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Giulio Lascàris è nato a Roma nel 1963. Abbandonati gli studi universitari a breve distanza dalla laurea in chimica, lavora come traduttore free-lance di testi scientifici, economici e letterari. E' autore (in collaborazione con Mario Ierardi) d' un saggio sulle teorie concernenti l'interpretazione dei graffiti, ed un suo lavoro sul linguaggio della pornografia sta per essere pubblicato sulla Rivista Il Paradiso degli orchi

Giulio Lascàris

L' IMPREVISTO DELLA REALTA'
di Giulio Lascàris

"Cosa può esserci di più fantastico
ed imprevisto della realtà?".


Fëodor DOSTOEVSKIJ

I

Scrivere una cronaca è un modo di produrre verità. E tuttavia, basta leggere più testi perché si abbiano versioni d'un fatto che differiscano anche sensibilmente.
Descrivere un fenomeno secondo le coordinate d'una scienza è un modo di produrre verità. E tuttavia, se si scalda un cristallo, al fisico interesserà il punto di fusione, al chimico le trasformazioni indotte dal balzo termico nella struttura molecolare.
Anche la poesia è un modo di produrre verità, almeno sotto quella particolare forma assunta dal vero, che è l'autentico: e di questo modo in poesia Belli è l'esempio principe. Tale prossimità, che comporta? Vediamo un uomo di colore, e lo chiamiamo "nero": cambiamo un oggetto con un altro, non ci sono problemi, non più di quanti ce ne sarebbero a chiarire la relazione tra la sedia e il fondoschiena che la occupa. Quindi quest'uomo parla: e noi ci interessiamo alle sue parole come se fossero nostre. Riconosciamo alla sua vita la medesima importanza che ha la nostra.
Ma supponiamo di essere razzisti: la parola "nero" e quel che connota s'interporrà tra noi e la persona, e noi vedremo la parola ma non l'uomo. Il linguaggio non è più l'occhiale attraverso cui vediamo le cose, ma diviene le cose stesse, le sostituisce, le surroga.
Questa surrogazione è la radice del kitsch. Invece, fare poesia della realtà, produrre verità, vuol dire ripristinare una visione del mondo attraverso le parole là dove si vedeva solo il linguaggio, scansare da davanti gli occhi quelle parole che impediscono di vedere le cose, per metterci quelle che consentono di guardarle, che le portano con sé.
Poesia come arte della vista, insomma: e questo vuol dire sia, come detto, eliminare le parole che fabbricano un'immagine falsa del mondo; sia riportare in quest'immagine ciò che vi era stato tolto, quel che non si vede e non si può vedere, che è fuori scena: che è, infine, osceno. Dice Giorgio Vigolo: "La figurazione raggiunge una sua monumentalità romanesca, dov'è tipico il fondersi del dire col mostrare nella ostensione del termine fallico".
Per scuotersi di dosso la lingua comune bisogna dunque venire in contatto, o cercare, o addirittura inventare una alternativa, la lingua dell'altro: ci si accorge della figura solo tramite lo sfondo. Per Belli questa lingua sarà il dialetto, ed il cinema per Pasolini (pure lui produttore di verità, in questo senso: e forse solo in questo). Entrambe sono lingue della realtà, e lingue del corpo. Sostituendo il dialetto e il cinema alla lingua "civile" e borghese, questi Autori hanno cercato di scavalcare il discorso sulle cose, e di ricondurre al discorso con le cose, e delle cose.
Il dialetto, e non l'italiano, era quel che i Romaneschi parlavano quotidianamente: con esso si esprimevano, e quello era la lente che gli consentiva di vedere il mondo. E qui troviamo l'ingranaggio per la produzione di verità: se Belli si fosse limitato a trasferire, a tradurre in dialetto l'Arcadia, il vernacolo sarebbe stato lingua morta quanto l'italiano. Ma il Poeta riporta (nei limiti della sua disposizione, sia ben chiaro) la visione del mondo dei Romaneschi. E di nuovo: se l'avesse riportata in italiano, l'avrebbe tradotta e tradita, piegandola ad un'espressione straniera e dunque inautentica. Belli invece impiega il dialetto, e la sua grammatica, senza alterare la grammatica della vita che lo genera e lo sottende, anzi, proprio per renderla con piena immediatezza. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad un caso felice dell'aforisma che vuole il linguaggio una forma di vita (un uso, un costume). Comprendere il dialetto non è travasarlo in una lingua (sebbene vi siano logici per i quali la verità di un asserto consiste nella sua traducibilità in un metalinguaggio: vedi l'adeguatezza materiale in Tarski): è presentare con esso il vissuto che per suo tramite si esprimeva. Così, e semplicemente: lo svorta' li sòrdi del borgataro non è l' ottenere un guadagno del pariolino. Una vita separa le due occorrenze verbali, e se non si riporta e rievoca, o peggio se si traduce la prima nella seconda, nessuna comprensione è più possibile.
Questo ci insegna Belli en poète, e cento anni più tardi Pasolini - con l'errore di non mettere in gioco la vita e il corpo, ma la sua vita e il suo corpo - usando come equivalente del dialetto le immagini che si muovono.

