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Cazzo, avevamo passato più di 4 ore a spostare pesantissime lastre di marmo da un punto all’altro del magazzino. Stavamo allestendo uno show-room, ci pagavano pure bene. Uno dei dirigenti dell’azienda ci chiamava con lo schiocco delle dita, come si fa con le foche. Eravamo una decina di facchini, divisi in 3 gruppi. Il dirigente dava indicazioni sul da farsi, ci si avvicinava per poi allontanarsi nuovamente. Indietreggiava fino al punto in cui la prospettiva gli avrebbe permesso di avere uno sguardo d’insieme sulla disposizione degli elementi. Voleva una disposizione semplice e lineare, senza dirci molto di più. Ci diceva di fare questo o quello, sembrava avere le idee piuttosto chiare. Ma ogni volta dovevamo ricominciare tutto daccapo. Cercava di rivolgersi a noi con un sorriso di fiducia, anche se lì dentro faceva molto freddo. Era Ottobre, proprio come ce lo immaginiamo di solito. Una cosa del genere. Alle 2 andiamo in pausa pranzo. Abbiamo mangiato un panino al bar della stazione. A Foligno ci sono i bar e i treni. Il prossimo per Ancona sarebbe partito alle 2.30, con 20 minuti di ritardo. Lo aveva annunciato una voce squillante che, dagli altoparlanti, si scusava per il disagio. Seguì un lungo boato lamentoso. C’era un vecchio con una piccola valigia in mano che diceva di non poterne proprio più. Continuava a guardarsi intorno, cercando il consenso negli occhi altrui. Una ragazza madre stava chiamando qualcuno, mentre il figlio le tirava la giacca da sotto. Due giapponesi consultavano la tabella degli orari appesa alla parete. Tutti parlavano di coincidenze, del fatto che avrebbero sicuramente perso la coincidenza. Il barista mi disse che il caffè era pronto. I miei colleghi si erano seduti sopra il muretto che costeggiava il parcheggio della stazione. Alcuni si erano accasciati a terra. Non appena li raggiungo alcuni di loro cominciano a sfottermi, tanto per ingannare l’attesa. C’è Luca che mi chiede sempre come sta mia madre o mia sorella o cose del genere. Gliel’ho già detto tante volte che questo genere di ironia non fa più ridere da almeno una decina di anni. Così mi siedo vicino a Matteo, ché mi chiede sempre se ho da accendere. Capita spesso che io gli presti il mio accendino, in cambio lui mi offre una sigaretta. Dice che appena ne compra uno nuovo, nel giro di poche ore se lo perde da qualche parte. Matteo voleva fare il pilota di aerei, me l’avrà detto centinaia di volte. Quando mi ridà l’accendino lo guardo negli occhi, talmente a lungo che poi mi chiede perché cazzo lo stessi guardando in quel modo. I suoi occhi erano brace spenta, si sentiva ancora puzza di bruciato. Ho pensato a quante volte mi avesse raccontato di voler volare. Non gli ho mai chiesto verso dove. Ora ce ne stavamo lì, avremmo riattaccato il turno verso le 3. Passa un vecchio in sella a una bici tutta scassata, sembra cadere da un momento all’altro. Lo guardiamo senza dire niente, poi Fabrizio gli urla è ora che muori. Fabrizio invece voleva fare il calciatore. Era davvero bravo, c’ha pure un paio di coppe a casa. Giochiamo insieme a calcetto tutti i Lunedì sera. Dagli altoparlanti la stessa voce squillante di prima avvertiva che il treno per Ancona era in arrivo, scusandosi nuovamente per il disagio. Io quel treno volevo proprio prenderlo, me l’ero messo in testa. Così ho detto agli altri che sarei andato un secondo al bagno, chissà se poi mi sono venuti a cercare. Il treno era sul terzo binario. Correndo attraverso il sottopassaggio vedo una scritta: lezioni di flauto, seguita da un numero di telefono. Quando mi avvicino alla porta del vagone più vicino, chiedo se quello su cui stavo per salire era il treno giusto, quello per Ancona. Sì, mi dicono. Non appena entro mi chiudo in bagno e spengo il cellulare, avrei fatto perdere le mie tracce. Poi il treno parte. Me ne sto chiuso lì dentro per tutta la durata del tragitto, ché non c’ho neanche il biglietto. Una ventina di sigarette in due ore. Ogni tanto bussa qualcuno, ma io tossisco e dico che ho quasi finito. Il controllore non si è mai fatto vivo. Avevo abbassato il finestrino, quel tanto che bastava per far circolare un po’ d’aria. Vedevo una fessura di paesaggio, strisce di alberi, case e colline scivolare via ad alta velocità. Non ne potevo più di tutte quelle lastre di marmo, quella puzza di bruciato, quei giorni tutti uguali. Sapevo che dal porto di Ancona partivano navi per la Croazia, per i paesi al di là dell’Adriatico. Un po’ di soldi ce li avevo, li avevo messi da parte con gli straordinari. Una voce disse che eravamo arrivati alla stazione di Ancona. Scendo, lasciando i guanti da lavoro dentro al cesso del treno. Un paio di guanti gialli, induriti dal freddo. Chiedo indicazioni, per poi incamminarmi verso la biglietteria del Porto. All’Ufficio Informazioni mi chiedono dove volessi viaggiare, gli rispondo che mi va bene qualsiasi destinazione, purché parta al più presto. Un biglietto per Spalato, mi informano. Va bene, lo prendo. La nave sarebbe partita l’indomani mattina, verso le 6. C’avevo una lunga notte davanti, ma in fondo mi andava di stare in giro e vedere cose nuove. Entro in un bar e prendo una birra, poi un’altra e poi un’altra ancora. Sigarette, birra e facce. Cazzo, il tempo volava. Guardavo le navi attraccate, le chiglie appena riverniciate. Gru e luci, mille luci calde. Chiesi un’altra birra, l’ultima. Mi immaginavo cosa avrei potuto fare in Croazia, ma non mi veniva in mente niente. Sapevo soltanto che non avrei voluto aspettare tutto quel tempo, ma non potevo farci niente. Un tizio col ventre rigonfio mi chiede da accendere. Poi passano un cane e un paio di gatti, cani e gatti normali, mentre la radio racconta cosa è successo oggi. Ero troppo ubriaco per farmi un giro, quasi mezzanotte e il bar stava per chiudere. Così mi distesi a terra, vicino ad un distributore di lattine che mi faceva luce. Non volevo che qualcuno mi pestasse senza accorgersi di me. Spalato, cazzo. Sarei arrivato a Spalato, cominciai a pensare. Via, lontano da tutti ‘sti giorni sempre uguali‘. Luca non mi avrebbe più chiesto di mia sorella o mia madre, Matteo non mi avrebbe più chiesto di accenderlo. Cazzo, Spalato. Con gli occhi ormai quasi chiusi, intravidi le ultime strisce di navi riprendere fiato nelle placide acque del porto. |