La tv per il bambino

Pier Cesare Rivoltella, Università Cattolica del S.Cuore

 

"Osservando leggere certi bambini, appare evidente che non scorrono il testo con il tipo di movimenti saccadici dell’occhio tipici del lettore allenato, ma "buttano gli occhi sulla pagina" come se trasferissero la strategia visiva dallo schermo televisivo al testo. Sembra che lancino occhiate alle cose, guardandole diverse volte come se stessero componendo un’immagine per dar senso alla pagina. Questo può avere un impatto cognitivo importante: invece di percorrere il testo in modo da creare e immagazzinare immagini, i bambini che guardano la TV devono operare una rapida generalizzazione partendo da frammenti labilmente connessi e ricostituire così l’oggetto della visione".

Si tratta di uno dei tanti giudizi che in questi ultimi anni sono stati avanzati sul rapporto tra la televisione e il bambino. Chi lo formula è Derrick de Kerckhove, successore di McLuhan al Centre for Culture and Technology dell’Università di Toronto, tra gli studiosi uno fra i più attenti alla capacità dei media di influenzare i comportamenti degli individui, di incidere sullo sviluppo della nostra specie. Il suo parere è sintomatico del dibattito in corso per almeno due ragioni: anzitutto, perché invita a riflettere sulle dinamiche psico-cognitive profonde che governano il rapporto del bambino con la televisione, sintomo dell’importanza e della significatività in ottica evolutiva dei processi in gioco; in secondo luogo, perché "centra" la sua preoccupazione (la maggior parte degli studiosi è "preoccupata" nei confronti della televisione) soprattutto sul processo di apprendimento e le trasformazioni che esso sarebbe costretto a subire (approccio visivo vs approccio riflessivo) chiamando di conseguenza in causa le responsabilità dell’educazione.

 

Cosa fa la televisione ai bambini?

Il punto di vista del ricercatore canadese costituisce un primo modo di declinare l’oggetto del nostro intervento: la televisione, per il bambino, è anzitutto, sostanzialmente, un rischio, un pericolo. Si trovano d’accordo su questo dato psicologi e pedagogisti, associazioni dei consumatori e insegnanti, opinionisti e conduttori televisivi, non mancando di alimentare il mercato della notizia e della pubblicistica specializzata con discorsi di taglio e target diversi ma tutti concordi nella denuncia. Recentemente abbiamo provato a farne sintesi incrociando le due coppie categoriali degli effetti a breve e a lungo termine e di tipo cognitivo e comportamentale. Ne è risultato che la televisione può produrre nel minore: emulazione, inducendolo, ad esempio, a lanciarsi dalla finestra come l’uomo ragno (effetti comportamentali a breve termine); fenomeni di proiezione e identificazione, facendolo sentire una tartaruga ninja o portandolo a vivere sullo schermo le vicende dei suoi eroi preferiti (effetti psico-cognitivi a breve termine); ancora, essa può inibire la creatività fino a decretare la morte dell’immaginazione, ristrutturare i processi mentali, incidere sulla strutturazione dell’identità personale, produrre effetti a livello della trasformazione del linguaggio o dei ruoli sociali, ecc. (effetti psico-cognitivi a lungo termine); infine, può indurre la trasformazione delle relazioni sociali, esportare le pratiche di consumo ai comportamenti sociali (lo zapping televisivo che produce uno zapping sociale, cioè un approccio alle cose discontinuo, insoddisfatto, volubile), creare frustrazione nell’aprire una forbice tra la realtà rappresentata e la realtà "reale" (effetti comportamentali a lungo termine).

L’aspetto interessante (o il problema, secondo il punto di vista) è che tutte queste ipotesi hanno visto crescere in maniera proporzionale tutta una serie di controipotesi che hanno trovato spazio di articolazione sugli stessi canali di quelle contro cui reagivano, dalla pubblicistica specializzata all’arena collettiva dei media. In sostanza, per ogni psicologo che documenta la propria preoccupazione in un dibattito televisivo, è possibile trovare un sociologo che, al contrario, invita ad assumere atteggiamenti rilassati e distesi in quanto, nel consumo infantile di televisione, di pericoli oggettivamente non ve ne sono.

