardante la seconda stazione.

Direi che un serio cammino d'analisi dovrebbe essere, per ogni docente, una tappa propedeutica all'insegnamento.

Questa è solo un'opinione, sicuramente discutibile, che si è andata ad insinuare gradatamente, con il tempo, nel mio bagaglio culturale e che si è radicata in esso man mano che, con il passare degli anni, curando la preparazione psicodinamica teorica e vivendo in prima persona una concreta esperienza d'analisi, ero costretta a rivedere anche tutto ciò che ruotava intorno al mio ruolo di docente, compreso il rapporto con l'alunno.

Quando X (bambino portatore d'handicap) frequentò con noi la prima classe elementare, ero già in analisi da sette mesi, perché dentro di me avevo finalmente maturato la decisione di intraprendere "quel percorso". Non dimenticherò mai la mattina in cui con le mie quattro colleghe (insegnanti di un modulo 4 su 3 e insegnante di sostegno) entrammo in contatto per la prima volta con il suo pianto straziato, carico di una lacerante angoscia, senza poter decodificare le sue richieste, senza poter alleviare la sua sofferenza, senza poter instaurare un rapporto immediato (X era vicino alle sofferenze caratteristiche di un bambino autistico).

L'insegnante che all'epoca svolgeva la funzione di psicopedagogista ci aveva dato alcuni suggerimenti da utilizzare in caso di "crisi": fare una barriera umana intorno ad X che funzionasse da contenimento per lui e da protezione per gli altri bambini e (suggerimento riguardante ogni situazione) entrare in relazione con lui gradatamente, una persona alla volta, man mano che lui ne mostrasse, in qualche modo, il desiderio, senza soffocarlo con le nostre presenze.

Ma quella mattina le cose andarono così: la crisi di X si manifestò in un'aula vuota del piano e, non essendoci altri bambini da tutelare in quel luogo, ognuna di noi si trovò direttamente coinvolta nella profonda essenza del dramma umano che egli proponeva. Non c'era scampo: prendere o lasciare. Da, l'insegnante di sostegno, sensibile, attenta e disponibile sul piano empatico, era come un pulcino spaurito che doveva fare i conti con qualcosa di troppo, troppo grande; Gi, leggendo il panico negli occhi di Da, prese subito sotto la sua materna protezione sia Da che X, si avvicinò e si candidò ad entrare in relazione con lui per prima. Dovete sapere che Gi ha degli occhi tondi e scuri sulle cui pupille è stampato un costante senso di maternità, ha un corpo comodo ed accogliente con il quale abbraccia chi abbia bisogno di sentirsi figlio per un po'; lei riesce a farlo quasi senza fatica e senza rimanere troppo coinvolta nelle angosce dell'altro, salvando così la sua serenità di fondo.

Io guardavo la scena dalla porta dell'aula; anche Ti si avvicinò e, da incurabile "altruista" assunse subito il ruolo di prendere i calci e i pugni di X. Ti è un po' come Gi, ma anziché abbracciare ed accogliere, lei si mette a completa disposizione di chi è angosciato fino a farsi completamente carico del suo dolore.

Da, invece, mi si avvicinò titubante, dicendo: "La barriera, dobbiamo fare la barriera, e poi lì sono in tre, una alla volta, dovevamo fare una alla volta...!" La guardai con occhi supplichevoli, lei capì che non era il caso di insistere. Le parole della psicopedagogista, in quel momento, suonavano nella mia mente come qualcosa di ridicolo ed inadeguato: una barriera al posto di un contatto...! Mah!

"Guardi un attimo tu le classi?" le chiesi.

Lei ne fu lieta: in quella situazione non sapeva quale fosse il ruolo suo, il fatto che io avessi in pratica deciso per lei, la rassicurò, perché avrete già capito che Da ha sempre paura di sbagliare e nel decidere sulle sue azioni ha il timore d'invadere lo spazio altrui, tanto che a volte... rinuncia a definire il proprio.

Rimasi ancora immobile sull'uscio, non ero in grado di fare nulla, poi una fitta, un forte dolore nel petto e decisi di ritirarmi nell'auletta del caffè, mi sentivo proprio male. Lì, raccolsi il mio braccio sinistro nel destro, mi abbracciai, il suo pianto arrivava alle mie orecchie e si mescolava al mio...

Suonò la campana...

Ci guardammo un po' negli occhi tutte e cinque, poi a casa, eravamo a pezzi.

