Capitolo 31 - Una foto
Ho acceso la radio e sono rimasto inerte ad ascoltare, in un cocktail confuso e rimbombante, canzoni italiane, il dolore del mio naso e i miei lamentosi pensieri.
Mi faccio impacchi per un'ora, passando l'asciugamano nella ghiacciaia ogni volta che il dolore torna a farsi violento - gli impacchi servono più a "distrarmi" dal male che a lenirlo.
"Mi ha rovinato! Quel bastardo mi ha rovinato!"
Lascio che i pensieri si succedano senza cercarli e, una volta che sono arrivati, li abbandono subito.
Sento un campanile battere le ore e dico: "Adesso vado dalla polizia!". Ma non mi muovo.
Faccio passare altri minuti (dieci? venti? un'ora?) e dico: "Adesso mi ammazzo!".
Esagero perché di ammazzarmi non sento per nulla il bisogno. In fondo non riesco neppure a farmi pena da solo.
Eppure, poco a poco, mi sento meglio.
Penso che il diretto sul naso avesse ucciso un'immagine di me stesso che non mi piaceva e se ora, per me stesso, potesse cominciare finalmente qualcosa di nuovo.
"E Vancilea?"
Sbuffo, facendo vibrare il labbro superiore e risvegliando un dolore leggero alle gengive: "Prendo i miei appunti e riprendo a studiare!".
Ma di tutti i propositi questo è proprio quello più velleitario e falso.
Guardo in giro e poi mi guardo le mani incrociate sul ventre come quelle dei vecchi quando pregano.
"Vado da Fano!" Decido, e finalmente mi è sembra di avere preso una buona decisione.
Ed esco da casa.

Per strada ho l'impressione che tutti debbano guardarmi e soprattutto guardarmi il naso, ma devo convincermi - anche con dispetto - che hanno tutti altri pensieri e che, in questo mondo maledetto ed egoista, a nessuno non importa proprio niente di me e tanto meno della mia povera proboscide schiacciata.
Passo ferocemente dal fastidio di sentirmi osservato alla rabbia di sentirmi ignorato, perché non è giusto che nessuno senta la mia disperazione di povero ragazzo cui è stata strappata la donna che amava e che, per misura, è stato pure pestato!
Un gagnetto malefico che insegue un coetaneo in bicicletta mi viene tra le gambe e mi zompa di slancio su un piede. Non chiede scusa, ma riprende la corsa senza guardarmi ed è fortunato perché se si fosse attardato gli avrei rifilato un calcione da farlo volare cento metri più avanti.
Chissà perché, in questo mondo dove non c'è giustizia, un angelo custode attentissimo protegge sempre i gagni peggiori dalla sorte che meritano e non lascia che, chi le ha prese da uno grosso, possa rifarsi subito picchiando uno più piccolo.

Fano è seduto sul gradino d'ingresso e non si accorge di me che quando mi siedo di fianco a lui.
Non mi guarda ed io non lo guardo.
Non mi saluta ed io non lo saluto.
Solo quando passa un gruppo di ragazzette tutte carine e abbastanza rumorose alziamo gli occhi a guardarle e a guardargli le gambe. Quando sono passate, Fano mi dice senza espressione: "Remì se n'è andata".
Penso a quando l'ho incontrata questa mattina con Vancilea: l'aveva già lasciato ed era appena finito anche per loro.
Scuoto la testa: "A me hanno portato via Vancilea."
Per la prima volta gira la testa verso di me e mi osserva con attenzione: "Hai preso una botta sul naso? Da lei?"
Gli racconto tutto e lui non mi interrompe mentre parlo.
Quando io ho finito, Stefano mi racconta che questa mattina ha litigato con Remì. "Ma non abbiamo litigato davvero."
Però, dopo, lei non ha più detto nulla ed ha preparato una sacca con le sue cose e gli ha lasciato un biglietto con scritto: "Me ne vado. Ciao!"
"Poteva scrivere qualcosa di più!" Sospira.
Già, poteva scrivere qualcosa in più, ma forse non voleva scrivere parole cattive.
"Mi ha anche portato via i soldi che tenevamo per le spese di tutti i giorni!"
"Tanto?"
"No: centomila lire, forse centocinquanta. Ed in fondo erano soldi di tutti e due."
Stiamo nuovamente in silenzio, poi Stefano sputa su un tombino alla sua destra: "Ma dimmi se doveva finire così!"
Penso la stessa cosa, esattamente la stessa cosa per me.
Sputerei anch'io, ma mi fa male muovere il labbro superiore.

Stefano cerca in un cassetto, e alla fine trova e mi porge una fotografia fatta con una Polaroid: Vancilea e Remì sedute, come eravamo noi, vicine sullo stesso gradino.
"L'ho scattata il giorno delle partite a scacchi."
"Non sapevo l'avessi fatta." Brontolo sorpreso ed osservo le due ragazze come a convincermi che non le abbiamo perse veramente.
Si stringe le spalle: "Tu eri sparito a comprare qualcosa."
Qualcosa? La spilla a gatto! Sono passati secoli da allora.
Dalla foto, Vancilea mi guarda e mi guarderebbe in eterno se, d'improvviso, Stefano non mi prendesse la foto e la stappasse a metà. Resto inorridito ed anche Stefano resta fermo, sorpreso egli stesso del suo gesto. Poi sorride imbarazzato: "Si è strappata bene, proprio tra loro due!"
Scuote la testa, ride ancora, e mi passa una mezza foto. La prendo e guardo Remì che, con gli occhi bassi e un po' tristi, sembra aspettare una carezza. Guardo Stefano che mi guarda a sua volta, poi osserva la sua metà di foto con Vancilea e alza le sopracciglia.
Ci riscambiamo avviliti le mezze foto: finalmente mi osservo la mia Vancilea e poi la salvo nel taschino della camicia prima che Stefano abbia un altro raptus.
Lentamente viene sera.

"Andiamo a cena da qualche parte?" Dico, stanco di vedere Stefano alzarsi e risedersi senza avere fatto nulla.
Alza le spalle: "Sono a corto di liquidi, grazie a Remì!"
Alzo le spalle anch'io: "Offro io: tutto quello che riesci a mangiare!"
Tanto pago coi soldi dell'armadio ammacca nasi. Ed ho fame, una fame selvaggia.
Un colombo zoppo viene a beccarmi una briciola tra i piedi e devo fermarmi per non pestarlo.
"Bisogna accontentarsi sempre delle briciole!" Commenta Stefano con voce strana.
Alzo le spalle: "Io ho fame! Ho fame! Ho fame!"
Guardo Stefano e vedo che piange in silenzio.



Salvario
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