Il risultato è stato (ed è) la produzione eccessiva di discorsi sui rischi della televisione per i bambini, che risulta dannosa per diverse ragioni: anzitutto perché fornisce a chiunque gli elementi minimi per sentirsi competente a prendere posizione in proposito (forse solo il calcio offre un esempio altrettanto efficace di facile discorsivizzazione) abbassando il livello della discussione e banalizzandone i toni; perché, di conseguenza, polarizza sull’argomento l’attenzione dell’intero corpo sociale rischiando di inflazionarlo e, a lungo andare, di fargli perdere di attualità e interesse; infine, perchè produce una sovrapposizione dell’elaborazione discorsiva (cosa diciamo che la televisione fa ai bambini) rispetto alla realtà dei fatti (cosa fa realmente la televisione ai bambini) che rischia di non consentire più un’adeguata valutazione del problema.

 

Cosa fa la televisione per i bambini?

Rispetto alla questione di cui stiamo trattando, cioè quella dei presunti effetti della televisione sul minore, è sempre esistita una sorta di zona franca costituita dalla presenza nei palinsesti di una fascia di programmazione appositamente pensata per un pubblico di ragazzi: se, dunque, la televisione in generale potrebbe anche costituire per il bambino un pericolo, c’è una televisione che è per i bambini e che, quindi, non solo non costituisce un rischio ma, addirittura, pare essere un investimento educativo.

Nel caso della televisione italiana quest’area protetta trova la propria genesi nel gennaio del 1954, cioè contemporaneamente all’inizio della programmazione ufficiale della Rai, e si fissa poi, a partire dai primi anni Sessanta, in uno standard che sopravviverà immutato fino al 1975, anno della "riforma" del servizio pubblico televisivo. In tutti questi anni la "Tv dei ragazzi", in onda quotidianamente dalle 17.00 alle 18.30, costituisce uno spazio autonomo all’interno della programmazione dotato, pur con i suoi limiti, di una precisa linea pedagogica: quella dell’amusing education, l’educazione divertente, che presa a prestito dalla BBC si compendia in Italia nel mandato alla televisione di non limitarsi a lasciar crescere i bambini, ma di aiutarli a farlo.

Questa linea attraversa diagonalmente l’intera programmazione per i ragazzi, organizzata nei tre generi dell’informazione (Giramondo), della divulgazione culturale (Vangelo vivo) e dell’intrattenimento (Lo Zecchino d’oro, Chissà chi lo sa?), e individua subito nel pubblico infantile, quello dei bambini in età prescolare, un target specifico. Fino al 1967, la scelta è di dedicare a questa fascia in particolare la programmazione del mercoledì, trasformandola dopo questa data in un appuntamento giornaliero (Per i piccini) che dalle 17.00 alle 17.30 "apre" la Tv dei ragazzi.

Con l’avvento delle televisioni private alla metà degli anni Settanta e la progressiva trasformazione della televisione — che abbandona la vocazione pedagogica del suo periodo "classico" per quella commerciale e spettacolare che oggi conosciamo — anche la Tv dei ragazzi va soggetta a mutazioni significative. In particolare essa segue il processo che fa della neo-televisione (così viene chiamata questa fase della storia del mezzo) una televisione tendenzialmente generalista (cioè incapace di differenziare in base al target la propria offerta), ibrida dal punto di vista dei generi (in cui la distinzione tra informazione e intrattenimento, cioè, non è più così netta) e caratterizzata dalla presenza determinante della pubblicità.

L’attuale programmazione per i ragazzi consente di verificare questo dato. Programmi come Bim bum bam (Rai), Solletico e Go-cart (Mediaset), sono dei contenitori in cui momenti di gioco in studio o a casa, attraverso la telefonata in trasmissione, servono da collante per una serie di appuntamenti fissi (di solito cartoni animati o fiction) e, soprattutto nel caso delle reti commerciali, per gli spazi promozionali.

