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LA CROCE E LA MEZZALUNA

Gentili navigatori di Internet desidero porre alla vostra attenzione un racconto di mio cugino Gennaro che mi è pervenuto in modo quasi inaspettato. Non sapevo di questa sua passione letteraria anche perchè non lo vedevo da molto tempo. Ho ritenuto opportuno inserire alcune note sull'autore e una breve recensione del racconto

Mario Ierardi

L'autore: Gennaro Leopoldo è nato a Salerno il 14-10-1963. Dopo aver conseguito il diploma di perito chimico industriale ha iniziato a lavorare presso una multinazionale che produce vetro a specchio. L'autore nutre una grande passione per la letteratura italiana e straniera. In particolare segue con attenzione il ciclo letterario russo che riesce ad apprezzare anche in versione originale. Si diletta a scrivere poesie e piccoli racconti. In un concorso letterario. si è classificato al 17° posto su circa 500 partecipanti.

Il racconto:" LA CROCE E LA MEZZALUNA " E' un lungo componimento che per i suoi risvolti storici e fantastici si può collacare nel genere fantasy. Ci troviamo all'epoca delle crociate. Il protagonista è BEDIR,un arabo-cristiano, nato per caso in Monferrato, che, per mantenere una promessa fatta al padre sul letto di morte, vuole tornare in Terra Santa. A questa vicenda si alternano altri avvenimenti fantastici. Carminuccio e' il personaggio che con la sua fanciullesca curiosità funge da pretesto per la narrazione della lunga serie di avventure accorse a Bedir e agli altri personaggi.


La croce e la mezzaluna

di Gennaro Leopoldo



Il mare si stendeva calmo come una lastra d’argento tempestata di diamanti. Un vecchio stava nella sua barca,compagna di lunghi anni di mare, e si deliziava ai delicati aliti del ponentino; non aveva fretta di arrivare a casa e, remando lentamente su quel mare liscio come l’olio, assaporava il tiepido tepore della buona stagione, quasi fosse stato quello l’unico premio alle fatiche della sopravvivenza. Era ormai giunto nelle vicinanze della riva e le flebili fiaccole poste innanzi alle povere ma dignitose case dei pescatori lo guidavano come una scia di piccole lucciole. Giunto nei pressi della battigia con enorme dispiacere notò la mancanza del suo unico e piccolo amico, Carminuccio; che spesso volentieri, lo aiutava a tirare in secco il vecchio gozzo. Con fatica issò la barca sulla piccola spiaggia e gettata per terra la rete vuota, si sedette sulla sabbia con le gambe incrociate; assorto in profondi pensieri, fissava le onde che s’infrangevano in mille rivoli di spuma bianca contro gli scogli. Ad un tratto l’attenzione di Bedir fu distolta da un frusciare di piccoli passi sulla sabbia bagnata. Improvvisamente il viso del vecchio si illuminò: si era accorto, infatti, che a venirgli incontro era proprio Carminuccio. Il ragazzo ansimante ma felice salutò affettuosamente Bedir. "Scusami tanto se non c’ero quando sei arrivato ma mia nonna mi ha costretto ad andare al mercato insieme con lei. Ti prego solo di continuare a raccontarmi le tue storie di pirati saraceni". Bedir guardandolo con affetto misto a tenerezza, replicò "Raccontare a te quelle storie è soprattutto la mia gioia, poiché esse mi ricordano l’infanzia". Così era Bedir: la felicità del ragazzo consisteva nell' occasione di poter discorrere con qualcuno e di comunicare quelle emozioni di cui era tanto ricco; in quei momenti percepiva di essere importante e che la usa vita aveva un senso in quel deserto d’umanità in cui era costretto a rimanere. Tre anni erano infatti passati da quando era stato raccolto in mare dai pescatori di quel microscopico paese, che con riverenza frammista a timore non solo lo avevano lasciato in vita, ma anche curato e nutrito per quasi un anno. Ad origine di quello strano e non abituale comportamento, era certamente quel gran tatuaggio disegnato sul petto, una croce sovrapposta ad una mezzaluna, che aveva acceso la fervida superstizione dei semplici pescatori. Nei due anni seguenti, aveva vissuto da solitario, un po’ per suo desiderio, ma soprattutto per costrizione. Gli abitanti del paese, infatti cercavano di stargli lontano, paura e diffidenza circondavano la sua persona; i pescatori avevano intessuto su di lui delle storie inverosimili e leggendarie, che lo trasformarono ben presto in un personaggio temuto e rispettato, non solo dagli abitanti del luogo, ma anche da quelli che erano posti nelle zone circostanti. Solo Carminuccio era riuscito ad infrangere con la sua innata e instancabile curiosità l’aura di mistero che avvolgeva il vecchio arabo e a conquistarsi la fiducia di Bedir, che nutriva per lui sentimenti di paterno affetto e stima. Molte volte il ragazzo gli aveva chiesto il significato di quel tatuaggio che gli aveva salvato la vita; lui si era sempre mostrato evasivo a tal proposito,ma affermava che sarebbe presto venuto il giorno in cui avrebbe compreso da solo. A quel punto il ragazzo mostrò tutta la sua impazienza e ripeté "Bedir, allora, vuoi cominciare a raccontare quella nuova storia di pirati, sai che non vedo l’ora di ascoltarla". Alla richiesta del ragazzo, gli occhi di Bedir s’illuminarono come le lanterne usate dai pescatori nelle loro uscite notturne; in quei momenti Bedir dimenticava tutto, la fame, il freddo, perfino se