Il Bambino e l'Acqua Sporca. Coordinamento Genitori-Insegnanti

Parliamo di Educazione

Su un altro treno








This page hosted by

Get your own
Free Home Page

Prima stazione: il vissuto del bambino

Ci siamo lasciati con l'intenzione di approfondire una serie di argomenti: ritengo utile iniziare con il concetto di "introiezione". Già dall'uso che facciamo di questo termine nel comune codice linguistico, ci appare chiaro che esso ha a che fare con il "mettere dentro", essendo vicino, nel suo significato, all'idea di "introdurre".

Anche nel campo psicanalitico, l'essenza del termine non cambia, ma, diramandosi nei meandri della psiche, assume sfumature e connotazioni sulle quali è opportuno riflettere.

Ferenczi, Freud, Abraham, Melanie Klein, Winnicott... e tanti altri analisti hanno studiato ed elaborato l'argomento da ogni punto di vista. Mi pare che Paula Haimann, nel riferire su tale concetto, pur collegandosi maggiormente a Melanie Klein, raccolga i contributi dei vari autori, in una sintesi molto chiara e piuttosto esauriente, dalla quale vorrei partire.

"L'introiezione è attiva fin dall'inizio. Dal principio della sua vita il lattante ha degli impulsi istintuali, e fra questi gli impulsi orali detengono il primato nelle fasi più precoci dello sviluppo... Essi, come tutti i desideri istintuali, hanno una duplice origine, una di natura libidica e l'altra distruttiva; quest'ultima va considerata la causa endogena dell'angoscia. ll lattante mangia tutti i suoi oggetti, e li mangia per amore, per odio, perrabbia e per paura."

Ed ancora: "...le fantasie (inconsce) mobilitate nell'atto del mangiare determinano il carattere degli oggetti inghiottiti o incorporati. In virtù dei suoi impulsi orali, il lattante si costruisce un mondo interno che contiene le copie degli oggetti con cui è in contatto nel mondo esterno. Ma queste copie non sono ritratti fedeli: sono gli oggetti esterni così come sono stati trasformati dai suoi impulsi e dalle sue fantasie".

Queste parole di Paula Haimann, ci riportano, addirittura e finalmente, ad affrontare il terzo punto evidenziato quale parte integrante del tessuto del bambino "come vive...dentro di sé le singole figure e la coppia genitoriale".

Ricordo, ai nuovi e vecchi abbonati, che iniziammo i nostri incontri di riflessione sulla rivista, proprio sul vissuto del bambino e che la frase evidenziata è estrapolata dal primo articolo in cui tracciavo i punti essenziali del percorso che è stato poi intrapreso nei numeri successivi (vedi Numero 5-Agosto 1992).

Le parole di Paula Haimann, ci fanno capire che l'Es del bambino, nonostante l'iniziale assenza di un Io organizzato e di un sé‚ comincia ad incorporare parti delle persone (oggetti) con cui entra in contatto (prioritariamente il seno della mamma), connotandole e caratterizzandole in base ai desideri istintuali, agli impulsi, alle sensazioni che accompagnano l'incorporazione dell'oggetto (il latte, il seno e le altre parti della persona, fino a comporre l'intera madre, il padre, quindi la coppia genitoriale).

Sicuramente i moti emozionali provati dal bambino durante l'incorporazione, sono collegati sia al grado di empatia della madre (come abbiamo detto più volte), nella sua capacità e possibilità di interpretare e decodificare il pianto del bambino, sia agli stimoli e alle sensazioni che dal proprio corpo giungono, più o meno sgradevolmente, al suo Es (fame, sete, dolori provenienti dalle varie parti del corpo, eccitazione dei genitali, bruciore da arrossamenti, freddo , caldo...).

Tali sensazioni lo inducono a piangere, ma non sempre la madre può comprendere tempestivamente le cause del pianto; del resto il grado di dipendenza del lattante è assoluto e quando qualcuno non interviene aiutandolo a risolvere il suo disagio egli non ha altra possibilità che piangere, passando gradatamente alla rabbia,

alla paura, all'angoscia, fino alla disperazione. Per lenire la fame e la sete, l'allucinazione del seno può rallentare questo precipitare, ma per le altre emozioni deve essere più difficile. Voi capite che il grado di empatia della madre è fondamentale perché il neonato possa gradatamente incorporarla come "rassicurante e affidabile", piuttosto che come persecutoria. Considerando poi che la perfetta intesa, probabilmente, potrebbe non esistere, è importante "incorporare" una madre adeguata attraverso una quantità tale di esperienze empaticamente riuscite, da "disinnescare" il potenziale psichico di quelle fallimentari.

Abbiamo già avuto modo di evidenziare come una madre consenta al bambino la sperimentazione dell'onnipotenza quando fornisce al lattante ciò di cui ha bisogno, al momento giusto e cioè, prima che egli precipiti nei meandri angosciosi attraverso la percezione netta del suo stato di assoluta dipendenza.