Ha fatto eccezione a questa tendenza un programma-culto come L’albero azzurro, ideato nel 1990 dalla Rai per un pubblico di bambini di età compresa fra i tre e i sei anni e trasmesso in orari diversi sulle tre reti dal lunedì al venerdì. Ripresa dell’originaria vocazione educativa dell’ente pubblico, anche grazie alla collaborazione di un valido gruppo di autori e dell’équipe di ricerca bolognese del Prof. Piero Bertolini il programma ha saputo imporre un vero e proprio "Stile Albero Azzurro", "intendendo con ciò il modo particolare di rivolgersi ai bambini con proposte, suggestioni, attività che distinguono quel programma da tutti gli altri".

 

Cosa fanno i bambini con la televisione?

I due punti di vista sino ad ora illustrati ci hanno consentito di descrivere una situazione che pare fortemente dialettizzata. La televisione, in termini manichei, vi costituisce per il bambino o un rischio da evitare, o un recinto protetto, con la conseguenza di distinguere radicalmente una televisione "buona", quella dei ragazzi (anche se, come abbiamo visto, in contesto neotelevisivo essa perde buona parte delle sue consegne educative tradizionali), e una televisione "cattiva maestra", quella generalista e commerciale che riempie la maggior parte dei palinsesti.

Ora, il problema va inquadrato forse in maniera diversa rispetto a questa prospettiva tradizionale. Infatti, in essa, l’attenzione è portata più sulla televisione nella sua capacità di indurre comportamenti nel minore, che non sul minore nella sua capacità di interagire con essa. L’implicito che sta dietro a questa impostazione è la convinzione di una sostanziale recettività ingenua del bambino, per cui, pare di poter dire, varrebbe nel caso del suo rapporto con la televisione lo stesso principio che gli informatici hanno fissato per il computer: "Garbage in, garbage out", spazzatura dentro, spazzatura fuori. Il bambino, in sostanza, come "macchina stupida", influenzabile in negativo o in positivo secondo i casi.

La ricerca recente tende a spostare i termini della questione, ripensando il bambino come un soggetto che interagisce con altri soggetti e con l’ambiente simbolico in cui vive. I bambini non sono mai passivi, nemmeno quando sono seduti davanti al televisore: in esso, infatti, raccolgono solo immagini e situazioni che sono significative per loro, appropriandosene non nei termini di una mera registrazione, ma di una rielaborazione personalizzante. Non solo. Sul loro consumo di televisione incidono anche le relazioni familiari, il loro rapporto con il gruppo dei pari, il contesto culturale entro il quale si trovano a vivere. Tutto questo rende impossibile parlare genericamente di effetti della tv sul bambino: occorrerà verificarli caso per caso a partire dall’insieme delle variabili cui abbiamo fatto cenno.

Naturalmente questo non può configurare per l’educatore la convinzione di non avere in fondo responsabilità nei confronti di un minore capace di rapporto autonomo e significativo con il mezzo. Piuttosto richiede che l’educazione, ai diversi livelli (scolastico, familiare, nel tempo libero), ripensi i propri compiti in relazione a questo nuovo profilo di utente infantile, sforzandosi di andare oltre l’ipotesi "inoculatoria" che intende l’educazione alla televisione come forma di tutela del minore, "un processo attraverso il quale gli insegnanti hanno creduto di vaccinare o proteggere i propri studenti contro quelli che essi ritenevano essere gli effetti negativi dei media".

Alcune indicazioni in proposito vengono da Ben Bachmair, professore presso la Gesamthochschule di Kassel, in Germania. Si tratterà di aiutare il bambino a contestualizzare ciò che vede, a usare l’immaginario televisivo in maniera creativa per dar corpo alle proprie costruzioni simboliche, a orientarsi dentro il mondo della televisione adottando opportune "rotte di navigazione". Una nuova concezione del ruolo educativo, dunque, maggiormente orientata verso una forma di tutoring che tende ad accompagnare il minore, più che a proteggerlo o addestrarlo all’ortoprassi.

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