stesso e la sua povera esistenza. Dopo un attimo di riflessione, fissando un punto lontano, al di là dell’orizzonte pervaso da quel mare così affascinante e terribile nello stesso tempo e che era stato il tragico arbitro del suo destino, iniziò con voce sommessa il racconto: "Nell’anno dodicesimo di regno dell’emiro Helin, fu deciso, insieme ai rais della regione, di organizzare una gran flotta per vendicare la morte del primogenito dell’emiro, caduto sui bastioni del torrione normanno, nell’odiata città di Selirnum. La maestosa flotta di più di settanta galee si mosse solennemente e dopo una lunga traversata giunse finalmente nei pressi del golfo di Selirnum. L’impazienza dell’emiro di vendicare la morte del figlio era grande, ma i suoi consiglieri gli suggerirono di attendere il momento opportuno. Era quasi l’imbrunire. Nella notte senza luna, le nere vele delle galee saracene non sarebbero state viste e la sete di vendetta dell’emiro si sarebbe presto placata. Al segnale convenuto, le galee si mossero; scivolando silenziosamente sulle onde si avvicinarono all’insenatura. In lontananza si stagliava il piccolo colle dominato dalla torre di guardia. Iniziò così il lungo assedio. Gli altri figli di Helim ogni giorno si recavano sotto le mura normanne, e con insulti e grida incitavano gli assediati ad uscire e a combattere in campo aperto. Dopo l’ennesima sfida, un nobile normanno, Norberto, non resse più le offese e, fattosi aprire il ponte levatoio, si scagliò a spron battuto su un cavallo bianco contro i saraceni. Allora uno dei figli di Helin, Abdul, si mosse a sua volta verso il cavaliere; il suo destriero era nero come un tizzone dell’inferno. Inseguendosi a vicenda sulla spiaggia, nell’aspro combattimento rimasero ben presto appiedati. Ormai quasi privi di forza erano giunti nei pressi di due grandi scogli che si ergevano poco distante dalla riva; la sera stava lentamente scendendo sui duellanti; le spade, urtandosi tenacemente, irradiavano nugoli di scintille che illuminavano i volti dei cavalieri. Ad un tratto, i due si ritrovarono con l’acqua alla vita. Infatti, nella foga del combattimento, non si erano accorti che la marea stava avanzando; le loro residue forze erano però impegnate in quella lotta ormai ai limiti dell’umana sopportazione, e probabilmente il riflusso del mare li avrebbe sommersi prima ancora che uno di loro avesse ceduto. La luna piena aveva con i suoi argentei raggi illuminato la scena del tragico duello. I contendenti non possedevano più l’impeto del guerriero, si regalavano a vicenda delle lunghe pause, nelle quali gli occhi di entrambi si lanciavano intensi sguardi pieni d’odio. Norberto, sebbene fosse ferito sulla fronte ed il sangue gli colasse quasi sugli occhi, fu attratto da un particolare sulla spalla del suo nemico, rimasto nella lotta seminudo. Alla pallida luce della luna distinse un tatuaggio: riconobbe subito il delfino, simbolo del suo casato che il padre possedeva al pari di tutti gli altri rappresentanti maschili, e che veniva impresso immediatamente dopo la nascita. Con dolore misto a pietà, si rese conto che di fronte a lui vi era il fratello che non aveva mai conosciuto, e di cui gli avevano sempre parlato, quello che era stato rapito dai predoni per un riscatto mai più richiesto. Frattanto il saraceno stava raccogliendo le forze per sferrare, forse, l’ultimo attacco ma il suo proponimento fu reso vano davanti all’atteggiamento dell’avversario che non si apprestava alla difesa, ma al contrario gli faceva segno di abbassare la spada e nello stesso tempo indicava la spalla dove vi era il tatuaggio. Abdul allora capì ogni cosa. Molte volte si era interrogato su quel tatuaggio, ma i suoi genitori non avevano mai saputo spiegargliene l’origine. Intanto la marea li aveva quasi completamente avvolti; essendo entrambi gravemente feriti e privi di forze, non sarebbero mai riusciti a raggiungere la riva. "Goffredo!" Gridò disperatamente Norberto. Il saraceno sembrò comprendere, poiché gettò via l’arma e tese le braccia al fratello; l’altro a sua volta ricambiò quel primo e quasi certamente, ultimo abbraccio. Nei loro occhi non vi era più odio, essa aveva lasciato il posto alla gioia d’essersi ritrovati. Morirono senza un lamento, di fronte quei due scogli che da allora in poi la gente del luogo chiamò i "Fratelli", ad eterno simbolo della fratellanza universale degli uomini, superiore a qualsiasi odio. Intanto gli assediati, seguendo l’eroico esempio di Norberto, tentarono la sortita. I saraceni nereggiavano alla base del colle come formiche, ma i normanni, presi dal loro atavico furore, cominciarono con grida acutissime, nelle loro scintillanti armature, ad aggredire i turchi. Questi ultimi spaventati da tanto ardore guerresco, si fecero prendere dalla paura che si trasformò in timore panico;infatti, i cavalieri normanni sembravano invincibili, nemmeno le frecce saracene riuscivano a fermarli, mentre le loro spade ed armature si arrossavano del sangue turco. A questo punto i saraceni, vista la mala parata, si diedero ad una fuga disordinata rendendo ancora più facile, la tremenda carneficina dei normanni. I pochi sopravvissuti salirono in fretta e furia sulle galee abbandonando precipitosamente la scena del massacro. Sulle pendici di quel piccolo colle rimasero