L'onnipotenza, quindi, è una sensazione che permette al lattante di difendersi dall'angoscia che sentirebbe, e che a volte sente, a causa del livello assoluto di dipendenza.

Non solo la madre, aiutata dal proprio narcisismo, si identifica con il bambino stabilendo con lui quell'intesa che la rende adeguata come madre, ma anche il figlio si identifica con la madre quando, onnipotente, pensa di possedere egli stesso il seno che lo nutre.

Il narcisismo primario, quindi, è fondato anche su questa identificazione che il bambino compie con la madre, in cui egli "fonde e confonde lo schema rudimentale del sé con quello materno... senza distinguere tra il sé ed il non sé" (queste parole sono tratte da appunti presi durante uno dei seminari di Jannakoulas e credo siano proprio fedelmente le sue).

Con il tempo, mano a mano che il grado di dipendenza dell'infante diventa meno assoluto, il lattante è in grado di percepire in modo meno mostruoso e catastrofico le sensazioni spiacevoli; avendo sperimentato la continuità della madre nel prendersi cura di lui, egli la sente affidabile e può quindi tollerare piccole esperienze di frustrazione senza precipitare.

La madre che empaticamente si è identificata con il figlio, sente quando il piccolo può sperimentare l'attesa. Tale esperienza è fondamentale perché il bambino inizi a percepire la madre come diversa dal suo sé. Identificandosi con essa egli aveva messo in sé l'oggetto che lo nutriva, ora deve poterglielo restituire, riconoscendole un'identità propria e, soprattutto, riconoscendo a sé stesso un'identità distinta da quella materna, questa volta (gradatamente) definita e limitata, quindi non più onnipotente.

Ma nel fare questo egli ha paura di perdere l'oggetto amato, ecco perché passa lentamente dall'identificazione primaria e dall'incorporazione, legate al narcisismo, alla introiezione.

Nel riferire sul lattante, Paula Haimann parla subito di introiezione, mentre Jannakoulas, naturalmente nei suoi seminari, tendeva a sottolineare la processualità con la quale avviene l'introiezione. Per comprendere ciò, occorre distinguere l'identificazione primaria, in cui il bambino si percepisce come fuso con la madre, da quella secondaria.

Si può parlare di identificazione secondaria quando il bambino inizia a percepire la madre come "non me", come oggetto; c'è quindi un "Io" che comincia a funzionare e che controlla l'identificazione utilizzandola psichicamente.

L'identificazione, in questo senso, viene usata spontaneamente, quando, sentendo la madre come oggetto e non più come parte del suo sé, il bambino teme di perderla e quindi si identifica con lei nel tentativo di ripristinare l'identificazione primaria, ma questa risulta un'illusione poiché c'è già un abbozzo di Io che inizia a funzionare e che, salvo patologia, controlla tale processo gradatamente, quindi egli utilizza l'identificazione come mezzo per essere vicino all'oggetto quel tanto che gli necessita per sentirsi da esso amato ed approvato. In questo senso, l'identificazione secondaria permette al bambino di aumentare l'autostima e di rafforzare quell'abbozzo di Io, attraverso la celebrazione che i suoi genitori fanno di tutte le sue piccole conquiste.

Attraverso i consensi ed i dissensi dei genitori, aiutato dall'identificazione, il bambino inizia a percepire come. piacevole l'approvazione genitoriale e come spiacevole la disapprovazione, collegando gradatamente a tali sensazioni il suo concreto vissuto.

E' in questo delicatissimo spazio psichico che si gioca differenza tra il vero e il falso Sé; ma ci rifletteremo dopo, perché preferirei orientare prima il discorso sull'evoluzione dell'identificazione secondaria. Attraverso quest'ultima, il bambino, con molta gradualità, acquisisce quasi la consapevolezza di quali siano le esperienze incoraggiate dall'approvazione genitoriale distinguendole da quelle scoraggiate o, come spesso succede, impedite o vietate.

Accade poi che il bambino sia in grado di sentire questo, all'interno del suo Io, anche quando il genitore non è concretamente presente nell'incoraggiarlo o nel dissuaderlo: ciò significa che egli ha internalizzato la coppia genitoriale e che, ad un livello strutturale, sta organizzando, con il sostegno dell'Io, un'altra agenzia interna, quella denominata Super Io. Si può parlare di formazione del Super Io, quindi, solo quando al processo dell'identificazione si unisce quello della introiezione, con il quale il bambino, appunto, introietta i suoi genitori, ma non così come essi sono, bensì il loro condensato.