II

Abbiamo visto essere il dialetto una lingua della realtà, della fisicità. Del corpo, insomma: e perciò del luogo dove il corpo celebra la sua totalità: il sesso. Non c'è, per anticlimax, argomento tanto dibattuto quanto ciò di cui è conveniente o si deve tacere. Qui siamo davvero in piena proliferazione dei discorsi, come voleva Foucault. E qui più che altrove è la parola, il discorso, a prendere il posto della cosa, a montare sulla scena in vece sua. Tuttavia, il mondo è fatto di cose e di oggetti, di corpi appunto. E il discorso con il corpo in mezzo (Erri De Luca) - delle sue dinamiche, valenze e violenze - è perciò quello che più d'ogni altro è mimetico del mondo, gli è perspicuo. Se si vuol dire della materia del mondo e dei suoi corpi, nulla di meglio ho a disposizione del sesso e, pure, d'un altro discorso ad essi dèdito: la scienza.
Questo capì ed insegnò il divin marchese. Nella sua opera infatti Sade descrive un universo meccanico e fisico (leggi:corporeo), dove null'altro c'è che la materia. E si può ritenere che questo teatro della materia sia una geniale, gigantesca parodia delle filosofie illuministiche e materialistiche di fine Settecento. Sade sembra dire: "Per voi c'è solo materia? Ebbene, guardate un po' cosa succede applicando strettamente questo principio!".
Un materialista riterrebbe questa parodia un fraintendimento. Ma non potrebbe negarle forza e potenza e coerente logicità poiché illustra come la ragione, e non il suo sonno, genera mostri, e come gli statuti del castello di Silling siano la prosecuzione delle regole del vivere civile: come scrive Roberta Chiurco, presentando La moneta vivente di Pierre Klossowsky (Mimesis, Milano 1989, p. 21) "nel descrivere l' immaginaria società libertina, (Sade) mostra di volersi a tutti i costi mantenere all' interno delle regole su cui si fonda la società istituzionale, dalla quale anzi la prima eredita la struttura ed il funzionamento fino a trasformarsi in semplice risvolto ed in naturale proseguimento della seconda".
Questo dove' sedurre l'ultimo Pasolini, la possibilità cioè di illustrare come sia la norma a creare l'anormale. Il farmaco, già dal nome, è sia cura che veleno, ogni ordine produce entropia, e la legge è matrice del crimine.
E' chiaro che Belli non poteva giungere fin qui: vivendo nell'incubatrice papalina, gli mancarono i fermenti che dileggiò Sade. E però non c'è scampo: la realtà, la verità vogliono il corpo. E se, ammettendo col Vigolo, che il realismo del Belli è pure fantastico, lo è perché il reale romano ha una forte connotazione irreale: Roma è pure scenografia, quinta, cinema ante litteram, gigantesco set la cui solidità è sogno e cartapesta. Riportarla è far cronaca d'una fiaba: e, nondimeno, fare cronaca, stare ben immersi nel concreto.
Così, l' identità dei Romaneschi è sì salvaguardata rispettando la grammatica della loro vita attraverso il riporto attento della loro lingua - e la comprensione di questa è assicurata rievocando i vissuti: ma la percezione dell'irrealtà, della finzione, dell'ipocrisia della "lingua civile" e della vita che pretenderebbe di rendere piglia le mosse dal corpo. Il Poeta fa dei Romaneschi parole in un discorso che proclama: ho fame, sto male, non posso fare l'amore e se lo faccio vado all'inferno. Non sarà che c'è qualcosa che non funziona? Non sarà che i panni di cui mi vogliono vestire, le identità di buon cristiano, di suddito fedele, di uomo civile, non sono le mie?
In questo il sesso è componente e motore della verità sfacciata. Non aver casa o da mangiare in fin dei conti riguarda proprietà e oggetti che non dipendono da noi. Ma il nostro corpo è nostro, siamo noi: e quando ce ne viene intralciato l'uso, cominciamo a pensare che il mondo in cui si vive è alieno, non ci corrisponde più. Ogni comunicazione è interrotta, non è più possibile. La comunicazione e dunque il linguaggio hanno perciò questa precondizione: il rapporto tra corpo e corpo, tra il nostro corpo e il luogo di tutti i corpi - il mondo - e i corpi stessi. Senza Eros non c'è linguaggio, la filosofia è anche Eros (cfr. Il Simposio).
Dunque: il nostro corpo siamo noi. Con esso viviamo, e compiamo gli atti di quella grammatica che è la nostra forma di vita, il nostro linguaggio quindi. E tutto ciò è la nostra identità. Quest'arte della vista, e questa comunicazione, rapporto, tra corpo e corpi, ci dà, ci restituisce, ci rende possibile parlare di noi, dire io. Ci consente infine di produrre un discorso vero anche su di noi.
E qui ci si prospetta l'inconscio e l'introspezione. E se è vero, come voleva Lacan, che l'inconscio è strutturato come un linguaggio, allora è pure vero che, in quanto linguaggio, può dire fesserie. E su ciò di cui non si può parlare, allora è meglio tacere.




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