i corpi di più di quindicimila saraceni. Increduli essi stessi dell’opera appena compiuta, i normanni esultarono con alte grida a quella vittoria, propiziata dall’eroico sacrificio di Norberto; a perpetuo ricordo di quell’impresa, e a severo monito nei riguardi dei saraceni, quel luogo fu chiamato la "Carnaia". Il ragazzo aveva ascoltato il racconto di Bedir senza pronunciare parola; era ancora rapito dalle splendide immagini che il vecchio era riuscito ad evocare, dalla voglia d’avventura che l’arabo, nonostante l’età veneranda, pareva emanare. Intanto, il sole si stava lentamente celando nell’immenso scrigno azzurro, gli ultimi raggi purpurei colpivano i volti, immobili, del vecchio e del ragazzo. Carminuccio si scosse dal torpore; era tardi, la nonna probabilmente, era già sulla soglia in attesa del suo ritorno, si alzò di scatto e dopo aver velocemente salutato Bedir, stava per allontanarsi, quando il vecchio lo richiamò con un agile gesto e traendo di tasca un’ampolla di vetro gliela porse dicendo "Tieni! Dalla a tua nonna, è per la sua artrite, dille di spalmare l’unguento, ogni mattina, nei punti che le fanno male; dopo una settimana sarà capace di muoversi più agevolmente e senza dolore". A quell’offerta, il ragazzo non si stupì più di tanto; era ormai abituato agli improvvisi slanci di generosità del vecchio, sapeva che ciò faceva parte del carattere di Bedir, dare, senza aspettarsi nulla in cambio; sapeva, che non era di cose materiali che l’arabo aveva bisogno. Dopo averlo ringraziato, Carminuccio si avviò verso casa. Nel tragitto rifletteva su quanto poco conoscesse del passato del vecchio, passato che si era sempre guardato dall’indagare, un po’ per discrezione, ma soprattutto per affetto. Rimasto solo, Bedir s’immerse pensoso nei ricordi. Le immagini gli ritornavano in mente senza sforzo, si rivide giovane, pieno d’ardori e di voglia di girare il mondo. Col bastone istoriato da pellegrino, il giovane Bedir si avviava per l’irto sentiero; quel bastone era stato scolpito da suo padre: in larghe volute era narrata tutta la storia dei suoi avi; le figure intarsiate, semplici e bellissime nella loro ingenuità popolare, raccontavano le vicissitudini dei bellicosi predoni giunti dalla Spagna in Provenza attraverso le Alpi, di quando il padre Yousuf e la sua banda, braccati da Aleramo del Monferrato e dai mercenari scozzesi, erano stati sconfitti a Vinchio. Sul piccolo colle, rimasero i corpi dei compagni di Yousuf; lui, sebbene gravemente ferito, era riuscito a fuggire sui monti. Fu solo grazie all’ospitalità di una contadina, Alda, che sarebbe poi diventata sua sposa, che Yousuf si salvò. Non era raro, infatti, che questi campagnoli accogliessero benevolmente le bande di predoni che imperversavano sul territorio. Il lavoro della terra era duro e faticoso e spesso era più facile morire di fame che per mano dei Saraceni;spesso, quindi, i poveri contadini erano portati ad odiare più il feudatario, con le sue continue ed inumane vessazioni, che i predoni stessi. Probabilmente era questo, lo stesso pensiero dei signorotti del luogo e del conte Aleramo, che cercavano in tutti i modi di far tornare la gente di campagna nei rispettivi feudi. Yousuf, riconoscente, sposò la giovane contadina, convertendosi alla religione cristiana; passò gli ultimi anni della sua vita serenamente, ma sempre con la segreta speranza di poter un giorno tornare nella sua patria. Alla nascita di Bedir, Yousuf volle che su di lui fosse impresso un eterno segno d’appartenenza; gli tatuò sul petto una gran mezzaluna simbolo dell’Islam ed una croce, rappresentante la sua avvenuta conversione. Bedir cresceva felice e spensierato, tra i giochi dei ragazzi di campagna e i racconti esotici di Yousuf, che voleva mantenere desto nel ragazzo l’interesse per il suo luogo d’origine. Il giovane Bedir, che in realtà era conosciuto come Pietro, il suo corrispettivo nome cristiano, era infatti molto diverso dai coetanei; in lui era presente quella voglia di vedere il mondo che il padre gli aveva saputo instillare sin dalla tenera età. Proprio quel tatuaggio che il padre gli aveva impresso rappresentava per lui un simbolo della voglia di conoscenza; infatti quella croce sovrapposta alla mezzaluna, nella sua ingenua fantasia di ragazzo, gli sembrava una galea che lo avrebbe portato in paesi lontani su quel mare che non aveva mai visto. Yousuf, prima di morire, riuscì a strappare al figlio una solenne promessa: sarebbe dovuto andare per lui nel suo luogo natio, per onorare i comuni avi. Pietro assentì con grande entusiasmo all’onore di questa richiesta paterna, promettendo che avrebbe fatto di tutto per esaudire le sue ultime volontà. Aveva ormai quasi vent’anni, quando gli si presentò l’occasione propizia. Infatti in un vicino monastero benedettino si stava organizzando un pellegrinaggio peri luoghi santi. Egli era appunto nell’intento di raggiungere il monastero e affrontava l’erta con il solo aiuto dell’istoriato bastone. Giunto, dopo un giorno di faticoso cammino, alle porte del monastero, venne ad aprirgli un vecchio monaco canuto, dall’aspetto benevolo.Squadratolo da capo a piedi, gli chiese chi era e cosa voleva; rispose che si chiamava Pietro e che era suo desiderio di recarsi in terra santa. Pietro fu poi presentato agli altri