Questa condensazione è caratterizzata dal modo in cui si combinano le caratteristiche effettive che connotano la coppia genitoriale nel loro modo di vivere la genitorialità e la percezione che il figlio ha di loro, percezione fondata anche sulle prime incorporazioni e le sensazioni ad esse legate. Questo primo abbozzo di Super Io, rappresenta per il bambino un incoraggiamento verso la sua indipendenza, poiché, se i genitori sono dentro di lui, egli se ne può concretamente separare, senza peraltro perderli.

Ancora una volta il grado di empatia della madre è fondamentale nel garantire al bambino la possibilità di vivere esperienze preziose dal punto di vista evolutivo.

Il suo compito è arduo: quietare la propria ansia, appena il figlio è pronto a sperimentare il funzionamento di un Io, finalmente distinto da quello materno, ma non da esso lontano, consentendogli di vivere in uno spazio intermedio che sta tra lei e lui.

Questo spazio psichico, chiamato da Winnicott "transizionale", è di fondamentale importanza e sarà opportuno dedicargli un tempo di riflessione tutto suo, magari nel prossimo numero.

Ora, per proseguire nel nostro discorso, è sufficiente chiamarlo in causa per collocare in esso la formazione del vero Sé, di cui parlavamo nell'articolo precedente. Una madre che non consente al figlio di sperimentare ciò, probabilmente ostacola la formazione ed evoluzione delle agenzie psichiche (Io, Super Io..) e mortifica il radicarsi di un vero Sé, utilizzabile nel tempo.

Separarsi dalla madre, quindi, significa sia introiettare le figure genitoriali senza fare continuamente riferimento al loro concreto consenso, sia agire sotto l'influsso del vero Sé.

E' utile parlare del falso Sé, per comprendere meglio il concetto di vero Sé.

Sicuramente sarete in attesa delle consuete parole di Winnicott: è il momento di gustarle.

"Il falso Sé si costituisce su una base di compiacenza. Può avere una funzione difensiva, che è la protezione del vero Sé. Un principio che governa la vita umana potrebbe essere formulato nel seguente modo: solo il vero Sé può sentirsi reale, ma il vero Sé non deve mai essere influenzato dalla realtà esterna, non deve mai essere compiacente. Quando il falso Sé viene utilizzato e trattato come reale, nell'individuo c'è un senso di futilità e disperazione. Naturalmente nella vita individuale ci sono tutte le gradazioni di questa situazione, così che solitamente il vero Sé è protetto, ma ha una certa vita e il falso Sé coincide con l'atteggiamento sociale". Quando il bambino sente che la madre, o chi per lei, non è in grado di garantirgli il rispetto di questo spazio in cui può germogliare il vero Sé, percepisce anche che, per sentirsi amato, egli deve essere proprio come i suoi educatori lo vogliono; contemporaneamente sente che la mancanza di questo spazio minaccia prepotentemente il vero Sé.

Per paura dell'annientamento, l'Io costruisce "un falso Sé" che nasce proprio con l'intento di uniformarsi alle richieste inadeguate degli adulti, proteggendo, tenendo nascosto quello vero, con la finalità di preservarIo, mantenerlo vivo.

Sicuramente a riguardo si possono fare molte considerazioni anche sul rapporto docente-alunno, ma preferisco rimandarle alla prossima volta, quando avremo chiarito il concetto di spazio e oggetto transizionale.

Considerate comunque, e naturalmente, le mie parole sul vero e falso Sé, come un'introduzione ad un concetto di sicuro non facile da esprimere a parole, sul quale vi invito a riflettere, leggendo direttamente gli Autori.

Ecco in proposito alcune parole di M. Masud R. Khan, che ritengo un utile contributo nella messa a fuoco dell'argomento.

"Le principali caratteristiche dell'organizzazione del falso Sé sono:

1) La sua funzione difensiva per nascondere e proteggere il vero Sé, qualunque cosa

si intenda con ciò.

2)I1 falso Sé si preoccupa principalmente di cercare le condizioni che daranno al vero Sé la possibilità di ricevere ciò che gli spetta".

Ciò che nasce, comunque, come una difesa può diventare una patologia. Dice Winnicott in proposito: "Al livello estremo dell'anormalità il falso Sé può facilmente essere preso per reale, così che sul vero Sé grava la minaccia di annientamento; il suicidio può essere allora una riaffermazione del vero Sé".

A tranquillizzare gli animi, diciamo subito che esiste un equivalente normale del falso Sé, in cui il bambino sviluppa un'organizzazione dell'Io che, interagendo con l'ambiente, si adatta ad esso... ma il discorso è lungo per affrontarlo ora.

Quindi vi lascio, al solito, con il cordiale saluto, affidando a questo incontro elementi utilizzabili sia per una comprensione più approfondita dell'articolo pubblicato sul numero precedente, sia per una pronta e scorrevole lettura del prossimo.

Allora al prossimo incontro.

Laila Scorcelletti
Insegnante elementare - Velletri

Articolo pubblicato su Il Bambino e l'Acqua Sporca num.18, gennaio 1996.

1