Ho scelto di condividere questo ricordo perché ritengo che da solo basti a farci evidenziare quanto segue:

  • X ci propone qualcosa di sé che scatena una dinamica delle relazioni;
  • tale dinamica è unica ed irripetibile poiché non dipende solo da ciò che propone X, ma anche dalla peculiarità di Da, Gi, Ti, Do, e La (che sono io);
X è certamente un caso particolare, ma l'insegnamento nella sua quotidianeità, propone continuamente dinamiche di relazione che, probabilmente, si muovono comunque all'interno di un medesimo schema

Figura 1

nel quale Db sta per domanda del bambino in relazione ai suoi bisogni ed Rp sta per risposta dell'insegnante direttamente proporzionale alle sue possibilità.

Quando la risposta dell'insegnante si può adattare ai bisogni del bambino si stabilisce tra i due un rapporto. Ma le cose non vanno sempre così.

Accade spesso, molto più spesso di quanto si pensi, che il bisogno espresso da un bambino (attraverso le caratteristiche del suo modo di apprendere) vada a toccare un'area irrisolta della personalità dell'insegnante.

Lo schema, allora, viene a modificarsi in questo modo:

Figura 2

Il bambino propone all'insegnante il suo bisogno, ma l'insegnante vacilla, non può fornire la risposta forse perché avverte il medesimo bisogno, dall'inconscio partono pungicatine d'avvertimento: sta per salire ad un livello conscio qualcosa che magari pensava di avere già risolto.

Ahi, ia iahi! Direbbe un noto presentatore!

La situazione ha varie possibilità di evoluzione, l'insegnante potrebbe esplodere, come nello schema, non solo perché sente (il tutto avviene sempre ad un livello empatico indipendentemente dalla comunicazione verbale) la frustrazione di non poter fornire una risposta adeguata all'alunno, ma anche perché somma le due angosce (la sua e quella del bambino) poi o le tiene lei, scivolando in uno stato d'animo d'impotenza e di depressione (con quel bambino non so proprio come fare... pensa che suo padre è così, sua madre colì, il fratello...) o, non potendole tenere, le rimanda entrambe sul bambino, caricandolo (sei un bambino impossibile, sei cattivo, ma guarda che fai...).

A volte si crea una dinamica per cui, allo scopo di far uscire da qualche parte l'angoscia prodotta di continuo da questo tipo di rapporto, ci si stuzzica a vicenda, provocando situazioni che consentano e garantiscano piccole esplosioni quasi calcolate (ma lo fai per dispetto...!).

Altre volte, invece, si erge il muro, l'insegnante inconsciamente sente di "non poter toccare il tasto premuto dal bambino", deve pertanto rinunciare ad instaurare un reale rapporto di comunicazione con lui.

Le riflessioni fatte dovrebbero aver assolto a due funzioni:

  • motivare l'affermazione con la quale avevo aperto questo nostro incontro (un serio cammino d'analisi...)
  • spiegare i termini (incontrare l'alunno; investire; non farcela) evidenziati nel numero 10 della rivista e non approfonditi in quel frangente.

Ora dovrebbe infatti apparire chiaro che dal punto di vista psicanalitico queste espressioni hanno un significato profondo perché incontrare veramente l'alunno vuol dire anche fornire "una risposta" ai suoi bisogni, ma tale risposta è possibile solo se come adulti possiamo investire le nostre energie in tale campo ed infine possiamo investire solo se sentiamo di "farcela" nel tollerare ciò che in noi viene "smosso" dalla richiesta dell'alunno.

Le riflessioni fatte, dicevo, motivano anche la mia affermazione iniziale, ma a tale proposito credo ci sia ancora qualcosa da dire: nel nostro paese la comune cultura associa l'idea dell'analisi quasi unicamente al concetto di malattia mentale, mentre in realtà le cose non stanno proprio così.

E poi qual è il confine tra la normalità di cui andiamo tanto fieri e la malattia mentale?

Qui la questione si fa seria e lunga, sarà bene lasciarci proprio con questa domanda di modo che ognuno possa fare le sue considerazioni in proposito. Mi associo a quel personaggio nell'usare l'espressione "Meditate gente, meditate" e la unisco al solito cordiale saluto.

Laila Scorcelletti
insegnante elementare - Roma

Articolo pubblicato su Il Bambino e l'Acqua Sporca num.12, giugno 1994.

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