confratelli, che lo sottoposero quasi ad un interrogatorio; volevano infatti accertarsi che le sue intenzioni fossero certe e veritiere. Per i pellegrini infatti affrontare un così lungo viaggio era cosa pericolosa ed incerta, data la situazione d’instabilità dei paesi che avrebbero dovuto attraversare. I monaci erano titubanti per la giovane età del ragazzo, ma ciò che li convinse definitivamente fu una risorsa di Pietro, che lui non sospettava potesse essergli d’utilità. Si trovavano in quel momento nello scriptorium, dove i monaci trascrivevano le miniature degli antichi manoscritti. Pietro fu attratto da un polveroso tomo che riproduceva caratteri a lui familiari; preso allora il libro fra le mani, cominciò a leggere in arabo un trattato di medicina. Lo stupore dei monaci fu grande e nessuno osava pronunciare una parola. Solo il vecchio monaco canuto, il priore frà Girolamo, gli rivolse un sorriso affermando che la sua venuta era un segno del Signore; infatti quest’ennesimo pellegrinaggio doveva essere più importante dei precedenti, poiché il suo scopo sarebbe stato quello di rendere più facile la vita dei pellegrini a Gerusalemme, dove arrivavano in condizioni miserevoli e molti morivano poco dopo per la fame e per gli stenti. Nella lettera che avevano ricevuto un mese prima dai monaci amalfitani di Scala e firmata dal priore frà Gerardo Sasso, si richiedeva un monaco che avesse la conoscenza dell’arabo per contrattare con gli arabi Fatimiti la costruzione di un ospitale nella città santa di Gerusalemme. L’unico che avesse la perfetta conoscenza della lingua araba era lo stesso frà Girolamo, ma date le sue precarie condizioni di salute non avrebbe mai potuto affrontare il lungo e faticoso pellegrinaggio. Ora il suo arrivo aveva risollevato gli animi dei poveri monaci; sapevano che non avrebbero rischiato di perdere, forse per sempre, il loro amato priore. Pietro, invece, conscio di aver mentito affermando di avere imparato l’arabo da un vecchio eremita ritornato da Gerusalemme, non avrebbe mai rinunziato al proposito che suo padre aveva sempre desiderato. Pietro era felice, sia per se stesso e la promessa che avrebbe finalmente esaudito, sia per i monaci, di cui cominciava a condividere scopi ed aspettative. Dopo aver ricevute le ultime raccomandazioni del vecchio priore insieme ad una lettera di presentazione per i monaci amalfitani, Pietro si congedò. Si unì poi agli altri pellegrini, con cui avrebbe condiviso il lungo viaggio fino al lontano monastero di Scala, da dove si sarebbero poi imbarcati sulle galee amalfitane e trasportati, non senza pericoli, fino in terra santa. Il pellegrinaggio fu lungo e faticoso. Dopo aver recato degno omaggio al Pontefice nella città eterna, Bedir rimase impressionato dalla pompa e dallo sfarzo del clero romano in netto contrasto con la povertà dei monaci che aveva conosciuto. La carovana si divise poi in due parti. Una si diresse verso oriente per imbarcarsi presso la città di Bari, l’altra di cui faceva parte anche Bedir, si diresse verso sud, ad Amalfi da dove in primavera sarebbero salpate le galee del monaco Gerardo. Il ripido sentiero che i poveri pellegrini stavano affrontando, faceva dubitare lo stesso Bedir. Infatti a detta di molti, il monastero di Scala era ormai vicino, ma intorno, a perdita d’occhio, non si vedevano che boschi e montagne. Bedir sospettava quindi che la via fosse quella sbagliata ma una volta giunti sulla parte più alta del valico, distinsero chiaramente il fortificato monastero ed in lontananza, in un dolce degradare d’alture verdeggianti, una splendida riviera immersa in un mare d’indaco. Ad aspettarli sulla splendida piazza vicino al monastero c’era proprio frà Gerardo. Bedir guardandolo ebbe subito l’impressione che di fronte a lui ci fosse più un guerriero che un umile monaco, infatti l’aspetto fiero e baldanzoso di frà Gerardo ispirava un timoroso rispetto. Dopo che furono entrati nel monastero Bedir si fece coraggio ed avvicinatosi all’ardimentoso monaco gli consegnò la lettera di frà Girolamo. Gerardo la lesse avidamente e subito sul suo volto si dipinse un’espressione bonaria e sorridente. La sua prima impressione risultò errata, Gerardo era un monaco gioviale e amabile in netto contrasto con il suo aspetto autoritario. Trascinò energicamente Bedir nel refettorio e dopo avergli offerto del vino insieme a pane ed alici salate, cominciò a spiegargli il suo progetto. Gerardo gli disse che per molti anni aveva frequentato la famosa scuola medica salernitana e che quindi sarebbe stato in grado di curare la maggior parte dei malanni che avrebbero colpito i poveri pellegrini dopo il loro faticoso cammino e in caso disgraziatamente contrario, avrebbe dato loro sicura e cristiana sepoltura. Il suo ospitale, sarebbe divenuto secondo lui sempre più grande, poiché lo stesso Papa si era compiaciuto di questa iniziativa che rendeva più facile il viaggio pre i luoghi santi. L’entusiasmo del monaco si poteva leggere nei suoi occhi che si illuminavano in ogni momento del discorso. Bedir ascoltava in silenzio, non osando interrompere l’enfasi di frà Gerardo e nello stesso tempo gioiva di quell’autentico diluvio verbale. Infine Bedir che si era presentato al monaco con il nome di Pietro, capì che era arrivato il momento di congedarsi. Su consiglio di frà Gerardo, lui, insieme con una parte di pellegrini, sarebbe stato ospite ad Amalfi di alcune famiglie di pescatori. Quando fosse giunta la primavera, le galee avrebbero potuto prendere il mare per raggiungere l’agognata terra santa. Arrivato ad Amalfi, Bedir rimase sconcertato; il fasto e la potenza che aveva incontrato tra il clero romano non erano nulla in confronto all’opulenza di questa piccola città marinara. In ogni angolo si vedevano ori e drappi e si compravano e si vendevano oro, argento e stoffe. Mercanti siciliani, libici e perfino arabi inseguivano i possibili clienti con le loro mercanzie. La cittadina era splendida, la piazza, il fulcro della febbrile attività commerciale ed artigianale, era dominata dalla monumentale scalinata che portava al duomo dedicato a Sant’Andrea. Lì i mercanti si recavano in preghiera prima di ogni uscita in alto mare e questa devozione era testimoniata dai numerosi ed artistici ori che lo adornavano. Gli amalfitani non erano però soltanto degli abili marinai, commercianti e pescatori, erano anche degli ostinati contadini. Si erano guadagnati questa fama perché tutte le digradanti montagne erano coltivate a terrazze; vigneti, aranceti e limoneti cingevano dolcemente la prosperosa città. Amalfitani tenacemente testardi, poiché la terra che era servita per costruire quelle terrazze proveniva dall’Egitto, trasportata con fatica e sudore a bordo di quelle temerarie galee. Giunsero nei pressi dell’arsenale, dove da duecento anni i laboriosi mastri vi costruivano le loro agili navi. Bedir rimase meravigliato, le galee erano in quel momento in rimessaggio e se ne poteva apprezzare in pieno tutta la loro artistica bellezza, le prore slanciate decorate d’intarsi ed ori colpirono la fantasia del giovane arabo. Tante volte nei suoi sogni di ragazzo aveva immaginato di essere su una di quelle galee e di affrontare il mare aperto alla scoperta di nuove terre. La processione di pellegrini imboccò la piccola strada che doveva condurli al porto. Bedir che non aveva mai visto il mare fu preso da un irrefrenabile desiderio. Alla sua vista si mise a correre e lì giunto, vi s’immerse completamente, assaporando con tutti i suoi sensi la gioia di questa nuova e piacevole sensazione. Terminata l’entusiasmante esperienza, Bedir si riunì agli altri pellegrini che si stavano dirigendo verso le umili case dei pescatori. Ad accoglierli calorosamente vi erano però soltanto le loro mogli che, avvolte in scialli neri, vennero lentamente incontro ai pellegrini. Queste donne in assenza dei mariti si assumevano, oltre alle loro responsabilità, anche quelle dei propri uomini. La più anziana delle donne diede ufficialmente loro il benvenuto, dicendo che erano felici di dare ospitalità a quelli che avrebbero visto il santo luogo del supplizio di nostro Signore Gesù Cristo. La casa dove il giovane arabo capitò era simile alle case di contadini che egli ben conosceva, ma il decoro regnava sovrano. I pochi oggetti di arredamento erano lindi e ordinati, ed il sole che inondava la stanza conferiva al tutto un’aura di dignitosa umiltà. I gesti di questi pescatori che Bedir ebbe il tempo di conoscere bene, erano improntati a spontaneità e generosità d’animo, non vi era in loro nessuna malizia o falsità. Il tempo intanto passava veloce. Pietro, così veniva chiamato, si era subito abituato a quella semplice, ma dura vita, e accompagnava spesso Andrea, il vecchio pescatore che lo ospitava, nelle uscite per la pesca. Andrea aveva molti figli di cui alcuni ancora lattanti, ma Pietro aveva notato la bellezza di una delle sue figlie più grandi. Si chiamava Anna e fin dal primo momento il giovane arabo si era accorto di come i suoi sguardi fossero ricambiati. La primavera era ormai arrivata, per Piero si avvicinava l’ora della partenza, ma il suo desiderio di avventura si era affievolito, l’amore, invece, per la giovane, andava rafforzandosi di giorno in giorno. Sempre più spesso Pietro ed Anna si recavano al tramonto in spiaggia dove facevano lunghe passeggiate. La cosa non era sfuggita alla madre di lei che comunque non richiamò il giovane innamorato. Erano tutti a tavola, quando si sentì bussare alla porta. Andrea andò ad aprire e nella piccola casa apparve l’imponente figura di frà Gerardo che, con il suo solito sguardo bonario, salutò festosamente i presenti; Pietro, però, mantenne un’espressione triste nel viso. Gerardo la notò subito e stava per chiedergliene il motivo quando la madre di Anna intervenne e lo chiamò da parte. Dopo che ebbero parlato per un po’ di tempo, il frate ritornò da Pietro e gli disse che all’amore nemmeno Dio poteva opporsi, per lui non era poi così importante trovare qualcuno che sapesse l’arabo. Se il Signore Iddio voleva aiutarlo, lo avrebbe aiutato anche senza un interprete. Pietro abbracciò gioiosamente frà Gerardo e lo accompagnò alle galee che erano già pronte per la partenza, mentre gli altri pellegrini stavano per imbarcarsi. Tutta la popolazione di Amalfi era sulla banchina per salutare le galee che si stavano allontanando. Pietro giurò di nuovo a se stesso che a qualsiasi costo avrebbe mantenuto la promessa paterna. Dopo circa due mesi dalla partenza di frà Gerardo, Pietro sposò Anna. L’arabo conduceva una vita tranquilla tra la pesca e la coltivazione di alcuni vigneti a terrazze che aveva comprato anche per non dimenticare le sue origini contadine. Passarono così più di quarant’anni. Anna gli diede diversi figli e ad ogni loro nascita, Pietro in cuor suo si dispiaceva che non fosse presente frà Gerardo per impartirgli la sua benedizione. Un triste giorno però, proprio quando Pietro aveva raggiunto la maggiore serenità nella sua esistenza ed una delle sue figlie gli aveva donato la gioia del terzo nipote, una tremenda malattia gli prese la sua amata consorte. Ora per lui pareva non esserci motivo per vivere e cominciò a trascurare le sue abituali occupazioni. I suoi figli erano diventati adulti e non avevano più bisogno del suo aiuto. Fu a questo punto che giunse, provvidenziale e inaspettato, l’arrivo di frà Gerardo. Era molto invecchiato il monaco-guerrero, ma aveva conservato intatto sia l’aspetto autoritario che lo sguardo bonario e sorridente. Pietro gli andò incontro e l’abbracciò. Il frate cominciò subito a raccontargli di come avesse realizzato tutti i suoi progetti fondando l’ordine degli ospetalieri che era stato benedetto anche dal Papa e precisò che era ritornato per ritirare la lettera del pontefice Urbano II che avrebbe dovuto comunicargli notizie importanti; poi sarebbe nuovamente ripartito per Gerusalemme. Il cuore di Pietro si risollevò alle parole del monaco, finalmente avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a suo padre e dare pieno significato alla sua vita. Infatti aspettò che Gerardo tornasse da Scala per dirgli che era sua intenzione unirsi a lui per tornare in terra santa. Ma quando lo vide giungere con la faccia rabbuiata e severa, Pietro non ebbe il coraggio di fare domande e lo invitò a casa sua per mangiare, In un'atmosfera più distesa e conviviale forse sarebbe riuscito a comprendere quali erano le preoccupazioni del vecchio monaco. Come aveva previsto, Gerardo dopo che ebbe mangiato e soprattutto bevuto del buon vino, si acquietò e sul viso riapparve la solita espressione serena. Era questo il momento per Pietro d’interrogare il frate che, dopo un primo momento di titubanza, si sciolse ed espose il contenuto della missiva papale. Il Papa gli aveva comunicato che Alessio Comneno, imperatore di Bisanzio, aveva richiesto l’aiuto papale contro i turchi selgiucidi che minacciavano le sue terre e la stessa Costantinopoli. Il Papa Urbano, non volendo farsi sfuggire questa opportunità, era giunto alla conclusione che organizzando una spedizione militare con l’aiuto anche di Francia e Germania, avrebbe potuto riconquistare anche i luoghi santi che si trovavano a poca distanza dai possedimenti dell’imperatore Alessio. Papa Urbano II al grido di "Dio lo vuole" avrebbe presto riunito intorno a sé un grande esercito per una spedizione che si era subito affrettato a ribattezzare come "crociata". Lo scopo principale consisteva nel tentativo dei Christicolae milites di restituire la terra promessa ai cristiani in quanto erano i legittimi detentori. Tutto ciò aveva profondamente turbato l’animo di Gerardo. I suoi rapporti con il sultano di Gerusalemme erano caratterizzati da tolleranza e stima reciproca poiché il frate non si limitava a curare i soli pellegrini ma estendeva la sua opera caritatevole anche ai musulmani. Era necessario quindi, da parte sua fare al più presto ritorno a Gerusalemme per scongiurare almeno da parte del sultano delle possibili ritorsioni nei confronti degli altri fratelli ospetalieri che continuavano la loro missione. Dopo solo tre giorni tutto era pronto. La galea era già stata caricata dei viveri necessari anche per affrontare un eventuale assedio a Gerusalemme, gli ultimi a salire a bordo furono Pietro e Gerardo. La giusta rotta da seguire in alto mare era assicurata dal possesso della bussola che gli Amalfitani avevano imparato ad usare nei loro frequenti contatti con i popoli asiatici. L’urgenza di raggiungere la terra santa era testimoniata dalla sostenuta cadenza del tamburo che ritmava i gesti dei rematori. Il vento infatti era del tutto assente rendendo il mare piatto come una tavola, rotto solamente dal poderoso incedere della filante galea. A bordo regnava un certo nervosismo, frà Gerardo si alternava tra la coperta e la stiva dove andava ad incitare energicamente i rematori che si impegnavano al massimo delle loro forze. Una volta giunti in mare aperto, avrebbero certamente incontrato il maestrale e finalmente dispiegato la grande vela. Le condizioni dei rematori sulla maggior parte delle galee consistevano in un’esistenza ingrata che portava ben presto ad una sicura morte. Per questo motivo essi venivano spesso ingaggiati tra delinquenti o schiavi che passavano il resto della loro vita incatenati al remo. Gli Amalfitani invece reclutavano i rematori fra i loro robusti popolani. Essi erano stimati e ricompensati con generosità, poiché era dal loro decisivo contributo che dipendeva spesso la vittoria o la sconfitta nel caso di battaglia fra galee. La navigazione durò a lungo . Dopo ventuno gioni in cui erano stati in mare aperto giunsero al porto di Giaffa, da lì sarebbero presto arrivati alla città santa. Pietro era particolarmente emozionato, quei luoghi che suo padre aveva certamente visto, eccitavano la sua fantasia ridestando in lui la memoria dei racconti paterni. Gerardo e i suoi marinai, ormai esperti di quei posti, si muovevano con disinvoltura tra i mercanti arabi ed ebrei che affollavano la casba sotto un sole già cocente. Grazie al costante incitamento del monaco gli uomini arrivarono di fronte le bianche mura di Gerusalemme dopo appena tre giorni di cammino. Attraversata la porta di Giaffa, Pietro visitò quei posti che il padre gli aveva descritto nei minimi particolari, la splendida Porta Dorata, il maestoso Duomo nella Roccia e la bellissima moschea di Al Aqsa. Si commosse poi profondamente ripercorrendo la via Dolorosa fino al Santo Sepolcro e di fronte all’arco dell’Ecce Homo. L’ospetale creato da frà Gerardo sorgeva poco distante dal centro della città vecchia ed era in quel momento sovraffollato di poveri e pellegrini ammalati. Il vecchio monaco fu accolto con gioia dagli altri fratelli ospetalieri che Gerardo aveva saputo riunire in quel luogo santo. Essi possedevano un abito diverso da quello del frate, infatti sul largo saio nero avevano impresso una grande croce di colore rosso. Pietro fu colpito dalla solerzia e gentilezza con cui questi frati accudivano gli ammalati, il loro pasto veniva, infatti, servito in piatti d’argento, ed ogni possibile richiesta dei poveri pellegrini era prontamente esaudita. Trascorsi alcuni giorni dal loro arrivo, Pietro sentì l’impellente necessità di fornire egli stesso un aiuto a quei frati missionari e seguendo l’esempio dell’espero Gerardo, ben pesto fu in grado di rispondere alle principali necessità dei poveri malati. Gerardo si recò nella settimana seguente dal sultano che, avendo saputo del suo arrivo, aveva richiesto la sua presenza a palazzo. Il monaco ripassò mentalmente il discorso che si era preparato per illustrare al sultano l’eventualità di un assedio. Il suo tentativo consisteva nel trattare con i musulmani, per evitare ogni possibile ed inutile spargimento di sangue. Il monaco rimase deluso. Dopo aver lungamente conversato con il sultano riuscì a strappargli una sola promessa: avrebbe lasciato fino al momento dell’assedio il libero accesso ai pellegrini in visita ai luoghi santi senza recare loro il minimo disturbo. Passarono due anni di relativa calma, la notizia della riunione di un potente esercito cristiano, arrivata dalla lontana Costantinopoli, non sembrava turbare la tranquilla vita di Gerusalemme. Si sapeva infatti che esisteva un nucleo di soldati e cavalieri esperti sotto la guida di capitani abili e autorevoli; Goffredo di Buglione e suo fratello Baldovino a capo dei lorenesi; Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo capitano dei normanni di Puglia e il cugino Tancredi e Raimondo di Tolosa coi suoi provenzali. Questi eserciti, con l’aiuto dei greci, avevano prima conquistato la musulmana Nicea e poi la celebre e fortificata Antiochia. Ora si stavano dirigendo proprio verso Gerusalemme che doveva rappresentare il culmine delle loro imprese guerresche e ridare, con il loro eventuale successo, la città santa alla cristianità. Pietro non riusciva a comprendere i motivi di questi conflitti che con la religione avevano poco a che fare. Infatti non si sapeva bene se i crociati conquistassero quelle terre per loro conto o solo perché infervorati da un’accesa e sentita fede. Il potente esercito cristiano era ormai in vista della città santa. Il sultano si era subito apprestato alla difesa, consentendo a chiunque volesse di lasciare la città prima del tramonto. Furono ammassate enormi quantità di viveri e richiamate legioni di armigeri arabi dalle più lontane regioni. Tutto era pronto per sostenere un lungo ed estenuante assedio. All’alba del mattino seguente i cavalieri cristiani cominciarono ad arrivare e ad installare le tende per i comandanti e i numerosi soldati. L’assedio si dimostrò più nocivo per l'esercito che tentava di espugnare la città piuttosto che per coloro che cercavano di difenderla. Poiché alcuni cavalieri erano giunti già colpiti da dissenteria ed altre malattie da cui erano totalmente indifesi. A questo ben presto si aggiunse una penuria di forze fresche e viveri, dal momento che il sultano era riuscito a tagliare l’afflusso degli altri reparti cristiani. Gerardo, avendo saputo delle cattive condizioni in cui si trovavano quei poveri cavalieri, usciva di nascosto nella notte per recarsi sulle mura della città e gettare, dall’alto di queste, del pane ai crociati. Il monaco fu però scoperto e portato innanzi al sultano per discolparsi di quel gesto. Gerardo rimaneva in silenzio, la colpa era evidente, poteva solo sperare nella magnanimità del sultano. Furono portati i pani avvolti in un lenzuolo, insieme a questi giunse anche Pietro che non sembrava preoccupato e rassicurò con un gesto il povero frate. Il lenzuolo fu aperto e con grande sorpresa dei presenti e dello stesso Gerardo al posto dei pani vi erano solo dei grandi sassi rotondi. Molti gridarono al miracolo, ma il sultano umilmente si scusò con il coraggioso frate e lo lasciò andare. Pietro confessò poi a Gerardo che era stato facile corrompere uno degli armigeri e sostituire il pane con quei sassi. Il monaco lo ringraziò caldamente e l’amicizia tra i due divenne ancora più salda. La situazione era però destinata a subire una brusca svolta. I cavalieri cristiani avevano infranto il blocco e ingenti forze fresche e viveri giungevano in loro aiuto. Dopo poco tempo i crociati riuscirono a penetrare nella città santa creando un grande scompiglio. Eccitati da quella impresa si abbandonarono ad ogni sorta di crudeltà. Passando a fil di spada tutti i musulmani che incontravano sulla loro strada. In breve in Gerusalemme non rimase un solo arabo vivo, perfino il sultano fu barbaramente decapitato e la sua testa issata come trofeo su di una lancia. Poi i cavalieri, ancora con le vesti e le armature insanguinate, si diressero a piedi scalzi e cantando salmi verso i Santo Sepolcro per fare penitenza. Gerardo e Pietro rimasero profondamente scossi da quel massacro. Goffredo di Buglione fu nominato subito dagli altri nobili cavalieri, protettore del nuovo stato cristiano di Gerusalemme. Anche gli ebrei, che avevano sempre convissuto in pace con i musulmani, furono bruscamente allontanati dalla città santa. Il vecchio monaco era amareggiato, il suo sogno di pace e fratellanza era tragicamente svanito davanti quelle montagne di cadaveri che ancora affollavano le vie di Gerusalemme. Dal canto suo, Pietro non se la sentiva più di rimanere in quel luogo davanti allo scempio che era stato commesso. Decise che avrebbe al più presto fatto ritorno ad Amalfi. Gerardo non si oppose, ma disse che sarebbe rimasto, i pellegrini avevano ancora bisogno della sua presenza. Salutò quindi con rammarico Pietro che stava partendo con alcuni crociati francesi di ritorno in patria. Giunto a Giaffa, Pietro riuscì ad imbarcarsi su una galea che lo avrebbe riportato nella sua città. Dopo una settimana di navigazione, arrivarono vicino alle coste siciliane. I marinai erano costantemente all’erta, perché in quei paraggi erano frequenti le scorrerie dei pirati saraceni e un loro incontro sarebbe stato fatale. La notte era vicina, la nave gettò l’ancora al largo di una piccola insenatura, l’indomani sarebbe ripartita per la sua destinazione. Improvvisamente però la galea fu attaccata dai pirati che erano come comparsi dal nulla. La lotta fu inutile, i predoni si impossessarono subito di tutte le ricchezze dei marinai e dei passeggeri, giungendo a privarli perfino delle loro vesti. Quando toccò a Pietro i pirati notarono il tatuaggio sul petto e dopo aver parlato un po’ di tempo fra di loro si rivolsero a lui in arabo. Gli riferirono che tutti i cristiani in quel momento sulla galea sarebbero stati uccisi e che se voleva salvarsi doveva soltanto gettarsi in mare. L’alternativa era forzata. Pietro, dopo un attimo d’incertezza, si lanciò in mare iniziando a nuotare in direzione di quella riva che riusciva a malapena a distinguere. Ormai privo di qualsiasi energia e stremato all’inverosimile, era quasi sul punto di lasciarsi annegare, quando fu raccolto in mare da quei pescatori che lo avrebbero curato e nutrito. Il destino aveva voluto che si salvasse e Pietro che adesso si faceva chiamare Bedir non aveva nessuna intenzione di andare contro quel tragico destino e si era rassegnato a rimanere in quel luogo che era stato scelto per lui. Forse, se non avesse avuto la compagnia di Carminuccio quella sua obbligata solitudine sarebbe stata più dura. Di, ciò però non si lamentava, se Dio aveva voluto che rimanesse lì, era certamente per uno scopo. I giorni perciò passavano uguali l’uno all’altro e questa monotonia era interrotta solamente dai frequenti incontri tra Bedir ed il ragazzo. Ma un triste giorno le notizie di mortali scorrerie di pirati arrivarono dai paesi vicini. La popolazione era in allarme, molti abbandonavano le loro case rifugiandosi verso l’interno. Bedir era anch’egli preoccupato ma il suo pensiero andava solamente a Carminuccio e a sua nonna che non avrebbero mai avuto il tempo di allontanarsi. Questi suoi pensieri furono bruscamente disturbati da alte grida. Un pescatore remava all’impazzata e dalla sua barca invitava gli altri pescatori che erano sulla riva ad allontanarsi perché i predoni stavano per piombare sul paese. Bedir non sarebbe mai riuscito ad avvertire Carminuccio, prese allora una drammatica decisione. Strappò un brandello di stoffa dalle sue vesti e legatolo su una lunga canna andò incontro ai predoni che si avvicinavano minacciosi verso la spiaggia. Prima ancora che approdassero agitando la rudimentale bandiera gridò loro in arabo di allontanarsi perché in quel luogo infuriava la peste e avrebbero incontrato una sicura morte. Bedir lesse un’espressione d’incredulità negli occhi dei pirati e capì che se non fosse stato più che convincente tutto sarebbe stato perduto. Rivolgendosi allora ai predoni come in una supplica li pregò di scoccare dai loro archi una freccia che gli avrebbe abbreviato le sofferenze poiché anche lui era stato colpito dal terribile morbo. I pirati dopo una certa indecisione esaudirono la richiesta di Bedir ed un loro abile arciere lo colpì in pieno petto, poi rapidamente come erano giunti, si allontanarono. Bedir anche se moribondo riuscì a salutare per l’ultima volta Carminuccio che in lacrime era ai suoi piedi. Espresse solo un ultimo desiderio, di essere sepolto in terra consacrata. Così fu fatto. Nessuno seppe mai chi egli veramente fosse, rimase solo un leggendario ricordo di uno sconosciuto arabo che si era immolato per la loro salvezza.



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